Alieno è
Nella fantascienza il ‘primo contatto’ con gli alieni (nel senso di extraterrestri) si traduce spesso in guerra. I Sapiens sapiens delegati allo storico incontro o che casualmente s’imbattono in ‘creature pensanti dello spazio esterno’ di solito sono stupidi, spaventati e magari anche militaristi ed espansionisti. A mio avviso le parole ‘stupidi’ e ‘spaventati’ si possono sintetizzare in una sola: razzisti. Nella fantascienza reazionaria invece è ovvio, e soprattutto giusto, che si spari subito; non esistono alternative: l’unico alieno buono è quello morto.
Se qualcuno si stupisce, non ha ben presente la storia del nostro pianetucolo, i cui dominatori godono già di un lungo tirocinio con gli alieni di casa. Ecco in ordine alfabetico un elenco neppure completo: albini, ebrei, gay, handicappati, musi gialli, pazzi, pellerossa, sporchi negri, streghe, zingari… C’è chi, con purtroppo documentate ragioni storiche, propone di sostituire a streghe la parola donne.
Vi sono poi sempre nuovi razzismi: grazie alla dittatura di Pol Spot (non è un Cambogiano ma l’abbreviazione di Polimorfo Spot, ovvero la pubblicità dai mille volti e dai centomila martelli), rischia discriminazioni pesanti chiunque sia brutto/a o grasso/a – secondo i canoni dettati appunto da persuasori occulti e palesi – o perfino non abbastanza ‘alla moda’.
Cosa intendiamo per alieni? Per iniziare vediamo qualche definizione.
I vocabolari, per esempio Il Grande Dizionario Garzanti, di solito la mettono così: “Aggettivo: 1) contrario, avverso; 2) (di registro letterario) che appartiene ad altri, estraneo. Sostantivo: nel linguaggio della fantascienza chi appartiene ad altri mondi, extraterrestre”. Tutto qui.
Invece su Wikipedia si legge: “La parola alieno (dal latino alienus col vario significato di: ‘appartenente ad altri, altrui; straniero; estraneo; avverso’) assume diversi significati in funzione del contesto di riferimento. In generale indica una qualunque cosa o soggetto estraneo all’ambiente di riferimento”. Rimanda poi a varie voci: “Alieno (biologia), una specie alloctona ovvero che abita o colonizza un habitat diverso da quello originario. Forma di vita extraterrestre, una forma di vita non originaria del pianeta Terra. Extraterrestri nella fantascienza, personaggi delle opere di fantasia e della cultura popolare. Alienazione, espropriazione di un bene”.
Se preferite possiamo fare un bel salto nel tempo, dalle parti del 165 avanti Cristo, e ragionarne con Publio Terenzio Afro: “Sono un uomo: nulla di umano può essermi alieno”. Che molti citino Terenzio o Publio Terenzio omettendo Afro è un caso? A ogni modo “Homo sum, humani nihil a me alienum puto” (Heautontimorùmenos [Il Punitore di Sé stesso], v. 77) è esattamente l’opposto della scritta che campeggia sulle t-shirt degli attivisti di Forza Nuova (gruppo neonazista, per chi non lo sapesse): “Difendi il tuo simile, distruggi il diverso”.
Anche nella fantascienza le definizioni sono assai varie. In un libro italiano per la scuola, La Musa Stupefatta o della Fantascienza (1974), Franco Ferrini azzardava questa: “Alien è l’extraterrestre spesso ostile agli umani. L’idea di ostilità era già implicita nell’aggettivo latino alienus”. Diverso, nemico, perciò mostro: deduzioni rapide e conclusive. Elementare Watson.
Anticipiamo un più complesso punto di vista esaminando il ragionare di Guido Ferraro e di Isabella Brugo nel loro Comunque Umani (2008, sottotitolo: “Dietro le figure di mostri, alieni, orchi e vampiri”), in particolare nel capitolo quarto centrato proprio sugli alieni nel cinema e, in misura minore, nella letteratura fantastica: “L’alieno vale, dunque, come un modo tra gli altri – ma forse più forte ed estremo degli altri – per rappresentare il Male. Gli storici della cultura potranno notare che la tematica degli alieni si è sviluppata in concomitanza con il venir meno di altre figure di ‘estranei totali’, che si trattasse di figure metafisiche (i demoni), leggendarie (orchi, vampiri…) o razziali (i ‘selvaggi’). Se in tale prospettiva ‘malvagio’ risulta essere chi è diverso da noi, l’alieno può ben rappresentare il diverso totale, interamente e incondizionatamente negativo dal punto di vista morale, con un grado di assolutezza che in effetti difficilmente può essere riconosciuto ad altri protagonisti negativi. Se si può sempre entrare nel modo di pensare di un gangster o di un terrorista, la costruzione della figura standard dell’alieno implica proprio questa impossibilità; la definizione stessa del concetto di ‘alieno’ poggia sul fatto che esso non è semplicemente diverso e non umano, ma è del tutto estraneo e illeggibile”. Verso la fine del libro Ferrario e Brugo ci ricorderanno che “la questione centrale dunque non riguarda più ‘che cosa sono’ i mostri, ma ‘come li creiamo’ e come gestiamo il nostro rapporto con loro”. Sostituite pure alieni a mostri, almeno in questo contesto sono intercambiabili.
Un ragionare analogo si trova verso la fine del saggio Mostri di Fabio Giovannini (1999), dove si esamina “l’inversione di rotta” al cinema: dall’alieno cattivo a quello buono sino “all’alieno dentro di noi”.
D’altro canto il filosofo Adorno ci aveva già messo in guardia scrivendo: “la cosa più inquietante è scoprire quanto i mostri ci assomiglino”.
Per molte persone gli alieni restano però gli UFO (i non anglomani preferiscono OVNI, oggetti volanti non identificati). Per capire “come e perché sono giunti tra noi” e dilagati nell’immaginario collettivo proprio in quel particolare periodo storico (gli anni ’40 e ’50 del secolo scorso) consiglio il piacevole quanto dotto Gli Alieni di Tommaso Pincio (2006), che incrocia Enrico ed Elvis (ovvero Fermi e Presley), l’hula hop e l’atomica, la lascivia e Von Braun, il nazismo ed Epicuro, Voltaire e il complottismo, strane cose che si vedono nel cielo e Jung, Giordano Bruno e i dischi volanti. È bravo Pincio ad allargare un ben ristretto orizzonte – gli USA della guerra fredda –, e qui si tenterà di fare lo stesso con tutti gli altri alieni raccontati dalla fantascienza, che è letteratura inquietante (o non compresa), dunque rimossa dalla ‘gente seria’.
Alieni fuori e dentro
Nel presentare il romanzo Il Segreto degli Asadi (Transfigurations, 1979) di Michael Bishop, osserva giustamente Piergiorgio Nicolazzini che “ciò che ci appare ‘alieno’ è forse il riflesso di qualcosa che è anche nostro, ma ormai dimenticato e sepolto”.
Alieni dentro di noi? “Eliminato l’impossibile, qualunque cosa rimanga, per improbabile che sia deve essere la verità” raccomandava Sherlock Holmes; ma gli si oppone Anthony Boucher, buono scrittore di fantascienza (e altro), con puntate sull’ottimo “Eliminato l’impossibile, se non rimane nulla, una parte dell’impossibile deve essere la verità”. In questo caso l’impossibile, per molte persone, è che gli alieni sono da sempre fra noi, anzi possiamo cercarli – avremmo sempre potuto cercarli – anche dentro di noi.
Forse crescono dentro di noi, e in questo caso nella fantascienza vengono indicati come ‘mutanti’; se ne accennerà più avanti.
Tirar sassate agli sconosciuti
Negli ultimi tempi quasi nessuno in Italia si dice razzista, salvo poi precisare: però sugli ebrei (o sugli zingari) Hitler non aveva del tutto torto. Già negli anni ’90 il ‘non sono razzista ma…’ imperversava, e su Cuore, una rivista satirica ma spesso serissima, Enzo Costa riassumeva così questa visione del mondo: “Non sono un razzista ma quando sull’autobus un negro mi siede accanto io cambio posto. Non sono un razzista, sono un bianco”. Unendo ironia a rigore, il genetista Guido Barbujani e il giornalista Pietro Cheli hanno scritto, nel 2008, Sono Razzista ma Sto Cercando di Smettere, mentre nel 2001 l’antropologa Geneviève Makaping aveva proposto in Traiettorie di Sguardi l’istruttivo gioco del ‘io guardo come voi (bianchi) guardate me (nera)’. Solo due libri recenti sull’Italia d’oggi – che è multietnica ma fa finta di non saperlo – per pensarci su.
E torniamo subito alla fantascienza e al suo modo di vedere gli stranieri. La dice lunga che perfino questa letteratura all’incrocio fra desideri e paure abbia di solito invitato a tirar sassate agli sconosciuti senza neppure chiedere ‘chi va là’. Lo ha fatto perché storicamente in molte persone a livello inconscio prevaleva il timore sul desiderio, e ne derivava una precisa scelta di campo, culturale e politica: in particolare gli autori (maschi, con qualche femmina di puro complemento e perlopiù celata da pseudonimi) della prima science fiction erano wasp – cioè bianchi, anglosassoni, protestanti –, perciò gli alieni venuti dallo spazio non potevano che essere bem (bug eyed monster, cioè mostri dagli occhi d’insetto), dunque peggio delle ‘scimmie’ negre e simili che circolano sulla Terra.
1818, l’anno zero
Bianchi, anglosassoni, protestanti… In realtà la fantascienza moderna, pur anglo, non era stata concepita maschia, visto che il suo atto di nascita coincide con la pubblicazione nel 1818 del Frankenstein di Mary Shelley. Ma è nel passaggio fra ’800 e ’900 prima (con Verne, Wells, più qualche comprimario), e poi nel pieno del XX Secolo che, soprattutto grazie alle pubblicazioni popolari, diviene una letteratura di massa; in questo passaggio a scriverla – e a leggerla – sono inizialmente ometti del tipo babbuino aggressivo. Con qualche interessante eccezione.
Per fare qualche esempio della ‘regola’ ecco uno dei padri, H.G. Wells, che per instillarci antipatia verso il cattivo di turno (l’Uomo Invisibile) ce lo descrive come albino. Presentando i marziani, ne La Guerra dei Mondi (The War of the Worlds), ne dà una visione talmente terrificante da concludere: “Sin da quel primo incontro fui sopraffatto dal disgusto e dall’orrore”. Combinazione: La Guerra dei Mondi è del 1897, stesso anno dell’inquietante Dracula. Torniamo a Wells: quando un normale finisce Nel Paese dei Ciechi (dal racconto The Country of the Blind, 1904) constata che quei diversi sono stupidi e cattivi. E ancora lui nel suo libro più famoso, La Macchina del Tempo (The Time Machine, 1895), prevede che i proletari si abbrutiranno, un’evoluzione alla rovescia. Era un uomo del suo tempo: pur dicendosi sostenitore del pacifismo e del socialismo era al fondo piuttosto reazionario.
Se vi interessano altri esempi di fantascienza razzista consiglio Sei Morto! (Nu Dog Du: Bombernas Århundrade, 1999) di Sven Lindqvist, che racconta benissimo i legami fra guerre vere e immaginarie.
