È il 30 dicembre quando per la prima volta i media danno notizia di un attacco terroristico in Dagestan, repubblica ex sovietica del Caucaso, ai danni di una base militare segreta ancora sotto il diretto controllo russo. Si parla di centinaia di morti, ma le informazioni sono frammentarie e imprecise: ai giornalisti stranieri presenti sul posto viene impedita ogni libertà di movimento e poi, per la loro sicurezza, imposto il trasferimento. Le prime immagini che giungono dal Dagestan sono quindi amatoriali, trasmesse da CNN+: si vedono unità speciali dell’esercito russo avanzare lungo una strada deserta di un paese vicino alla base presa d’assalto; i soldati, giovanissimi, indossano maschere antigas; improvvisamente incominciano a sparare come pazzi contro qualcosa; poi fuggono in direzione del blindato da cui erano scesi solo poco prima. Dalle immagini non riesce a comprendersi altro, salvo che la situazione è grave.
Nei giorni successivi gli eventi precipitano: la popolazione civile del Dagestan viene evacuata; la Russia chiude le proprie frontiere e chiede l’aiuto estero per far fronte a una grave emergenza sanitaria. Pare infatti che l’attacco terroristico abbia causato la fuoriuscita di un gas tossico (forse Sarin) o di un qualche agente patogeno. Gli aiuti stranieri sembrano tuttavia impotenti: gli stessi medici inviati dall’OMS e dal Center for Desease Control and Prevention of Atlanta cadono vittima di non meglio precisati incidenti determinati dai contatti con i pazienti.
Su Internet, ovviamente, si diffondono notizie tanto incredibili quanto allarmanti: sembra che il patogeno sfuggito a ogni controllo sia un ceppo particolarmente resistente di Ebola e che gli infettati muoiano tra atroci sofferenze, orribilmente deformati dalla malattia. Pare anche che la malattia scateni negli infetti improvvisi quanto incontrollabili attacchi di furia omicida. In alcuni siti si parla addirittura di raccapriccianti episodi di antropofagia.
Un giovane avvocato spagnolo, rimasto da poco vedovo, segue con attenzione quanto intorno a lui sta accadendo. Scrupolosamente riporta sul suo blog tutti gli avvenimenti della giornata, aggiungendo i suoi personali commenti. Sembra che il mondo stia impazzendo: oramai si parla di pandemia. Anche se probabilmente le sue preoccupazioni sono eccessive, è ben lieto che la sua casa gli possa garantire una quantomeno relativa sicurezza: ha provveduto da poco a montare alcuni pannelli solari che dovrebbero assicurargli un buon apporto di energia anche in caso di black out; i suoi surgelatori sono pieni; le mura del suo giardino sono alte e sicure. E a tenergli compagnia ha il suo Lucullo, un gatto che gli ha letteralmente salvato la vita.
Purtroppo per lui la sua casa non potrà proteggerlo dall’apocalisse a lungo.
Commento
Apocalisse Z (Apocalipsis Z, 2007) è romanzo che non riserva particolari sorprese per il lettore: anche se manca lo scontatissimo assalto al supermercato da parte dell’orda inarrestabile, ci si ritroverà infatti immersi in situazioni che rievocheranno con facilità immagini e scene dei ben noti film di Romero. Si tratta spesso di richiami voluti, certo, quasi vere e proprie citazioni (la ricerca di una barca per abbandonare la città, la salvezza insperata nell’utilizzo di un elicottero), ma la sensazione che domina è comunque quella dell’ennesima ripresa di un tema, la distruzione della civiltà umana da parte degli zombi, che sugli schermi cinematografici e televisivi (in ultimo con il telefilm The Walking Dead e l’anime High School of the Dead) pare già essere stato sufficientemente trattato e sfruttato.
Per il vero infatti, la sensazione del ‘già letto’ non è determinata da una scarsa capacità immaginativa dell’autore Manel Loureiro, il quale al contrario si sforza di orchestrare una storia tesa e avvincente, quanto piuttosto dal limitato respiro che i ristretti margini del soggetto impongono.
