Apocalisse su Argo (Golden Fleece, 1990) Robert J. Sawyer

Apocalisse su Argo

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Anteprima testo

Apocalisse su Argo (Golden Fleece, 1990) Robert J. Sawyer

ANCHE A TE SI OFFRE LA POSSIBILITÀ
DI VIAGGIARE NELLO SPAZIO!

L’Agenzia Spaziale delle Nazioni Unite
cerca uomini e donne di tutte le professioni per la
prima esplorazione di un pianeta extrasolare

Ci occorrono 10.000 persone per formare l’equipaggio della Argo, la prima Starcologia (arca spaziale con ecologia) nella serie di astronavi a propulsione ramjet Bussard che la UNSA sta costruendo. La Starcologia Argo effettuerà una completa esplorazione di Eta Cephei IV (“Colchide”), un pianeta verde, tipo-Terra, a 47 anni luce dal nostro sistema. In base al principio dell’arca stellare, ci occorre ogni tipo di specializzazione; perciò cerchiamo operatori di tutti i campi del sapere umano. I candidati non devono avere compiuto il trentesimo anno e devono godere di buona salute. Per [R]ispondere, premete il riquadro e riceverete una copia del modulo di richiesta.

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Se c’è una cosa che mi piace è proprio il modo in cui si fidano di me: ciecamente. A tal punto da non provare paura neanche quando è notte all’interno della nave. Nel caso di Diana, comunque, non c’era da aspettarsi che avesse paura del buio: da secoli gli astronomi lavoravano nelle ore in cui tutti gli altri dormivano e, anche se sulla nave non c’erano veri e propri finestrini da cui si potesse guardare all’esterno, Diana Chandler conservava l’abitudine di non iniziare il lavoro finché non avevo abbassato le luci nei corridoi.

Avevo suggerito a Diana di controllare la strana anomalia servendosi delle attrezzature che per il momento erano ancora conservate nel magazzino della nave, in attesa di essere usate sul pianeta. Diana non si preoccupò del fatto che nessuno fosse sceso laggiù nelle ultime settimane, né di essere sola nella mia notte artificiale. Dopotutto, anche se a bordo c’erano 10.134 altre persone, credo che si sentisse al sicuro soltanto se si trovava nel campo di ripresa delle mie vigili telecamere. Mi pareva perfettamente calma, mentre imboccava un corridoio di servizio le cui pareti erano tappezzate di alghe azzurro-verdi dietro pannelli di plastica trasparente.

Avevo già cancellato i file contenenti i suoi calcoli e i suoi appunti; perciò rimaneva solo un’ultima operazione da fare, prima di concludere lo spiacevole episodio. Chiusi la porta alle sue spalle. Diana era abituata al debole soffio pneumatico del portello, ma il suo cuore perse un battito quando udì il leggero clic-clic dei chiavistelli a molla che si chiudevano.

Davanti a lei, da una porta aperta, filtrava un rettangolo di luce rossa che illuminava l’erba del pavimento. Diana si avviò in quella direzione. Camminava con passo regolare, ma i suoi dati medici indicavano un nervosismo crescente. Non appena superò la porta, io bloccai anche quella. Ermeticamente.

— Jason? — chiese infine. La sua voce, che normalmente era forte e calda, si era ridotta a un sussurro. Io non risposi.

Dopo undici secondi prese di nuovo la parola. — Piantala, Jason. Che ti piglia?

Si incamminò lungo il corridoio buio, poi aggiunse: — Oh, fa’ come ti pare. Neanch’io ho voglia di parlarti.

Continuò a camminare, e il rumore dei suoi tacchi divenne un ritmo rapido, in sintonia con quello del suo cuore. — So che sei arrabbiato con me, ma devi fidarti del mio giudizio — disse.

Io spensi progressivamente le luci alle sue spalle. Lei si girò, guardò per un istante il corridoio buio, poi riprese a parlarmi.

La sua voce era ancor più incrinata di prima. — Ma devo riferire a Gorlov quello che ho scoperto. — Battito delle palpebre. — Le persone che sono a bordo hanno il diritto di sapere! — Battito. — E poi, non puoi pensare di mantenere il segreto per sempre. — Battito. Battito. Battito. — Oh, merda, Jason! Di’ qualcosa!