A parte le solite interessanti eccezioni (quasi invisibili nel diffuso andazzo) occorrono decenni perché nella sci-fi inizi distinguersi l’idea di un alieno che non è ostile o una concezione del mondo (meglio: mondi) non bipedo-centrica. Esempi di quelle eccezioni sono Un’Odissea Marziana (A Martian Odyssey, 1934) di Stanley Weinbaum e Il Costruttore di Stelle (Star Maker, 1937) di Olaf Stapledon; ma la regola appunto è l’altra, ovvero l’alieno inevitabilmente resta il nemico nella science fiction di massa, quella cioè che conquista il pubblico poco dopo il 100 d.F. (dopo Frankenstein).
Prendiamo John Campbell, uno dei padri della fantascienza moderna. Secondo lo scrittore Philip José Farmer: “Alcuni suoi difensori sostengono oggi che Campbell non era razzista e che non considerava i neri africani come esseri umani inferiori; purtroppo i suoi scritti e le conversazioni private che ho avuto con lui dimostrano il contrario”. A conferma anche un suo editoriale sulla rivista Analog nell’agosto 1968, dopo l’assassinio di Martin Luther King; da un lato Campbell esalta la figura di King come apostolo della non-violenza ma dall’altro offre una conclusione in linea con il dominio dei bianchi: “Naturalmente il Nero vuole risultati definitivi oggi, e magari ieri. Quest’impazienza è vecchia come l’uomo… e come i bambini. Purtroppo, non è possibile che le cose vadano così. Non si può fare così”. Siete troppo alieni, la colpa è vostra.
Anche altri scrittori che hanno giocato un ruolo importante nell’evoluzione della fantascienza – in particolare Robert A. Heinlein – hanno esaltato la superiorità del terrestre wasp su chiunque altro.
Lentamente alcuni scrittori (e, solo dopo, scrittrici, perché all’epoca erano emarginate) pongono il dubbio: se sotto quella pelle strana – azzurra o verde, i colori che sulla Terra mancano nella gamma delle epidermidi umane – vi fosse un’intelligenza, persino un’anima? All’inizio vengono accettati alcuni hilf (humanoid intelligent life forms) talmente simili a noi da suggerire che lo sforzo di approvazione sia misurabile in decimi di millimetro. Poi ci si fa più audaci.
E se io fossi lui o lei?
Ovviamente assumere il punto di vista dello straniero (dell’alieno totale) fra noi può essere interessante, come già avevano dimostrato Lettere Persiane di Montesquieu (Lettres Persanes, 1721) e Micromégas (1752, con gli extraterrestri al posto dei persiani) di Voltaire, e nel secolo scorso (1920) Papalagi di Tuiavii di Tiavea. Prima che Fredric Brown re-inventasse questo genere per la fantascienza – lo vedremo fra poco – qualcuno (per citarne uno solo, l’allora quasi esordiente Isaac Asimov nel racconto Homo Sol del 1940) aveva già assunto il punto di vista degli E.T. invece che dei terrestri; ma erano le classiche mosche bianche.
Nel 1954 arriva Fredric Brown con il breve, squassante racconto Sentinella (Sentry). Brown è tornato spesso sul tema, in forma più ironica. Uno dei suoi racconti più famosi è Il Vecchio, il Mostro Spaziale e l’Asino (Puppet Show) del 1962. In uno sperduto paesino arriva un allampanato extraterrestre a dorso di un asino. Vagamente umanoide, è alto quasi 3 metri, sottilissimo, e ha la pelle che sembra scuoiata. Dichiara di essere andato lì per verificare se i terrestri sono maturi abbastanza per entrare nella Confederazione Galattica. C’è un doppio colpo di scena che sarebbe però un delitto rivelare. Brown fa intravedere come questa ‘maturità’ sia ancora tutta da verificare, visto che i terrestri giudicano in base alle apparenze fisiche.
Decisamente umoristico il suo romanzo Marziani, Andate a Casa (Martians, Go Home) del 1955. La storia concerne un’invasione pacifica ma assai seccante. Infatti gli alieni, più che cattivi o incomprensibili, sono… no, lasciamolo dire all’autore con tutte le precisazioni necessarie: “erano tutti insultanti, esasperanti, fastidiosi, sfacciati, brutali, insopportabili, caustici, sfrontati, odiosi, scortesi, esecrabili, diabolici, spudorati, irritanti, ostili, dispettosi, bruschi, insolenti, impudenti, ciarlieri, irridenti, guastafeste, maligni, pestiferi, malevoli, perfidi, nauseanti, perversi, stizzosi, litigiosi, sgarbati, maleducati, sarcastici, biliosi, bisbetici, infidi, truculenti, incivili, pungenti, xenofobi, sbraitanti e zelantissimi nel rendersi insopportabili e nel causare guai a tutti coloro con cui venivano a contatto”. E non si può far nulla contro di loro, perché in un batter d’occhio spariscono (in gergo: si teletrasportano altrove). Anche in questa geniale presa in giro Brown infila discorsi seri. E comunque trasformare i ‘mostri’ in discoli è già una bella provocazione.
Pure chi è digiuno di fantascienza ma ama il cinema (o il rock) avrà forse incrociato il film L’uomo Che Cadde sulla Terra di Nicholas Roeg, del 1976, con un bravo David Bowie, tratto dal romanzo omonimo (The Man Who Fell to Earth) – ancor più inquietante e struggente della riduzione cinematografica – scritto nel 1963 da Walter Tevis. Come in Sentinella, il narratore assume il punto di vista dell’alieno, che è sulla Terra per cercare un aiuto da parte dell’umanità per la sua razza morente. L’alieno rimarrà bloccato fra indifferenza e sospetti. Impietrito nella sua maschera umana, incapace di staccarsi dalla Terra per lui aliena, morirà per alcolismo. La scena finale mostra il suo pianeta ridotto a un cumulo di asteroidi vaganti. Qualche esperto di cinema ha notato che il punto di vista dell’alieno è rappresentato in uno stile e in un montaggio di tipo surrealista; per quanto sia strano, alcuni passaggi del film ricordano L’Uomo con la Macchina da Presa di Dziga Vertov, uno dei padri del cinema.
Futuro, filosofia e sensi di colpa
Visti i precedenti storici, qualche senso di colpa inevitabilmente affiora anche nella science fiction. Significativa la quarta di copertina Urania del romanzo Chi è Intelligente? (Conscience Interplanetary, 1972) di Joseph Green: “Il Corpo dei Filosofi Ambientali deve proteggere i mondi abitabili della Galassia dall’ingordigia umana e impedire che si ripetano a danno delle razze extraterrestri le violenze e le stragi patite dagli indios, dai pellirosse, dai negri”. Perfetto sin qui, ecco però la trappola: “Ma ci sono moltissimi casi dubbi: certe strane foche tirano sassi contro gli scienziati di un osservatorio, certe farfalle di 40 chili sembrano telepatiche, certe piante di cristallo emettono voci nella notte, certe scimmiesche creature hanno forse modellato un dio di argilla. Come decidere dove finisce l’istinto e dove comincia l’intelligenza?”.
La domanda può essere dunque riformulata così: chi sono gli alieni e agli occhi di chi?
Rischiamo però di entrare in un corto circuito logico e filosofico. Possiamo capire un pensiero alieno? L’amico, Fabrizio Melodia, grande studioso di filosofia, leggendo la prima versione di questo saggio mi ha suggerito qualche dotta citazione ad hoc. Per esempio questa: “La logica riempie il mondo; i limiti del mondo sono anche i suoi limiti. Non possiamo dunque dire nella logica: ‘Questo e quest’altro v’è nel mondo, quello no’. Ciò parrebbe infatti presupporre che noi escludiamo certe possibilità, e questo non può essere, poiché altrimenti la logica dovrebbe trascendere i limiti del mondo; solo così potrebbe considerare questi limiti anche dall’altro lato. Ciò, che non possiamo pensare, non possiamo pensare; né dunque possiamo dire ciò che non possiamo pensare”. È il Tractatus Logico-Philosophicus di Wittgenstein.
Al quale però provo – timidamente e con qualche consapevole forzatura – a contrapporre Eraclito: “Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché l’avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada”.
Nel senso che se tentiamo di capire l’incomprensibile forse ce la faremo.
Qualche annetto dopo Eraclito, irrompe sulla scena Albert Einstein e, dandoci speranze almeno sul versante più scientifico, aggiunge: “Tutti sanno che quella cosa è impossibile, finché arriva uno sprovveduto che non lo sa e la inventa”.
Con queste citazioni nel bagaglio proviamo a vedere se la fantascienza e il desiderio riescono a forzare la logica wittgensteiniana secondo la quale non arriveremo mai al ‘non pensabile’.
Tenendo anche conto che nel nostro immaginario lavorano – o meglio si confrontano e scontrano incessantemente – paure e desideri ben più profondi che nel conscio. Così non è indifferente che la fiction di massa oggi proponga in bella vista uno Spock (sto parlando ovviamente della serie di Star Trek), cioè un alieno ben accetto piuttosto che i perfidi carciofoni marziani, i quali, grazie allo strano duo Welles-Wells, in passato terrorizzarono lettori e soprattutto ingenui radioascoltatori.
Sulla strada della progressiva presa di coscienza della fantascienza si potrebbero riportare molti esempi. Nessuno forse è letterariamente efficace come il brevissimo Sentinella, ma molti – e alcuni li vedremo nelle varie sezioni – restano efficaci o inquietanti ancor oggi.
Ovviamente ci sono almeno altrettanti romanzi o racconti che continuano a immaginare lo scontro fra i terrestri e ‘gli altri’. Vediamo brevemente uno dei più interessanti, Il Gioco di Ender (Ender’s Game) scritto nel 1985 da Orson Scott Card.
È la storia di un ragazzino ‘speciale’ arruolato in una scuola militare e lì addestrato a verificare strategie contro gli Scorpioni, cioè i nemici spaziali, che sono una sorta di entità unica con un cervello collettivo. Ender va in crisi perché, per vincere le battaglie simulate, deve identificarsi con l’avversario al punto da amarlo; sull’altro piatto della bilancia (o della schizofrenia) c’è l’obiettivo del suo addestramento: salvare la razza umana da un nemico che sembra molto più potente. Alla fine del romanzo, mentre gli viene fatto credere di giocare l’ennesima simulazione, Ender viene posto a comandare la battaglia decisiva, che si concluderà col definitivo sterminio degli Scorpioni.
Fra i tanti temi sollevati da questo romanzo c’è anche quello del nemico invisibile; uccidere in un videogame (o nella sua versione montata a bordo di un aereo) crea una rassicurante distanza ‘psicologica’. Niente fastidiosi schizzi di sangue, niente volti delle vittime (soldati ma anche civili inermi, o bambini) dunque nessun dubbio. Per evitare che il soldato moderno cada nel vecchio difetto – così Brecht nella celebre poesia –, ovvero pensare, oggi il nemico (o l’alieno) va reso immateriale.
Anche se la guerra con gli alieni ne Il Gioco di Ender si trasforma addirittura in xenocidio, comunque il romanzo di Card è tutt’altro che manicheo, non ci racconta di ‘tutti noi buoni’ contro i cattivi: i tempi sono cambiati. Anche se gli assassini di massa coprono d’oro i cantori delle ‘guerre umanitarie’, ben pochi credono alle loro ragioni.
Un rompicapo
Gli alieni potrebbero anche essere un rompicapo biologico, cioè forme di vita e di intelligenza del tutto differenti da come noi le abbiamo sinora concepite, tanto che potremmo pure non accorgerci della loro esistenza. C’è persino un’apposita disciplina – la xenologia – che studia queste ‘complicazioni’ e ipotizza il modo migliore per comunicare con creature diverse dall’uomo.