Le stesse creature protagoniste non offrono infatti significative variabili: il non-morto può essere più o meno rapido nell’inseguire la preda; può avere una maggiore o minore forza fisica rispetto al vivente; può ignorare (come in Romero) o non disdegnare (come in The Walking Dead) il nutrimento che gli potrebbe derivare dagli animali. Ma si tratta fondamentalmente di dettagli poco incisivi: è certo che, pena il trasformare lo zombi in qualcosa di essenzialmente diverso, le storie su esso costruite non potranno difettare di elementi come la facilità di contagio o l’inarrestabile dilagare di orde fameliche. Condizioni essenziali e imprescindibili, ma anche inevitabilmente caratterizzanti: ogni deviazione, ogni eccezione sarebbe un’evidente nota stonata.
Allo stesso modo gli zombi non possono semplicemente uccidere i pochi sopravvissuti: devono lacerare, dilaniare, strappare, mordere. E devono farlo senza esitazioni, ripensamenti, moti di pietà o successivo pentimento. O non sarebbero zombi.
Il non-morto si connota infatti per differenza rispetto al vivente: in quanto non-vivo, non ha sovrastrutture psicologiche, non intende gerarchie sociali, non riconosce neppure il simile (un altro non-morto) che semplicemente ignora (come verrà pur brevemente segnalato nel libro che segue questo, dal titolo Apocalisse Z – I Giorni Oscuri). In quanto tale, il non-morto, privo di qualsivoglia ricordo di ciò che era stato, deambula e attacca solo in ossequio a superstiti o ricreati bisogni primari, non per malvagità, essendo semplicemente privo della facoltà di distinguere tra bene e male. Lo zombi è in effetti un uomo destrutturato, senza convenzioni sociali e senza paradigmi etici, in altri termini: puro Es, privo del controllo esercitato dal Super-Io e privo quindi del rimorso, dell’ansia, dell’inquietudine nascenti dalla contrapposizione di queste due istanze.
Per quanto possa apparire assurdo, in netto contrasto con la corruzione della sua carne – che però, significatamene, non si decompone – l’essenza del non-morto è pura: non pura malvagità, ma pura istintività spinta al suo parossismo, materializzata in una violenza cieca e assoluta che, appunto, morde, lacera, disfa.
Indubitabilmente è un essere depauperato, privo di tutto ciò che lo aveva reso completo: senso di famiglia, appartenenza sociale, valori, sentimenti. Ma al contempo è stato spogliato anche di tutte le perversioni morali proprie dell’uomo contemporaneo che innescano stucchevoli processi giustificativi. Da qui il senso stesso della sua letteraria esistenza: una denuncia radicale del nefasto, dell’oscuro, del marcio che si annida nella società moderna.
L’uomo-vivo, al suo cospetto, non può ovviamente che provare paura, irrefrenabile e incontrollabile, perché innanzi a sé non ha soltanto il monito concreto della prossima fine letta su un piano meramente individuale, ma anche la materializzazione tangibile dello sgretolamento inevitabile della sua società, di tutto ciò che ha saputo (malamente) creare.
Ma non di rado il savio e il saldo nei propri principi morali riconoscerà anche nel mostro che ha di fronte il suo simile, il “buono” tormentato che non ha pace nemmeno nella morte. E ne avrà pietà. L’eliminazione della minaccia sarà un atto necessario ma anche liberatorio e giusto.
In Apocalisse Z troviamo questo non-morto ‘puro’, e come sempre veniamo ghermiti dall’angoscia di fronte al suo lento ma inarrestabile avanzare e dall’orrore innanzi all’eccesso della sua bestialità.
Pur accettando come obbligate le scene di macabra ferocia in esso contenute, spesso grottesche, il romanzo appare tuttavia il frutto acerbo di una elaborazione non perfettamente compiuta.