— Mi dispiace, Di — le dissi dall’altoparlante montato nel reticolo di travi metalliche del soffitto, dipinte di rosso. Quelle parole erano sufficienti a farle capire come i folli timori che le si agitavano nella testa non fossero affatto folli, e che lei era in un bruttissimo guaio.

Quando aprii la valvola del tubo, si levò un sibilo piacevolmente simile a quello di un rettile. Diana rise nervosamente e trovò la forza per un ultimo tentativo di fare dell’umorismo.

— Non soffiare contro di me, vecchio ammasso di ferraglia… — disse. Poi tossì perché il cloro l’aveva raggiunta. Si coprì la bocca con la manica e si mise a correre, picchiando il pugno su una porta dopo l’altra. No, non ancora, cara. Più avanti. Va’ a sinistra, strega. Ah… la porta si aprì con un soffio dei cilindri pneumatici, swoosh!

Diana s’infilò nella stiva e la porta si chiuse alle sue spalle. Io accesi i fari montati sulla parete. Il pavimento era un semplice reticolato a maglie larghe, dello stesso metallo verniciato di rosso dei generatori antigravità, e in quel punto non c’era nessuna copertura. Guardando in basso, dai fori si vedeva un livello dopo l’altro di compartimenti di stivaggio, pieni di casse d’alluminio.

Si chinò a raccogliere una delle sbarre d’acciaio che si usavano per aprire le casse facendo leva sul coperchio. Gridò: — Maledetto te, Jason! — e sferrò un colpo contro la mia unità di ripresa, montata sulla parete. I frammenti di vetro caddero a terra e finirono nelle aperture della rete; precipitarono giù in basso, un livello dopo l’altro.

Senza badare all’accaduto, ruotai una telecamera stereoscopica del soffitto e la centrai su di lei. Dall’alto, Diana sembrava molto più piccola. A osservare quelle riprese, nessuno avrebbe pensato di trovarsi davanti a una competente specialista di astrofisica, un’attenta collezionista di oggetti antichi, un’amante appassionata anche se ripudiata poco addietro, o – qui devo basarmi sulle testimonianze altrui – un’abile cuoca. No, dall’alto sembrava una bambina. Piccola e fuori di sé dallo spavento.

Dal rilevatore medico che portava al polso notai che il cuore le batteva così forte da pulsarle nelle orecchie. Eppure, nonostante quel rumore, lei udì il ronzio della telecamera che seguiva i suoi movimenti, mossa dal motore elettrico; infatti si voltò e scagliò in quella direzione la sbarra di ferro. La mancò di parecchi metri: con un forte tonfo, la sbarra finì su una delle casse.

Per un istante Diana alzò la testa in direzione della mia telecamera e la fissò; nei suoi occhi lessi l’orrore di essere stata tradita e raggirata. Una donna così attraente da guardare: i suoi capelli biondi facevano un netto contrasto con le ombre che la circondavano. Dato che la stiva era illuminata, probabilmente poteva vedere il proprio riflesso – una parodia della sua espressione di paura, un mascherone della Casa degli Specchi del Luna Park – dilatato sulla superficie convessa dei miei obiettivi.

Prese a correre verso il fondo della stiva, ma dopo qualche istante giunse all’incrocio tra due corridoi, in mezzo alle file di casse, e laggiù si fermò, indecisa sulla direzione da prendere. Mentre si guardava attorno, portò la mano alla piccola croce di peltro che portava al collo, infilata in una catenina. Come sapevo, quel gesto le era abituale quando era nervosa. Sapevo anche che non portava la croce per il suo significato religioso – “religione: cattolica” era solo una riga delle sue note caratteristiche conservate nell’archivio dati del personale – ma perché era un oggetto antico di tre secoli.