La complicazione risulta evidente sapendo che il termine xenologia è variamente usato: a proposito di extraterrestri ma anche di migranti e persino di parassiti; una triade curiosa vero?
Chi volesse approfondire nella fantascienza l’intrigante tema di questi alieni del tutto incomprensibili potrebbe utilmente partire da La Nuvola Nera di Fred Hoyle (The Black Cloud, 1957), dai romanzi di Stanislaw Lem, in particolare Solaris (1961) e L’Invincibile (Niezwyciężony, 1964), da Hal Clement (uno specialista di questo sottogenere), dall’immaginario pianeta Covenant proposto da Greg Egan in Oceanic (1998), oppure da Nemesis (1990) di Asimov.
Fra i libri più appassionanti sull’alienità totale c’è Ultima Genesi (Dawn, 1987) di Octavia Butler, per inciso una delle rare afroamericane che abbia avuto spazio nella fantascienza. Il tema del romanzo è la xenogenesi, cioè la nascita di una nuova razza derivante dalla fusione dei terrestri con gli alieni Oankali che li hanno strappati – ormai pochi e moribondi – all’inverno nucleare dopo l’ultima, demenziale guerra fratricida. Protagonista è una donna, Lilith Iyapo, che un tempo – quando cioè esisteva la Terra – era stata una Statunitense di colore. Lilith viene ‘svegliata’ per l’ennesima volta (sono passati 250 anni ma lei al momento lo ignora) da invisibili e soprattutto incomprensibili carcerieri. Quando decide di collaborare, costoro si mostrano: vagamente umanoidi, coperti ovunque di ‘peli’ che a distanza ravvicinata si rivelano ‘organi sensori’ e che sembrano ‘tentacoli’… E Lilith rabbrividisce.
Gli alieni spiegano di essere affascinati dai terrestri ma turbati da “due caratteristiche incompatibili” della nostra razza: la prima è l’intelligenza, “Questa è la caratteristica più recente delle due, e quella che avreste potuto usare per salvarvi”; la seconda è “una struttura gerarchica”, primitiva e pericolosa.
Per capire come si colloca Ultima Genesi in questo quadro occorre svelare alcuni colpi di scena. Gli Oankali non sono astratti studiosi, tantomeno benefattori: ciò che chiedono ai terrestri sopravvissuti è di prestarsi a uno scambio genetico, in sostanza un incrocio razziale. Gli umani ne ricaveranno indubbi vantaggi (niente più tumori, per esempio), ma le loro caratteristiche di specie spariranno nel tempo. Per Lilith – un nome simbolico che rimanda al mito della donna che precedette Eva – gli Oankali sono, di volta in volta, ammirevoli, incomprensibili, rigidi e poi flessibili, impauriti, straordinari per intuito e anche capaci di imparare da lei e dal suo bisogno di conservare la dignità.
È giusto “spartire il sesso” con questi alieni sensibili quasi fino alla telepatia, come viene chiesto (anzi ‘dolcemente’ imposto) a Lilith?
Alla fine tutti, in qualche modo, sbaglieranno, e Ultima Genesi si conclude con un nuovo splendido inizio… che rimanda a due seguiti: lo sconvolgente Ritorno alla Terra (Adulthood Rites, 1988) e Imago (purtroppo mai tradotto in italiano).
Lasciando (a malincuore) la xenogenesi della Butler, torniamo rapidamente al ‘rompicapo biologico’ solo per ricordare che uno scrittore irlandese, James White, sulle biologie aliene ha costruito un’intera serie di romanzi e racconti, ambientandola in una ‘Stazione ospedale’ (nell’originale ‘Settore generale’) nello spazio: il taglio è dialogante e pacifista. White è ottimista: non nasconde i problemi ma pensa che… insomma ce la faremo.
Eppure ci possono essere minime differenze fisiche che risultano intollerabili a noi umani: le ali per esempio non dovrebbero impensierirci ma le corna e la coda sì; rimando soprattutto a Le Guide del Tramonto (Childhood’s End), scritto nel 1953 da Arthur C. Clarke.
Altra gran bella – o brutta? – diversità potrebbe essere la telepatia: che sia un’evoluzione degli umani o la caratteristica di una razza aliena. Ma sarebbe lungo vedere come la fantascienza ha affrontato la telepatia e, più in generale, il rompicapo biologico (o linguistico): il tema, pur interessantissimo, ruberebbe spazio e ci porterebbe lontano da quelle altre alienità che sono vicine al nostro modo di vivere.
Ursula suggerisce
Dismessi i panni della famosa romanziera, Ursula K. Le Guin ha indossato quelli della saggista per ragionare di science fiction. Alcuni suoi scritti (The Language of the Night, 1979) sono stati tradotti in italiano sotto il titolo Il Linguaggio della Notte; c’è un passaggio, La Fantascienza Americana e l’Altro, che ci interessa particolarmente.
Parlando di socialismo e femminismo e “dell’infima condizione delle donne nella fantascienza” (almeno sino agli anni ’60 del secolo scorso) Le Guin scrive: “Il problema qui sollevato è il problema dell’Altro, dell’essere che è diverso da te stesso. Tale essere può differire da te nel sesso; o nel suo reddito annuale; o nel modo di parlare, di vestire o di agire; o nel colore della pelle; o nella quantità di gambe o di teste che ha. In altre parole esiste l’Alieno sessuale, l’Alieno sociale, l’Alieno culturale e infine l’Alieno razziale”. Poco più avanti aggiunge: “Se uno nega qualsiasi affinità con un’altra persona o genere di persona, se afferma che è completamente diversa da sé stesso, come gli uomini hanno fatto con le donne, e le classi hanno fatto con le classi, e le nazioni hanno fatto con le nazioni, può odiare l’altra persona o deificarla; ma in ogni caso ha negato la sua eguaglianza spirituale e la sua realtà umana. L’ha trasformata in un oggetto con il quale un solo rapporto è possibile: un rapporto di potere. E così ha fatalmente impoverito la sua stessa realtà. Ha in effetti alienato sé stesso”.
Ed è questo schema, un po’ ampliato, che ci servirà per andare avanti nell’esame della fantascienza alle prese con vari tipi di alieno.
L’alienità razziale e le sue metafore
Perché razziale, qui sopra, è indicato fra virgolette? Perché se ci riferiamo ai terrestri il termine è insensato, visto che le razze non esistono. Ma come il venerdì 17 (o 13 nei Paesi anglosassoni) porta sfortuna a chi ci crede, così la diffusa convinzione che sulla Terra si trovino differenti razze causa guai. Non esiste insomma – come spesso si ripete – l’odio o il pregiudizio razziale ma l’odio razzista, cioè un’ideologia, una bugia che immagina alcune razze migliori (più ‘umane’) di altre.
Ciò chiarito torniamo alla fantascienza.
Il periodo d’oro (almeno dal punto di vista della diffusione popolare) della science fiction coincide in gran parte con quello storico nel quale negli USA erano negati i diritti agli afro-americani, dunque sino alla metà degli anni ’60. Non c’è da stupirsi che alcuni scrittori e scrittrici abbiano usato la metafora di ‘razze extraterrestri’ per parlare – più o meno apertamente – dei pregiudizi e della segregazione allora dominanti negli Stati Uniti (e, più a lungo, nel Sudafrica dell’apartheid).
Qualche esempio fra i tanti.
Nel romanzo breve Benedizione Oscura (Dark Benediction, 1951) di Walter Miller Jr., un morbo spaziale contamina gran parte dell’umanità. È un’affezione benigna, anzi accresce i poteri sensoriali delle persone colpite. Ma… rende nero il colore della pelle, e questo effetto collaterale scatena la violenza degli immuni, che vedono concretizzarsi il loro peggiore incubo: i neri sono migliori di loro e dunque, a maggior ragione, vanno sterminati.
Ray Bradbury ambienta nel ‘profondo sud’ degli USA Su negli Azzurri Spazi (Way in the Middle of the Air, 1950) un racconto che fa parte delle sue celebri Cronache Marziane. Quando la colonizzazione terrestre di Marte è consolidata, tutti i ‘negri’ si organizzano segretamente per andarsene, e si avviano in un’immensa fiumana verso le astronavi comperate coi loro risparmi. Qualcuno, lì intorno, commenta così: “Non capisco perché siano partiti proprio adesso. Ora che le cose si stavano aggiustando. Ogni giorno si faceva loro una nuova concessione, voglio dire. Insomma che volevano di più? Gli abbiamo appena tolto la tassa sul voto e parecchi Stati hanno votato leggi contro il linciaggio e hanno accordato loro parità di diritti. Che cosa vogliono di più? Guadagnano quasi come noi bianchi e se ne vanno…”.
Sembra di sentire il Campbell citato sopra.
Qualche anno dopo, nel 1964, nella finzione narrativa capita il contrario di quanto immaginato da Bradbury. Nel racconto Gli Emigranti dal Volto Azzurro (Beside the Golden Door) di Henry Slesar, pochi e pacifici extraterrestri (identici a noi ma con l’epidermide tendente al celeste) chiedono di essere accolti: il loro pianeta sta morendo e non sanno dove andare. Ufficialmente l’accettazione è buona, ma poi cominciano gli alienicidi… Alla fine le organizzazioni terroristiche costringono gli Azzurri a un nuovo, difficile esodo. Chi racconta questa storia è un loro discendente: sono passati ormai millenni e le guerre interne hanno distrutto la Terra. “Ho appreso – dice il narratore – che quel mondo meritava di morire”.
Nel 1957 anche una scrittrice, Leigh Brackett, aveva toccato la metafora del colore con il racconto I Negri Verdi (era migliore il titolo originale, All the Colors of the Rainbow): la guerra spaziale nascerà dalle discriminazioni alle quali i razzisti del Sud degli USA sottopongono una coppia di turisti extraterrestri, giunti in crociera sulla Terra da un pianeta alleato, e colpevoli solamente di avere la pelle verdina.
Incontrando i fratelli perduti
Del 1966 è un bellissimo romanzo di Philip K. Dick, The Crack in Space, che in italiano è apparso sia con il titolo Vedere un Altro Orizzonte che come Svegliatevi, Dormienti. Ci sono gli ibernati, cioè i disoccupati che si sono fatti congelare per attendere che passi la crisi economica; c’è il primo afroamericano alla presidenza USA; e c’è la scoperta di Terre parallele.
Nella porta che d’improvviso si apre su un’altra Terra l’evoluzione ha preso uno sviluppo ben diverso: qui i Sinantropi “sono diventati la specie dominante” e “l’Homo sapiens non è apparso o per qualche motivo non ha vinto la lotta per la sopravvivenza”. Noi, eredi dei Cro-magnon, e questi altri più vicini ai pitecantropi riusciremo a comunicare? Ovviamente, per molti, gli inquilini di questa porta accanto sono solo scimmie. E uno dei protagonisti del romanzo pensa: “Ora sì che il Ku Klux Klan ha veramente un lavoro fatto su misura”. Alieni che vengono dal nostro stesso ceppo.
Questo tema dei nostri fratelli (così simili eppure così alieni) perduti in una delle svolte dell’evoluzione torna nella trilogia Neanderthal Parallax di Robert Sawyer, uno dei più interessanti scrittori di oggi. I titoli: La Genesi della Specie (Hominids, 2002), Fuga dal Pianeta degli Umani (Humans, 2003) e Origine dell’Ibrido (Hybrids, 2003). Tre lunghi, avventurosi romanzi con delitti sulla Terra e in qualche Altrove; sono ambientati infatti in due universi paralleli, che imprevedibilmente entrano in contatto e si confrontano lungo diversi assi evolutivi… dato che in uno hanno prevalso i barast (ovvero la specie Homo neanderthalensis) mentre nell’altro noi gliksin (Homo sapiens, come presuntuosamente ci definiamo). Appare evidente che il canadese Sawyer, oltre ad avere parecchie critiche da fare al suo vicino di casa (lo zio Sam), è dubbioso sul fatto che l’evoluzione su questa Terra sia andata nel modo migliore possibile. Eppure anche i cugini neanderthaliani – come ce li racconta – non sono ‘perfetti’. Così, al termine della trilogia, si è aperto un dibattito (su Internet e fra gli appassionati di fantascienza): potendo scegliere, cosa terremmo del mondo gliksin e cosa invece dovremmo imitare dai barast?
Il filone dei Neandhartal e delle scimmie evolute si è intrecciato spesso con la science fiction. Dall’ingenuo romanzo Gorilla Sapiens (Genus Homo, 1941) di L. Sprague de Camp e Peter Schuyler Miller sino alla celebre serie de Il Pianeta delle Scimmie, all’origine un romanzo di Pierre Boulle (La Planète des Singes, 1963) poi una serie di film e telefilm, apertamente – seppure superficialmente – antirazzisti e simpatizzanti verso i fratelli scimmioni.
Un accenno al film, fra i più amari e tormentati di una certa produzione fantastica impegnata: dopo un esperimento di viaggio a velocità iperluce, durante il quale l’equipaggio è ibernato, l’astronave atterra su un pianeta presunto alieno per scoprire che lì le scimmie si sono evolute e tengono gli uomini in stato di schiavitù e semi animalità, perfino incapaci di parlare. Il potere scimmiesco presenta alcune caratteristiche del peggior medioevo oscurantista. I sommi sacerdoti detengono i segreti della zona proibita, dove sarebbe nata la loro stirpe, ed è in quell’area che il ‘peloso’ scienziato dissidente Cornelius (Roddy McDowall) conduce l’astronauta Taylor (un Charlton Heston in gran forma). Finale scioccante: Taylor s’imbatte nei resti della Statua della Libertà, semisommersa dal mare. Gli uomini hanno distrutto la Terra in un conflitto atomico e le scimmie si adoperano – con qualche ragione? – affinché quella ‘civiltà’ venga dimenticata.
‘Sono simili a scimpanzè e gorilla’ è la sprezzante accusa che si legge tuttora – in purtroppo tanti libri e siti razzisti – verso i ‘negri’ o altri non bianchicci, compresa – è triste ma doveroso ricordarlo – anche certa fantascienza e fantasy con evidenti simpatie naziste che gira in circuiti semiclandestini.
L’alienità sessuale e i suoi tabù
“Tol studiò la faccia allegra dell’Allegon cercando di conciliarla con il concetto umano di mascolinità. Ma su quel pianeta, si disse, i ruoli sessuali come tali erano in gran parte inesistenti. Il desiderio sessuale, secondo il testo di antropologia, era quasi interamente sotto controllo razionale. Il ‘matrimonio a tre’ era asessuale per natura e sanciva l’unione di un Allegon, un Gonnegon e un Berregon. Dopo la formazione della triade, ciascun adulto si accordava fuori dal matrimonio con qualcuno della sua specie per la concezione e la nascita di un figlio. Alla nascita, il figlio veniva affidato al genitore con cui ci si era accordati e l’altro, fosse padre o madre, rinunciava a ogni diritto su di lui. Successivamente, il piccolo Allegon, fosse maschio o femmina, cresceva educato a servire; il Gonnegon a comandare; il Berregon a produrre…”: ecco lo scenario – un po’ complicato per i nostri standard – proposto nel romanzo Un Mondo da Salvare (Assignment Nor’Dyren, 1973) di Sydney Van Scyoc.
Del resto il sesso – ci avevate fatto caso? – è argomento assai complicato. Combattuti fra una rilassante normalità (non meglio precisata) e il fascino indiscreto della diversità (l’esotico è erotico?) la nostra buffa razza continua da millenni a vivere in termini schizofrenici il rapporto con le differenze, oscillando fra attrazione e ripugnanza senza trovare punti di equilibrio. Particolarmente vero dalle parti dell’amore e del sesso.
C’è naturalmente chi la vede semplice; tanto per fare un esempio: l’uomo domina, la donna ubbidisce e via così. C’è chi vede (si ostina?) un solo modo, un’immutabile realtà. Ma c’è anche chi – guardando meglio – scopre complessità, e ne prende atto.
Una battuta, vecchia forse come il mondo, proclama “una piccola differenza, viva la differenza”. Ma uno sguardo sul mondo e sulla storia dice invece che questa diversità inquieta, al punto che nel pensiero religioso, filosofico, politico – come in quello da bar – uno dei due sessi (sapete bene quale) viene considerato inferiore e/o pericoloso.
E poi davvero sono solamente due, maschile e femminile, le caratterizzazioni? Non stiamo facendo confusione fra genere e sessualità? E le caratteristiche fisiche, mentali, psicologiche di M e F dipendono (come i ruoli) dalla genetica o anche dalla determinazione storica? Oppure: quanto dall’una e quanto dall’altra?
Per capire le incomprensioni ma ancor più le falsificazioni intorno alla sessualità, bisognerebbe ripartire da Il Secondo Sesso (Le Deuxième Sexe, 1949) e da altri scritti di Simone de Beauvoir, ma anche dalla convinzione di Carl Gustav Jung secondo cui i maschi cercano dentro sé stessi un archetipo femminile (in certo senso il mito platonico del centauro spezzato in due da un fulmine), appunto l’altro da sé.
In questo orizzonte, bisessuali, transessuali o asessuati sono anomalie, mostruosità o solamente opzioni rare? Quanto al numeroso ‘gay people’, insomma all’omosessualità… amare persone dello stesso sesso è – ancora lo proclamano i più accreditati esponenti delle tre maggiori religioni monoteiste – un’offesa a Dio (o come volete chiamarlo) e alla Natura? O chi lo dice è solo uno spaventato, ignorante razzista?
Differenze sessuali: in definitiva chi invidia chi? E chi ha paura di chi? Dobbiamo accettare o rifiutare che in differenti periodi storici e sociali, sotto altre latitudini o magari solo per libera scelta vi siano modi assai variegati per esprimere amore e per cercare una felicità sessuale? O è roba da alieni?
Domande difficili. La fantascienza forse ci può aiutare, mettendo a fuoco – come in un certo senso prevede il suo statuto – la ricerca di un punto di vista insolito o il semplice ‘e se invece accadesse…’. Proviamo a vedere se ci è riuscita, almeno un poco.
L’esordiente Philip Josè Farmer nel 1952 suscitò tanto reazioni scandalizzate e boicottaggi quanto contrapposte grida di giubilo. Accadde con il racconto The Lovers, in seguito allungato a romanzo e noto in Italia come Un Amore a Siddo. Lo struggente rapporto, anche erotico, fra un umano (bianco e anglosassone) e un’aliena veramente diversa, per di più immaginato in uno scenario controllato da rigide strutture para-religiose, non poteva che scatenare – nel mondo detto reale – le ire di razzisti e bigotti, amplificate dalla vittoria di Farmer come ‘autore dell’anno’ nel premio Hugo, il riconoscimento più importante della fantascienza. Altro che sesso interrazziale, qui siamo all’accoppiamento fra specie biologicamente mooolto diverse. Signora mia dove andremo a finire? Non sembri una battuta: posso testimoniare per conoscenza diretta che pochi anni fa in un paesino del Veneto un padre picchiò la figlia (maggiorenne oltretutto) perché usciva con ‘il figlio della zoppa’; a gettare benzina sul rogo… il fatto che buona parte dei vicini si schierasse con il padre della ragazza. Signora mia, si comincia a uscire con il figlio della zoppa e si finisce con gli E.T.
Negli anni ’50 esordisce anche Dick, autore importante e assai contraddittorio, con punte di forte misoginia altalenate a un’insolita sensibilità che forse potremmo definire femminile. Uno dei suoi racconti più delicati è senza dubbio Umano È (Human Is) del 1955; vale la pena ricordarlo perché ci parla di amore con alieni ma soprattutto ci ricorda che il concetto di umanità non è definito una volta per sempre.
Lester Merrick è un umano quanto meno odioso, indisponente e violento nei rapporti con la moglie, la mite Gil. Al ritorno da un viaggio spaziale, Gil scopre che il marito è profondamente mutato: attento, disponibile, tenero. Non ha quasi il tempo di felicitarsene che piombano da lei due agenti dell’onnipotente Sicurezza federale: sono certi che Merrick sia stato ‘invaso’ da un parassita; sapremo più tardi che si tratta dell’esponente di una razza antichissima in via di estinzione, e che ‘l’impossessamento’ è avvenuto solo perché Lester era già morente. I super-sbirri chiedono alla donna di aiutarli a neutralizzare il ‘mostro’. La donna esita ma alla fine tradisce i suoi simili, preferendo l’alieno, infinitamente migliore dell’arrogante, crudele maschio terrestre che prima aveva occupato quel corpo ora capace di dolcezza.
Nell’antologia Il meglio di Philip K. Dick (The Best of Philip K. Dick, 1977), l’autore ha così commentato: “Per me questa storia simboleggia ciò che un essere umano è. Non si tratta di avere un certo aspetto o di provenire da un certo pianeta ma di vedere sino a che punto si è gentili. La gentilezza ci differenzia dai sassi, dai pezzi di legno, dal metallo e così sarà sempre, qualsiasi forma assumiamo, dovunque andiamo, qualunque cosa diventiamo. ‘Umano È’ è il mio credo e mi auguro che possa essere il vostro”.
Questo concetto era per lui così importante che Dick lo ha ripetuto spesso; per esempio nel romanzo I Nostri Amici di Frolix 8 (Our Friends from Frolix 8, 1970). Leggete: “La misura dell’uomo non è la sua intelligenza. Non consiste nell’altezza che può raggiungere in un sistema sbagliato. La misura dell’uomo è questa: con quale rapidità sa reagire ai bisogni di un’altra persona? E quanto può dare di sé?”.
Gentilezza, amore, empatia: passa da queste parti la strada giusta per uscire dalla terribile triade di violenza, potere, paura. E se non parliamo anche di questo allora ogni discorso sulla sessualità rimanda solo a una ginnastica vagamente solipsista. O almeno chi scrive la pensa così.
L’incerta definizione di umanità
Eppure definire un essere umano non è semplice. Lo stesso Dick in altre sue storie offre tutt’altri parametri. Per esempio nel racconto Le Pre-Persone (The Pre-persons, 1974) la definizione legislativa di umanità è stringente: solo chi è in grado di risolvere un’equazione di secondo grado è un umano ‘completo’. A una certa età chi non supera quest’esame può (in quanto umano non completo) essere eliminato; o meglio “abortito” nella provocazione di Dick.
Questa rigidissima definizione non vi sembri assurda. I nazisti hanno legiferato, in nome della scienza, contro le ‘razze inferiori’. Tanto per fare un solo esempio che ci chiama in causa, un recente governo italiano ha chiesto ai medici – che in massa si sono rifiutati, per fortuna – di non riconoscere il diritto universale alle cure mediche per quelle persone che una apposita definizione di ‘non umanità’ (la clandestinità è il suo ridicolo nome) aveva escluso dai diritti fondamentali.
Sturgeon
Torniamo all’alieno sessuale. In questo segmento l’uragano si chiama Sturgeon. E occorre dedicagli un ampio spazio perché anche oggi – dopo 60/70 anni – le sue opere dividono, inquietano, suscitano resistenze, aprono orizzonti.