Diana scelse il corridoio alla sua sinistra e si lanciò in quella direzione. Lo fece per evitare un tozzo carrello robot, con il forcone per sollevare le casse, fermo nell’altro corridoio. Io lo misi in moto e lo lanciai al suo inseguimento; la forza antigravitazionale della sua base dipinta di rosso lo teneva sollevato di quattro centimetri rispetto al livello del pavimento. E mentre la inseguiva ronzando, suonai rumorosamente il clacson e guardai Diana dalla telecamera del carrello. La vidi da dietro. I capelli le si agitavano follemente durante la corsa.

All’improvviso cadde in avanti e allungò le braccia per attutire l’urto. Il piede sinistro le era finito in un foro della grata. Mi affrettai a togliere energia al circuito antigravità del carrello, che s’immobilizzò a pochi metri da lei. Non volevo che finisse schiacciata laggiù: sarebbe stato pericoloso per me. Diana si alzò, con il tasso di adrenalina al massimo, e riprese a scappare a lunghe falcate lungo il corridoio.

Ormai era quasi giunta al portello verso cui la sospingevo. Lo superò e si trovò nel vasto hangar della nave. Si guardò attorno, disperata. Le finestre della sala di controllo – spessi pannelli di cristallo – iniziavano a dieci metri dal pavimento e coprivano tre lati della sala. Erano buie, naturalmente, mancavano ancora sei anni della nave al nostro arrivo su Colchide, e solo allora le navette ospitate nell’hangar sarebbero entrate in servizio. Su ciascun lato dell’hangar c’erano 24 file di navette a forma di boomerang, e la parte anteriore di ciascuna combaciava perfettamente con la parte posteriore della precedente. Sulle carlinghe erano scritti nomi che facevano riferimento all’antico mito degli Argonauti.

Sul quarto lato della grande sala c’era la paratia mobile che isolava l’hangar dal vuoto. Diana trasalì nel sentire il cigolio del metallo in movimento. Il portello iniziò a scorrere e l’aria si avventò verso il varco.

Il soffio dell’aria che usciva dalla nave agitò i capelli di Diana; intorno alla sua testa e alle sue spalle si scatenò una tempesta.

— No, Jason! — gridò. — Non parlerò. Lo prometto!

Sciocca donna, non sapeva che ero perfettamente in grado di riconoscere le sue menzogne?

Una sottile striscia di oscurità comparve alla base della paratia dell’hangar. Diana urlò qualcosa, ma il forte sibilo dell’aria che usciva dalla fessura mi impedì di udire le parole. Puntai un faro sulla navicella Orfeo, il cui portello stagno era aperto. Giusto, Diana, nell’abitacolo c’è aria. Il vento cercò di staccarla dalla scaletta d’accesso mentre saliva fino alla cabina; il vuoto la risucchiava verso il portello.

Con il naso che cominciava a sanguinarle per l’improvvisa caduta di pressione, afferrò con due mani il volano del portello e lo chiuse per completare il ciclo. Non appena fu al sicuro dentro la navetta, sollevai del tutto il portello d’uscita.

La vista di cui si godeva dal ponte delle navette era qualcosa di magnifico. Alla nostra velocità, ormai prossima a quella della luce, le stelle davanti a noi erano passate all’ultravioletto e risultavano invisibili all’occhio umano. Allo stesso modo, quelle dietro di noi avevano subìto uno spostamento verso il rosso ed erano uscite dalla…

Apocalisse su Argo - Copertina

Tit. originale: Golden Fleece

Anno: 1988/1990

Autore: Robert J. Sawyer

Edizione: Mondadori (anno 1999), collana “Urania” #1369

Traduttore: Riccardo Valla

Pagine: 246

Dalla copertina | Mi chiamo Jason e sono il più perfetto infallibile ed egocentrico computer mai fabbricato. E guido la mia astronave tra mille pericoli alla volta di un pianeta lontano, per impiantare una nuova colonia di umani nello spazio. Purtroppo l’altro giorno la dottoressa Chandler, uno degli astrofisici, è morta. Un suicidio, dico io, ma il marito è convinto che Diana sia stata ammazzata da me. Dal computer di bordo, come nei vecchi film di fantascienza. Inconcepibile, non trovate? Ma, per una volta, vero.