Edward Hamilton Waldo, più noto come Theodore Sturgeon, a suo tempo venne presentato dagli editori italiani come “portatore di scandalo”, quando andava bene, o più spesso come “sgradevole, che fa nascere la sua poesia in mezzo ai rifiuti”. Ciò è lontano dalla verità: Sturgeon non vuole scandalizzare; con il suo inimitabile stile esplora alcuni mondi possibili di altre sessualità e affettività dove talora incontra storie che ad alcuni possono risultare sgradevoli o impossibili a capire. Se per “svegliare il mondo sull’orlo del possibile” Sturgeon ha dovuto pagare un alto prezzo di censure, insulti, mancate pubblicazioni, ghettizzazione ciò conferma solo la forza, la persistenza di intolleranze e pregiudizi che ha cercato di smontare.
Di sicuro il racconto che costò a Sturgeon il massimo di insulti e minacce fu Un Mondo Davvero Perduto (The World Well Lost) del 1953. Da Dirbanu, pianeta lontano e rinchiuso in uno splendido isolamento, giungono “due bipedi implumi, abbastanza simili a noi”; di essi ben poco si sa, ma sono disarmati e non rappresentano una minaccia. I due sono inseparabili e questo grande amore commuove i terrestri, anche quelli che di solito hanno il cuore di pietra. Poi arriva da Dirbanu un laconico messaggio: sono criminali, restituiteceli subito. La ragion di Stato – cioè i buoni rapporti con un vicino che si sa essere potente – prevale e la Terra decide di rimpatriare gli inseparabili. A riportarli sul loro mondo è l’astronave Stramite-439 con i due piloti Rootes e Grunty. Nella tensione del lungo viaggio, Grunty trova un sistema per comunicare con i due alieni, e scopre così in cosa consista il loro ‘crimine’. Decide allora di farli fuggire, all’insaputa di Rootes che, quando lo scopre, esige un chiarimento. A fatica Grunty gli fa capire qual è il problema: i due inseparabili sono dello stesso sesso.
“Vuoi dire che abbiamo viaggiato per tutto questo tempo con una maledetta coppia di invertiti? Oh, se l’avessi saputo li avrei ammazzati” urla Rootes.
Ma Sturgeon ha in serbo una sorpresa che dà un’ulteriore chiave di lettura a un racconto già eccellente. Dopo il litigio, Rootes si addormenta. Grunty lo guarda “con grande tenerezza e assoluta attenzione, come una madre farebbe con il suo bambino”; poi, senza svegliarlo, tende la sua mano gigantesca e “con un tocco di piuma accarezza le labbra addormentate”.
Dove nasce questa paura della diversità? Sturgeon, in Venere Più X (Venus Plus X, 1960), risponde così: “L’Homo sapiens crede, nella parte più buia del suo cuore, che tutto ciò che è diverso è pericoloso per definizione e che per questo deve essere sterminato”. In questo caso gli alieni ‘sessuali’ sono già fra noi e si nascondono; sono un sentiero parallelo dell’evoluzione oppure – il romanzo lascia un margine di dubbio – sono il nostro futuro?
Vale la pena accennare la trama. Charlie Johns, un uomo qualsiasi, si trova scaraventato nella civiltà dei Ledom. Umani. Eppure incomprensibili: religione, bambini, valori, scienza… tutto è diverso da quel che Charlie conosce. Gli indecifrabili Ledom possono servirgli per una riflessione critica sul suo mondo. Scoprire che i Ledom sono ermafroditi impaurisce Charlie, eppure egli prova ugualmente a rivolgersi le domande proibite, a capire dove sia nato l’orrore per il diverso: “Quando gli uomini hanno cominciato a dichiarare impuri i flussi mensili e a praticare il rito noto come la vecchia purificazione post-parto? E chi ha iniziato a dire che le differenze fra uomo e donna erano maggiori delle somiglianze?”.
Una prima provvisoria risposta è: “Perché, dicono, l’uomo è superiore […] e non sei buono a far niente, allora l’unico modo per dimostrare che tu sei superiore è rendere inferiore qualcun altro”.
Ma i Ledom non hanno ancora rivelato tutto… Come dicono essi stessi: “Di tanto in tanto dobbiamo incontrarci con l’Homo sapiens per vedere se è pronto a vivere, ad amare, ad adorare senza la gruccia di una bi-sessualità imposta […] Noi non siamo una utopia. Un’utopia è qualcosa di finito, di completo; noi siamo transienti: custodi […] o un ponte. Transienza è passaggio, è dinamismo, è movimento, è evoluzione, è mutamento, è vita”.
Le inquietudini sessuali – qui solo accennate – narrate da Sturgeon rappresentano un punto di vista insolito nella fantascienza maschile. Ma c’è anche (ed esplode in sincronia con il femminismo degli anni ’70) una science fiction femminile.
Naomi, Alice, Ursula e le altre
Le donne hanno maggiore predisposizione a capire le psicologie aliene? È uno dei quesiti che serpeggia nel romanzo Diario di una Astronauta (Memoirs of a Spacewoman) scritto nel 1962 dalla scozzese Naomi Mitchison, attivista politica per i diritti umani e occasionalmente (ma con eccellenti risultati) scrittrice. Qui gli alieni non sono creature artificiali ma animali che divengono alieni per come sono osservati; Mary – la protagonista – è un’esperta in ‘eso-comunicazioni’. Mitchison spalanca un impressionante numero di porte sul fatto che la scienza è fallibile, sulle complicazioni della ‘civiltà’ ma soprattutto sul meticciato, su maternità e maternage, sul sesso (varie razze aliene non posseggono generi sessuali), in definitiva sulla alienità dell’essere donne. Come notava Nicoletta Vallorani nella prefazione dell’edizione Urania del romanzo (col titolo Memorie di una Astronauta), c’è una “oscillazione costante di Mary dal suo ruolo privato di madre a quello pubblico di esperta in linguaggi alieni”.
Ne Le Donne Invisibili (The Women Men Don’t See, 1973) di Alice Sheldon, un gruppo di scienziati terrestri, uomini e donne, è al lavoro in un luogo sperduto quando incontra alieni tanto superiori quanto sprezzanti, i quali li stupiscono con l’offerta di un viaggio con loro fra le galassie. Non è chiaro se gli alieni li vogliano come animali da compagnia, allievi da educare o cosa. Si discute. Il sospetto e il fastidio (per l’arroganza dimostrata) sono tali che tutti i maschi declinano l’invito. Le donne invece accettano; e spiegano agli stupefatti colleghi una verità nascosta (o rimossa, fate voi): male che vada, le donne non potranno essere trattate dagli alieni peggio di come già accade sulla Terra.
Come sa chi ha frequentato la fantascienza, lo scandalo di Alice Sheldon è doppio: perché questo racconto (e molti altri simili per provocazione) erano firmati James Tiptree Jr., e solo all’ennesimo premio il celebre autore si rivelò… un’aliena dello ‘spazio interno’.
Chi ama Star Trek – The Next Generation ricorderà uno degli episodi più riusciti: l’equipaggio dell’Enterprise D entra in contatto diplomatico con un pianeta alieno i cui abitanti sono obbligati alla più completa asessualità, e ogni sbilanciamento verso l’uno o l’altro sesso viene punito con la rieducazione coatta; ma uno di loro, dopo aver conosciuto il primo ufficiale Ryker, sente il bisogno di cambiare e sceglie di diventare donna. L’amore fra i due dura il tempo di un battito di ciglia, poiché l’aliena viene prelevata dalla sua gente che procede seduta stante a sopprimerle le nuove inclinazioni.
Ed eccoci a Ursula K. Le Guin, che è oggi un’arzilla vecchietta: ha abbandonato quasi del tutto i territori della fantascienza in senso stretto ma continua a muoversi, con gran bravura, dalle parti della letteratura fantastica.
Quando vinse i premi Hugo e Nebula con La Mano Sinistra delle Tenebre (The Left Hand of Darkness, 1969) Le Guin non ebbe che plausi, nonostante il tema fosse considerato scabroso. Per la prima volta una donna otteneva quei riconoscimenti, i più importanti della fantascienza, e per di più mettendo sottosopra i tabù sessuali; ma i tempi erano cambiati anche nella science fiction.
Il narratore, Genly Ai, viene ufficialmente inviato sul pianeta Inverno, che attraversa una perenne era glaciale. È il primo vero contatto con una razza aliena potente ma sino ad allora chiusa in un indecifrabile isolamento. Gli abitanti di Inverno, i getheniani, sono asessuati con un periodo mensile di fertilità (il kemmer) durante il quale ognuno di loro trova un partner e, a causa delle secrezioni ormonali, può diventare maschio o femmina indifferentemente. Non v’è traccia di rigidi dualismi e incancrenite differenziazioni come sulla Terra. Ecco come un rapporto racconta – a un uditorio eterosessuale – le implicazioni socioculturali di questa sorprendente fisiologia: “Tenere presente: chiunque può dedicarsi a qualunque cosa. Sembra molto semplice, ma i suoi effetti psicologici sono incalcolabili. Il fatto che chiunque fra i diciassette e i trentacinque anni circa sia soggetto a diventare (come dice Nim) ‘vincolato alla gravidanza’ implica che qui nessuno è ‘vincolato’ come, in qualunque altro posto, lo sono le donne – psicologicamente o fisicamente. Responsabilità e privilegi vengono condivisi equamente: ognuno ha in egual misura rischi da correre o scelte da fare. Perciò qui nessuno è tanto libero quanto lo è un maschio libero in qualunque altro posto. Tenere presente: l’umanità non è divisa in una metà forte e in una metà debole, in protettori e protetti, in dominatori e sottoposti, in proprietari e nullatenenti, in attivi e passivi. Infatti la tendenza al dualismo, che pervade il modo di pensare degli esseri umani, è qui mitigata o mutata. Quanto segue deve essere riportato nelle mie ‘Istruzioni’: allorché si incontra un getheniano, non si può e non si deve fare ciò che fa di solito un individuo etero-sessuale, cioè costringerlo nel ruolo di Uomo o di Donna, adottando perciò verso di lui un atteggiamento che si basi su quelle che si prevede siano le interazioni prestabilite o possibili fra persone dello stesso sesso o del sesso opposto. Un individuo qui viene rispettato e giudicato soltanto come essere umano. È una esperienza fantastica”.
L’incomprensione è reciproca. L’inviato eterosessuale non riesce a capire, ma dall’altra parte incontra un’analoga chiusura.
Per ulteriori approfondimenti sul segmento dell’alienità sessuale rimando al capitolo ‘Sesso, Amore e X’ nel libro Di Futuri ce n’è Tanti, che ho scritto, nel 2006, con Riccardo Mancini, e anche alla home page di Giovanni Dell’Orto con uno specifico approfondimento sulla ‘fantascienza con personaggi glbt’, dove la sigla sta a indicare persone Gay, Lesbiche, Bisessuali e Transgender.
Alienità dei corpi
Sull’handicap e dintorni nella fantascienza devo necessariamente rimandare al mio dossier ‘Umano è’ che fu pubblicato nel 2001 e che si può leggere anche nel sito del Centro Documentazione Handicap. C’è chi allora si è stupito che la science fiction abbia dedicato tanta attenzione – e consapevolezza – a questo tema. Per me la ricerca fu solo una conferma di quanto questo ‘magazzino’ sia vitale e spesso possa dire quello che censuriamo o auto-censuriamo nel nostro mondo reale – il quale era stato ribattezzato, con sarcasmo, da Isaac Asimov il “cosiddetto mondo reale”, a significare che forse negli altri mondi, quelli della fantascienza, c’era più verità.
Dunque al riguardo farò solo un brevissimo accenno.
Il ribaltamento iniziato da Brown con Sentinella tocca forse il suo apice con due romanzi di Theodore Sturgeon: Cristalli Sognanti (The Dreaming Jewels, 1950) e Nascita del Superuomo (More than Human, 1953), che non a caso hanno diviso – e tuttora dividono – gli appassionati di fantascienza in due schiere non riconciliate. Solo scavando dove gli uomini impauriti vedono qualcosa di incomprensibile e quindi orribile possiamo scoprire una nuova, diversa umanità. Se ci sentiamo una super-razza (o l’unica razza pensante o il ‘popolo eletto’) risulta impossibile accettare la sfida che Sturgeon ci propone. Se il preteso super-uomo possiede una super-scienza o super-armi, in qualche modo possiamo fare i conti con lui (magari per arrenderci), ma se invece qualcosa di sovra-umano, magari qualche umano mutante, avesse una super-empatia, una super-solitudine o magari una superiore capacità di amare, allora scatterebbe un antico meccanismo: la paura che prevale sul desiderio e dunque… io devo sopprimere quel che non capisco.
È curioso che anche un filosofo letto e osannato come Friedrich Nietzsche, quando ha affrontato il tema del superuomo, sia stato frainteso, se non addirittura arruolato (del tutto a torto) fra i precursori del nazismo. Invece basterebbe questa frase in Ecce Homo per farci riflettere: “L’uomo è una corda tesa fra l’animale e l’oltre-uomo, una corda sopra l’abisso”. E altrove – mi ricorda sempre il mio amico Fabrizio, nicciano doc – ha scritto: “Anche l’anima deve avere le sue determinate cloache nelle quali far defluire la sua immondizia; a ciò servono persone, relazioni, classi, o la patria oppure il mondo oppure infine – per quelli molto boriosi (voglio dire i nostri cari ‘pessimisti’ moderni) – il buon Dio”. Il superuomo nietzschiano è un ‘sentito dire’ o un fraintendimento che venne incoraggiato dalla sorella Elisabeth, antisemita e sostenitrice del nazismo, nel risistemare gli scritti del fratello.
Alienità sociale
Partiamo da un racconto di Leó Szilárd, uno dei padri (involontari) della bomba atomica. Nel racconto Rapporto sulla Stazione Centrale di New York (Grand Central Terminal, 1952), ci provoca così: “Immaginate che colpo fu per noi atterrare in quella grande città e trovarla deserta. Da dieci anni viaggiavamo attraverso lo spazio. […] Quando finalmente atterrammo scoprimmo che su quel pianeta la vita si era estinta. […] A quel punto Xram si ricordò che circa 5 anni prima erano stati osservati misteriosi bagliori, tutti nella stessa settimana. Gli venne in mente che quei bagliori potevano essere stati prodotti da esplosioni di uranio. […] Ritenevamo che chi aveva costruito una città così grande fosse dotato di razionalità per cui ci sembrava difficile che si fosse impegnato a trattare l’uranio per tanto tempo. […] Non sapendo da dove iniziare le ricerche, scegliemmo come primo oggetto di indagine uno degli edifici più grandi della città. Anche se non sapevamo cosa significasse Grand Central Terminal, non avevamo dubbi su quale fosse il suo utilizzo. Era parte di un primitivo sistema di trasporto basato su rozze macchine che correvano su rotaie tirandosi dietro vetture a ruote. Per più di 10 giorni studiammo quell’edificio e scoprimmo dettagli interessanti e sconcertanti”.
Quel che qui ci interessa è la difficoltà a decifrare un mondo alieno. Le scritte ‘fumatori’ e ‘non fumatori’ restano inspiegabili per gli scienziati alieni, e certi dipinti che mostrano esseri con le ali confondono ancor più le idee.
Szilárd si diverte… Cosa significa la scritta ‘libero’ all’ingresso di cabine chiamate ‘uomini’ e ‘donne’? Perché si aprono solo con un gettone? E perché stanze con analoghi congegni nelle case non hanno il meccanismo apribile con un dischetto e la scritta ‘libero’? Cos’abbia a vedere la libertà con gli escrementi è un quesito che appassiona questi scienziati alieni. Così ‘saggi’ da non credere che i terrestri possano essersi auto-distrutti con l’uranio.
Di paradossi e provocazioni simili (magari a ruoli rovesciati, cioè con i terrestri nella parte degli alieni che indagano) è piena la fantascienza. Chi è appassionato del genere ricorderà quantomeno l’antologia Mai Toccato da Mani Umane (Untouched by Human Hands, 1953), del caustico Robert Sheckley, il romanzo Picnic sul Ciglio della Strada (Pikník na obóčine, 1972) dei fratelli Strugackij (trasposto al cinema da Andrej Tarkovskij come Stalker) o lo sconcertante (soprattutto nel finale) Incontro con Rama (Rendezvous with Rama, 1973) dell’altro scienziato-scrittore Arthur C. Clarke.
Qui ci interessa la fantascienza che ha al suo centro l’alieno sociale dunque diverso, incomprensibile, ‘non umano’ per ragioni di classe o per un particolare lavoro.
Chi si rifà in qualche modo al pensiero di Marx già saprà che, per i borghesi, alieni sono i proletari e viceversa. E, per quanto i rapporti (di potere) fra le classi cambino, il capitalismo inevitabilmente fabbrica alieni. Nel 1982 André Gorz ricorda in Addio al Proletariato che già Adam Smith annotava “molti padroni di fabbriche preferiscono impiegare operai ‘mezzi idioti’”, e che poi Marx “descriverà il lavoro operaio, sia nelle manifatturiere che nelle cosiddette fabbriche automatiche, come una mutilazione delle facoltà intellettuali e corporali degli operai”. E Gorz riassume: “La fabbrica produce ‘mostri’”. Alieni. O umani mutanti, direbbe qualche scrittore/scrittrice di science fiction.
Un buon esempio è il racconto Crumiro (Strikebreaker, 1957) di Isaac Asimov.
Steven Lamorak è un sociologo terrestre che visita Altrovia, un planetoide fuori dal sistema solare, con un diametro di un centinaio di miglia, patria di una colonia umana formata da trentamila persone. Capiremo che qui si è sviluppato un rigido sistema di caste dove ogni lavoro è limitato a un particolare insieme di famiglie.
Il consigliere Blei spiega a Lamorak: “Dobbiamo rimettere tutto in circolo […] i rifiuti di ogni genere devono essere ritrasformati in materia prima”. Blei sembra imbarazzato e reticente, però accetta di parlare del sistema di caste: “ogni uomo, donna o bambino sa qual è il suo posto”.
Nei giorni successivi Blei ammetta l’esistenza di un problema: “Igor Ragusnik è l’uomo che si occupa dei processi industriali direttamente connessi ai rifiuti […] ma noi non possiamo parlare con lui”. E ora Ragusnik “pretende uguaglianza sociale. Vuole che i suoi figli si mescolino ai nostri”, e minaccia di scioperare. Blei dice a Lamorak: “come terrestre immagino che lei non possa capire”. E lui risponde: “come sociologo penso di sì” e “pensa agli intoccabili dell’antica India, a coloro che maneggiavano i cadaveri, ai guardiani di porci nell’antica Giudea”; ma anche ai tabù terrestri, altrettanto forti: “il cannibalismo, l’incesto, la bestemmia sulle labbra di un uomo devoto”.
Lo stesso Ragusnik così esprime la propria disperazione: “perché dobbiamo vivere in isolamento come se fossimo mostri? […] Non mi arrenderò. Muoia pure d’infezione tutta Altrovia, compresi me e i miei figli ma non cederò”.
Nell’introdurre Crumiro, Asimov scrive: “Credo che questo sia un racconto importante […] invece precipitò nella più totale indifferenza”. Beata ingenuità: il pur saggissimo Isaac sembra incapace di vedere che si tratta non solo di una metafora della condizione dei ‘negri’ negli Stati Uniti di allora ma più in generale di una denuncia della rigida divisione in classi della società.
Il tedesco Joachim Zelter ne La Scuola dei Disoccupati (Schule der Arbeitslosen, 2006) ha immaginato una società-incubo che abbia come suo faro la costruzione del curriculum. Molte altre suggestioni, visioni e metafore sociali dell’alienità sociale percorrono la fantascienza: chi deciderà di proseguire questo cammino si confronti soprattutto con James Ballard, John Brunner, Damon Knight, di nuovo Le Guin e Sheckley, e Italiani come i due Vittorio (Catani e Curtoni), Valerio Evangelisti e magari Primo Levi che scrisse alcune storie inizialmente pubblicate con uno pseudonimo per volere dell’editore, con la curiosa giustificazione che uno scrittore così legato alla tragica realtà dei lager non avrebbe dovuto, con lo stesso nome, pubblicare storie di fantascienza.
La buona sci-fi ha raccontato molto anche sulle oppressioni presenti e future, aiutandoci a capire dove si annidano nuovi pericoli. Potremmo essere tutti alieni (alienati) in un certo tipo di mondo che si va costruendo. Ad affrontare questo tema – anzi a scardinarlo – è Frederik Pohl, uno degli autori fantascientifici più importanti, sin dagli anni ’50.
Vediamo, in estrema sintesi, Il Tunnel Sotto il Mondo (The Tunnel Under the World) lungo racconto che Pohl pubblicò nel 1955.
“La mattina del 15 giugno, Guy Burckhardt si svegliò da un sogno. Gridava”; Poco dopo Guy si rassicura: tutto è a posto, era solo un incubo. Per strada nota qualcosa di strano: una pubblicità più aggressiva del solito. Poca roba in fondo. È strano che il suo capo non sia in ufficio visto che il 15 giugno “è il giorno della denuncia fiscale per il trimestre”. Guy potrebbe andare a cercarlo in fabbrica ma non gli garba perché in una precedente visita era rimasto abbastanza scosso: “non c’era un’anima, soltanto le macchine”.
Quel giorno continua ad andare in modo sbagliato: piccole cose fuori posto e, sulla strada del ritorno, altoparlanti minacciosi che urlano ossessivamente frasi del tipo: “Hai già un frigorifero. Puzza! Se non è un frigorifero Feckle, puzza. […] Sai chi ha i frigoriferi Ajax? Gli invertiti hanno i frigoriferi Ajax. Sai chi ha i frigoriferi Triplecod? I comunisti hanno i frigoriferi Triplecod. […] Vuoi mangiare cibo andato a male? O vuoi farti furbo e comperare un Feckle, Feckle, Feckle”.
Anche a casa sua Guy troverà stranezze, illogicità. Va a dormire perplesso. La mattina dopo apprende – dal giornale e dalla radio – con stupore che non è il previsto 16 giugno ma sempre il 15. Guy sta impazzendo?
Il racconto ha una svolta quando, con l’aiuto di un certo Swanson, il protagonista scopre che sotto la città corre un tunnel. Qualcuno sembra seguirli: “Russi? Marziani? Qualunque cosa fossero che cosa potevano sperare di guadagnare da quella pazzesca carnevalata?”. La verità è a un passo: “Non sono russi e non sono marziani. Quella gente sono uomini della pubblicità. In qualche modo si sono impadroniti della città […] ci hanno catturato tutti, 20 o 30mila persone e ci tengono sotto il loro controllo”.
L’eterno 15 giugno è un grande esperimento sociale per testare nuovi prodotti. La dittatura di Pol Spot nel 1955 era di là da venire ma oggi è nelle pieghe del mondo reale. Guy è un uomo qualunque che si crede strano o impazzito (due varianti dell’alieno): in realtà è una marionetta. Non c’è forse peggiore alienità della impossibilità di gestire la propria vita.
E se sotto quei circuiti…
Anche i robot e gli androidi in molte storie fantascientifiche sono, con ogni evidenza, metafora del diverso – razziale o sociale – in cerca di integrazione. Qualche esempio di alieno ‘social-robotico’ può aiutarci.
Uno dei romanzi più espliciti dove gli androidi sono a caccia dei diritti civili è il complesso romanzo Oltre l’Invisibile (Time and Again, 1950/51) di Clifford Simak. Lo stesso Simak scava sul tema in alcuni racconti. Ora Tocca a Noi (How-2, 1954) per esempio è la minuziosa cronaca del procedimento giudiziario nel quale i robot ottengono il diritto a “non essere più servi di nessuno”.
Con Il Peggior Esempio (Horrible Example, 1961) Simak azzarda un’amara riflessione. Incontriamo Tobias, la disgrazia della città, vergogna pubblica, appunto “il peggior esempio, da non imitare mai”. Un giorno però Tobias dimentica di barcollare e sta per tradirsi: “Lui doveva essere accettato come un umano […] Come vagabondo, ubriacone umano lui era uno scudo. Come robot, uno sporco robot ubriacone buono a nulla, non sarebbe contato nulla. Così nessuno sapeva”. A sostenere l’inganno esiste persino una tassa (della quale tutti ignorano la vera destinazione) pagata alla Samru, cioè Società per l’Avanzamento e il Miglioramento della Razza Umana. Il nome è con ogni evidenza simile a quello della Naacp (cioè National Association for the Advancement of Colored People) che nell’epoca in cui il racconto fu scritto si batteva per i diritti civili degli afroamericani.
Sarà poi Isaac Asimov a completare il discorso dei robot in cerca dei diritti civili nel famoso romanzo breve L’uomo Bicentenario (The Bicentennial Man, 1976).
A dar man forte all’ala più iconoclasta della fantascienza in quel periodo arriva, come si è già detto, Philip Dick. A proposito di creature artificiali e di metafore, nel racconto Impostore (Impostor, 1953) il protagonista viene accusato d’essere un robot del nemico con una potente bomba incorporata. Lui fugge perché sa di essere innocente, ed è con stupore pari al suo che, al termine del racconto, chi legge assisterà all’esplosione. Un tipico esempio del modo in cui Dick affronta la confusione fra vivente e meccanico, fra realtà e illusione, temi al centro di tutta la sua opera.
Qualche accenno sull’alienità religiosa
Dallo spazio arrivano i protagonisti di Alieno in Croce (Weeping May Tarry, 1978), scritto a quattro mani da Lester Del Rey e Raymond Jones. Il ‘prete’ ufficiale della spedizione è Toreg. In apparenza è feroce oppositore di ogni eresia ma dentro aveva: “come una ferita sanguinante […] la portava con sé, la nutriva, la combatteva e ne sopportava il dolore, perfino nelle lunghe preghiere che dedicava al Keelong a cui non credeva. Il peso restava; e cresceva la sua ferocia contro l’eresia. Nessuno sapeva che quella ferocia era diretta più contro sé stesso che contro gli altri”.
I personaggi di questo bel romanzo sono di color verde pallido a scaglie sottili, ma quando arrivano sulla Terra nessuno s’impressiona: infatti il pianeta è stato distrutto da un’ultima, terribile guerra. Nessun superstite. Pochi resti e difficilmente decifrabili. Però sotto le macerie Toreg trova “due pezzi di legno uniti fra loro a forma di croce […] Non riuscì a trattenere un grido. Era la cosa più orribile che avesse visto in tutta la sua vita”. Il sacerdote alieno s’interroga sulla misteriosa figura “torturata”. Dopo lunghe ricerche, Toreg può dare un nome – Gesù di Nazareth – al crocefisso, ma senza scoprire altro. Nel martirio di quell’alieno in croce sembra esserci più forza che nelle credenze keelong. Potrebbe trattarsi solamente del fascino di una religione nuova e densa di misteri… o forse no. Il romanzo preferisce lasciarci nel dubbio. È un diverso – alieno appunto – sguardo sulla religione, sulla forza che potrebbe avere per diverse specie.
Si può provare a immaginare il rovescio di Toreg: come accoglieranno i non-umani il messaggio di redenzione dei terrestri? Ne ha ragionato, fra gli altri, lo scrittore irlandese Clive Staples Lewis. Chiedendosi: “I nostri futuri missionari se incontrassero una razza senza peccato sarebbero in grado di comprenderla? […] Non potrebbero giudicare peccato quelle differenze di comportamento che la storia biologica e spirituale di creature diverse giustificherebbe pienamente? […] Dobbiamo fermamente opporci a ogni sfruttamento teologico”.
Tradizionale nello schema post catastrofe ma straordinario per invenzioni, ritmo, scrittura – e anche per offrirci un po’ di speranza rispetto agli alieni fra noi – è il romanzo I Trasfigurati (The Chrysalids, 1955) di John Wyndham. Siamo subito proiettati in una società post catastrofe atomica, succube del fanatismo religioso e che riconosce nei mutanti i segni della persistente collera divina. Le parole para-bibliche “solo l’immagine di Dio è il vero uomo” servono a giustificare persino il rogo, o l’esilio perpetuo di una bimba colpevole di avere 6 dita in un piede. Gli squarci di intolleranza descritti da Wyndham si mescolano alla fiducia nell’umanità, all’idea che essa possa rinascere come una farfalla dal bruco, che le mutazioni possano rivelarsi uno sviluppo positivo o il disvelamento di potenzialità latenti. Forse ci sono alieni che stanno nascendo dietro di noi (non necessariamente a seguito di catastrofi o radiazioni). Comunque è difficile credere a un Dio che misura l’umanità come avrebbe potuto fare un Cesare Lombroso.
L’intreccio fra alienità e religione trova uno dei suoi apici in un romanzo che resta alla memoria: Guerra al Grande Nulla (A Case of Conscience, 1953/1958) di James Blish.
Quattro scienziati terrestri, fra cui un gesuita peruviano, arrivano sul pianeta Lithia dove gli abitanti ignorano cosa sia il male. Se i lithiani non conoscono peccato e dunque mancano di Dio – si chiede il tormentato gesuita – essi sono forse un’utopia di Satana? L’intreccio, anche teologico, si complica assai con l’entrata in scena di Egtverchi, “l’unico rettile dell’universo con genitori mammiferi”, che arrivato sulla Terra mostra grande abilità nell’usare e scombussolare i mass media: “Commentatore ormai di notizie alla tv, Egtverchi era il primo oratore televisivo che avesse un pubblico composto per metà di intellettuali disingannati e per metà di bambini entusiasti. Era un fenomeno senza precedenti”.
Il successo di Egtverchi è tale che può persino invitare il pubblico a “inviare lettere anonime ingiuriose alla ditta che paga le sue trasmissioni”. Forse accadrà il peggio se il gesuita non fermerà questo demonio/non demonio…
Altri alieni religiosamente inquietanti sono quelli presenti nel già menzionato Le Guide del Tramonto di Clarke, che hanno una… piccola differenza biologica. Il libro risente dell’età, soprattutto nella seconda parte, ma l’inizio e la studiata preparazione al colpo di scena alien-teologico restano godibilissimi. In sintesi: stavolta i potentissimi alieni sono venuti in pace, portando una fruttuosa collaborazione. Ma allora perché trattano solo con le Nazioni Unite, perché non si mostrano? Passano gli anni: finiti i sospetti e le congiure, i terrestri appariranno rassicurati, e così i ‘buoni alieni’ potranno comparire in pubblico… con due corna sulla testa e la coda! Ma senza impressionare più di tanto. Tutte le calunnie venivano da una precedente visita troppo prematura, sostiene Clarke.
L’alienità totale (ovvero del pensare non accettato)
Come abbiamo visto la parola alienità si riferisce anche alle (vere o presunte) alterazioni della salute mentale. Dunque questo percorso si avventura in una doppia direzione: come la letteratura di fantascienza ha affrontato i nostri ‘matti’, ma anche come noi terrestri potremmo essere ‘folli’ per chi ha una logica davvero altra.
Per entrare in argomento tuffiamoci direttamente dentro una storia.
In ogni posto di lavoro, per strada o a casa, incontrate i sanity-meters ovvero gli ‘alienometri’ prodotti dalla Cahill Thomas Manufacturing: li vedete intorno a voi, non troppo dissimili dai parchimetri, ma funzionano senza monete o tessere. Misurano il disadattamento – la pazzia – di ogni cittadino. Se si supera la norma, fra 0 e 3, si è sottoposti a sorveglianza; quando si arriva al livello 10, obbligatoriamente si deve sottostare alla ‘correzione chirurgica’ oppure entrare (per sempre o fino a guarigione?) nella misteriosa Accademia. E per l’appunto L’Accademia (The Academy) s’intitola un racconto-profezia scritto nel 1954 da Robert Sheckley.
Mi è capitato – nelle vesti di attore che ogni tanto, con sfacciataggine, indosso – di leggerne alcuni brani in una sede particolare come è quella dell’associazione dei familiari di degenti negli (ex, dopo la legge che tutti conoscono come ‘Basaglia’) ospedali psichiatrici, e mi ha molto colpito il commento di alcune persone che più o meno suonava così: è fantascienza sino a un certo punto, perché anche senza alienometri in questa società c’è chi (più o meno ‘autorizzato’) misura il nostro livello – da 1 a 10 – di ‘normalità’.
Ovviamente lo spunto iniziale di Sheckley è la tipica ossessione statunitense per l’igiene mentale e la conseguente diffidenza verso tutto ciò che si discosta da una presunta norma. Non abbiamo gli alienometri fra noi, però negli ultimi anni il tentativo di psichiatrizzare tutto si è allargato dagli USA al resto del mondo, trovando ostacoli ma anche vincendo battaglie importanti. Come sempre la buona sci-fi ci può aiutare a muoverci nei sentieri del presente e dei possibili futuri prossimi.
Proviamo allora tuffarci in uno dei mondi inventati da Dick. Nel complesso ed efficacissimo Follia per Sette Clan (Clans of the Alphane Moon, 1964) l’autore ha addirittura disegnato un intero sistema sociale basato su diversi tipi di malattie mentali in ‘guerra’ fra loro. C’è forse un solo Norm in mezzo ai Mani (la loro capitale è definita – notate la perfidia – Grande Da Vinci), ai Para (nella città di Adolf-ville), agli Schizo, ai Poli maniaci, agli Eb (i troppo buoni e dunque ebeti che si ritrovano – questa è ancora più provocatoria – in un luogo chiamato Gandhitown), ai Dep (depressi, con ogni evidenza) e infine agli Os-com cioè gli ossessivi-compulsivi. Come sempre accade con Dick, anche qui ci sono paraventi che nascondono altre verità.
Questa provocazione definitoria in Dick ha evidenti radici nel nostro mondo. La mania di classificare ogni minima ‘deviazione’ continua a tradursi in statistiche che urlano vertiginosi aumenti di vecchie/nuove forme di malessere psichico. Di continuo i mass-media rilanciano allarmi su ‘epidemie’ che, lungi dall’essere indagate o verificate, servono invece a lanciare altri farmaci, cure, psicoterapie ma anche ad allargare il controllo sulla vita privata. Bambini compresi, che vengono curati in sostanza perché ‘troppo vivaci’. Istituti definiti autorevoli – e magari lo sono, ma godendo di finanziamenti da parte di chi poi venderà i rimedi contro le presunte sindromi – possono periodicamente e tranquillamente sostenere che in Occidente un bimbo su quattro si può classificare ‘malato di mente’. Persino l’Oms, cioè l’Organizzazione Mondiale della Sanità delle Nazioni Unite, aveva annunciato – per il 2005 – mezzo miliardo di ‘picchiatelli’ in circolazione sul pianeta: per la precisione (ma chi fa i conti?) 413 milioni nelle società sviluppate e 122 nei Paesi pezzenti. E se vivere in effetti è sempre più difficile appare improbabile che l’abuso di farmaci risolva tutte le difficoltà esistenziali.
Ancora Dick ha previsto l’arrivo degli ‘psichiatri portatili’ (ben prima di programmi computerizzati come ELIZA). Vale aggiungere per coloro che hanno visto il (bruttino) Minority Report di Steven Spieberg – tratto dall’omonimo racconto di Philip Dick, sempre lui – che nel sistema giuridico statunitense esiste già la possibilità che sulla base di una ‘precognizione’ (di uno psichiatra, guarda un po’) scatti una condanna, persino la pena di morte.
Si può continuare ritornando a Sturgeon. Nel lontano 1956, Ultime Notizie (And Now the News…), un altro suo racconto, da una parte conduceva in un labirinto psichiatrico che (almeno per l’epoca) era dotto quanto sconvolgente ma dall’altra poneva una questione che sempre più risulta attuale e angosciosa: di fronte alla quantità di dolore, impotenza e rabbia che i mass-media ci riversano addosso cosa possiamo fare per non soffrire? E se quando decidiamo di nasconderci (di ‘rimuovere’ o ‘regredire’, per usare termini tecnici) qualcuno ci viene a snidare, ma senza offrire alcuna soluzione per quelle sofferenze, cosa potrebbe accaderci?
Due vicende esemplari hanno al centro delle donne. La prima è la protagonista di Synthajoy (1968) dell’inglese David G. Compton, sospesa tra le false vite dei ‘nastri’ che le scorrono nel cervello e il puzzolente mondo reale dove scopre che “solo adesso che sono ‘ufficialmente’ psicotica posso fissare la gente senza provare imbarazzo”. L’altra donna è invece una chicana – cioè un’immigrata latina negli USA – di mezza età, Connie Ramos, che viene classificata folle ma in realtà è solo un’emarginata: dalla sua ‘gabbia’, Connie può però sintonizzarsi su un futuro (ahi-noi lontano) comunitario, ecologista, non sessista e libertario. C’è in questo romanzo di Marge Piercy, Sul Filo del Tempo (Woman on the Edge of Time, 1976), una frase-chiave che, mi scuserete la digressione personale, ho scelto come sottotitolo del mio blog: “Per conquistare il futuro bisogna prima sognarlo”.
Bisogna sognare anche un’altra psichiatria (meglio: una non psichiatria) che neghi l’esistenza di due diversi universi per i ‘folli’ e per i ‘sani’. La ricorrente idea di un controllo sociale totale ha già storicamente prodotto l’internamento psichiatrico dei dissidenti nell’URSS e la lobotomia di massa negli USA. Altre tragedie porterà se dimenticheremo quel che aveva urlato Erasmo: “non è vero che ogni illusione o vaneggiamento debba chiamarsi follia”. Anzi. Sempre più, in una società di orrenda e socialmente iniqua ‘normalità’, di pensiero unico e di guerra preventiva/permanente, chi vaneggia può essere saggio più di coloro che ritengono questo il migliore dei mondi possibili. Forse la nostra follia è più saggia della nostra saggezza, ci hanno ammonito Erasmo e Michel de Montaigne.
Accenniamo a un altro paio di storie.
La prima è Arrivano i Mostri in Via degli Aceri (The Monsters Are Due on Maple Street), vale a dire l’episodio n. 22 (in onda il 4 marzo 1960) del celebre telefilm Ai Confini della Realtà (The Twilight Zone). È un esemplare racconto di paranoia collettiva scritto da Rod Sterling, e sono significative le frasi di chiusura: “I pensieri, le opinioni, i pregiudizi possono essere armi, armi che esistono solo nella mente degli uomini […] I pregiudizi possono uccidere e il sospetto può distruggere, la ricerca di un capro espiatorio contamina, come l’Atomica, i figli già nati e i nascituri”. Gli alieni – di loro si parla nel telefilm – spingono gli umani a farsi guerra fra di loro.
La seconda storia è Cephes 5, un racconto del 1973 di Howard Fast. A bordo della “grande nave interstellare” un ufficiale sente crescere il malessere mentale. Ne parla con il Consigliere dell’equipaggio, che gli domanda se ha sentito parlare di “delitto”, cioè di una “azione che sopprime una vita umana e che come idea ha origine in sentimenti anormali di odio e di aggressione”. Lo stupefatto ufficiale quasi non capisce di cosa parli il Consigliere: “Volete dire che c’è gente che ammazza altra gente?”. Purtroppo sì, spiega il Consigliere, anche se accade in pochissimi dei “33.472 pianeti abitati della galassia”. Cosa si fa con gli assassini? Li si isola sul pianeta Cephes 5. La nave interstellare è diretta lì: quel senso di malessere avvertito dall’ufficiale nasce dalle “cattive vibrazioni” dei 500 assassini “di tutte le razze della galassia”.
Il racconto è pieno di interrogativi ma uno – il più scioccante – si scioglie nelle ultime righe: “Noi chiamiamo questo pianeta Cephes 5 – disse l’ufficiale – ma tutti i pianeti hanno un loro nome, dato dagli abitanti. Come chiama quella gente il suo pianeta? – Lo chiama Terra – rispose il vecchio Consigliere”.
In sintonia con la provocazione di Fast, per questo segmento l’ultima parola si può dare a un esponente del ‘realismo magico’ latino-americano, quel Manuel Scorza che nel romanzo La Danza Immobile (La Danza Inmóvil, 1983) ci illuminò: “Lenin aveva torto… non è l’imperialismo la fase suprema del capitalismo, è la schizofrenia di massa”.
Di alieni mentali ce ne sono parecchi in giro, anzi come diceva quella vecchia frase di Franco Basaglia: “visto da vicino nessuno è normale”. Che poi siano tutti pericolosi è da dimostrare. Dipende, al solito, da chi ha il potere di guardare e decidere.
Un discorso non concluso
“Abbiamo incontrato gli alieni e gli alieni siamo noi” suggerisce Paul Preuss nel romanzo Le Porte dei Cieli (The Gates of Heaven, 1980) sulla scia di Fredric Brown. Ma questa consapevolezza purtroppo non appartiene a tutti, neppure nei mondi delle fanta-scienze.
Restano aperte grandi questioni, soprattutto a partire dalla stessa definizione di essere umano, rispetto alla quale confrontare l’alieno che a sua volta è difficile da definire.
Accenniamo ad alcuni fra i dubbi possibili filosofico-etici.
In primo luogo l’intreccio fra biologico e artificiale. Confrontiamoci per esempio con il concetto di ‘formutazione’ elaborato da Charles Sheffield nel romanzo Progetto Proteo (Sight of Proteus, 1978). Così all’inizio del libro: “Erano entrambi troppo giovani per ricordare i dibattiti sull’umanità. Che cos’è un essere umano? […] Un’entità può dirsi umana se, e solo se, è in grado di realizzare formutazioni intenzionali usando i sistemi di biorigenerazione”. E poi, poco prima della fine: “Se il confine tra mondo animato e inanimato è puramente teorico, la formutazione non ha limiti. Si può cominciare a concepire un essere pensante e cosciente grande quanto un pianeta o una stella […] Se i nostri test di umanità sono validi, ogni combinazione tra essere umano, o alieno, e macchina che coinvolga formutazioni intenzionali apparterrebbe di diritto al genere umano. Secondo me la questione è filosofica e non è così facile dare una risposta”.
Fu soprattutto lo sfrenato talento di Philip Dick a spalancare porte – dietro ognuna c’erano problemi in serie, come fossero scatole cinesi – sull’incerto confine fra naturale e artificiale, fra vita e non-vita. Siamo alla difficile – sempre più? – attribuzione di un senso alla nostra umanità.
Da romanziere, Dick si muoveva nei territori della letteratura di genere (disprezzati da certe élite); eppure l’impressione per quel che scriveva fu tale che gli venne chiesto di tenere conferenze per approfondire la sua filosofia. Lasciamogli dunque la parola in questa veste insolita dove non perde in efficacia: “Il più grande cambiamento al quale assistiamo nel nostro mondo è probabilmente la quantità di moto del vivente verso la reificazione e allo stesso tempo del meccanico nell’animazione. […] Un giorno forse vedremo un uomo sparare a un androide appena uscito da una fabbrica di creature artificiali della General Electrics: l’androide, con grande sorpresa dell’uomo, prenderà a sanguinare. L’androide sparerà, di rimando, e con grande sorpresa vedrà una voluta di fumo levarsi dalla pompa elettrica che si trova al posto del cuore dell’uomo. Sarà un grande momento di verità per entrambi”, dall’antologia Mutazioni (The Shifting Realities of Philip K. Dick: Selected Literary and Philosophical Writings, 1995).
Siamo ben oltre la metafora, anche perché dagli anni ’70 a oggi la commistione/confusione fra artificiale e biologico ha continuato a camminare. Come commenta Patricia Warrick: “L’analogia fra uomo e macchina è stata sfruttata sino in fondo. L’uomo è programmato dalla società perché funzioni come una macchina; l’uomo è un robot dall’aspetto umano che però si comporta come una macchina”, da Il Romanzo del Futuro – Computer e Robot nella Narrativa di Fantascienza (The Cybernetic Imagination in Science Fiction, 1980).
Solo per caso
Con ogni evidenza una conclusione è impossibile. Accettare l’alieno, quale che sia, venuto dall’esterno o scoperto dentro di noi, è per molti un tradimento. Del resto una definizione ristretta del concetto di umanità significa già, per molti, che riconoscere eguali diritti a ‘negri, froci e giudei’ (tanto per citare il provocatorio titolo di un recente libro di Gian Antonio Stella), sorridere a chi viene definito turco, gay, islamico, handicappato… è tradire. Ma per altri il vero pericolo – se si vuole, l’unico mostro – è uccidere gli alieni, le diversità fra noi e gli extraterrestri, se mai li incontreremo.
Così il mio piccolo suggerimento è guardare a qualsiasi alieno (presente e futuro, terrestre o extra) ripensando alla canzone There but for Fortune (1963), di Phil Ochs. Molte persone sono sconvolte dall’idea che “solo per caso” siamo ciò che siamo e non ciò che magari detestiamo… Ma invece c’è chi la sente vera, chi vorrebbe che quello cantato da Ochs (e da Joan Baez, e poi da altri ancora) fosse l’atteggiamento per guardare il mondo, anzi i mondi. Philip Dick, nel presentare alcuni suoi racconti, scriveva così: “La premessa fondamentale di tutte le mie storie è che se dovessi incontrare un essere intelligente extraterrestre (più comunemente definito ‘una creatura dello spazio esterno’) mi accorgerei di avere più cose da dire a lui che al mio vicino di casa”.
Solo per caso non siamo alieni. O più probabilmente in qualche modo lo siamo.