Nato sulle pagine di un blog che ne ha fatto la fortuna, il romanzo avrebbe necessitato di un’ulteriore, generale rilettura, volta alla correzione di errori e sviste e all’eliminazione di elementi sovrabbondanti e di scarso pregio. A questo proposito non sfuggono al lettore le misteriose scomparse e ricomparse di parti di equipaggiamento date per perse o dimenticate, o il fatto che la narrazione in prima persona (seppure a effetto e col pregio iniziale di permettere al lettore l’immediata immersione nell’incubo del protagonista) mantenuta per l’intero romanzo sotto forma di diario è una scelta la cui logica appare di ardua giustificazione: nessun superstite scenderebbe tanto nei dettagli, specie in quelli più raccapriccianti e angoscianti, se la motivazione dichiarata del suo scrivere è (come in questo caso) quella di cercare di mantenere o recuperare il proprio equilibrio mentale. La soluzione appare vieppiù incongrua quando vengono riportati parola per parola interi dialoghi, vengono create artificialmente pause e censure, e quando, per introdurre suspense, vengono benedetti o maledetti imprevisti la cui natura viene svelata solo qualche pagina dopo.
Nell’impalpabilità di tutti gli altri personaggi, trova una qualche dignità solo il pilota ucraino Viktor. Il suo indulgere alla facile bevuta e la sua scarsa padronanza del linguaggio (realizzata con l’utilizzo di verbi non coniugati e l’intercalare di espressioni in russo) ne rendono tuttavia la figura eccessivamente stereotipata e poco credibile.
Il confronto con opere analoghe come il recente Il Passaggio dell’americano Justin Cronin, anch’esso romanzo apocalittico, è sotto molti aspetti impietoso.
Eppure, nonostante gli evidente difetti, la storia scorre rapidissima, di incubo in incubo: il lettore si ritrova d’immediato catapultato nel fetore della decomposizione, tra palazzi spettrali e infestati, tra città deserte disseminate di lamiere e pozze di sangue. Quasi trattiene il fiato, preso dalla vertigine dell’orrore e dall’ansia per il prossimo passo nella stanza buia ammorbata da un odore nauseante e dalla quale proviene un sinistro rumore; volta velocemente pagina, scappando dall’orda inarrestabile insieme a compagni verso i quali non può che nutrire sospetti; rabbrividisce con il protagonista mentre cerca scampo nelle acque gelide di un fiume. Raramente si ha un momento di pausa e, in quelle circostanze, il lettore riprende fiato esattamente come i protagonisti del romanzo.
Le atmosfere sono perfette: vuoto e silenzio si alternano a versi angoscianti e urla terribili. Il lettore vede con nitidezza le mostruosità narrate e ne è partecipe. Soffre, teme, si rianima… per poi ripiombare nell’angoscia più nera. Da brividi l’ingresso in un ospedale apparentemente deserto; raccapriccianti gli incontri all’interno del reparto pediatrico.
Il ritmo è sempre incalzante, e, se solo il romanzo avesse beneficiato di una opportuna revisione, il lettore avrebbe potuto godere appieno di una terribile, angosciante e riuscita storia d’orrore.
Tit. originale: Apocalipsis Z
Anno: 2008
Autore: Manel Loureiro
Ciclo: Apocalisse Z #1
Edizione: Editrice Nord (anno 2010)
Traduttore: Claudia Marinelli
Pagine: 413
ISBN: 8842916951
ISBN-13: 9788842916956
Dalla copertina | Ha trent’anni. È un avvocato. Vive in una cittadina della Galizia, in Spagna. Come tutti, apprende la notizia dalla televisione: in una piccola repubblica del Caucaso, un gruppo di guerriglieri ha preso d’assalto una base militare russa. Un “normale” atto terroristico in una delle zone più turbolente e instabili del pianeta? Così sembra. Ben presto, però, s’insinua il sospetto che sia successo qualcosa di più grave. Qualcosa che non può essere controllato. Un’esplosione atomica? Un virus? Tra lo sconcerto generale, la Russia annuncia la chiusura delle proprie frontiere e, nel giro di pochi giorni, tutti i Paesi dell’Unione Europea fanno lo stesso. Poi intere città vengono isolate e messe in quarantena. Poi entra in vigore la legge marziale. Ma è tutto inutile. Ormai niente è più come prima. Non c’è elettricità, manca l’acqua potabile, la benzina è finita, gli scaffali dei negozi sono vuoti. Nessun uomo gira per le strade. Perché chi lo fa non è più un uomo. È diventato uno zombie. Ha trent’anni. È un avvocato. Vive in una cittadina della Galizia, in Spagna. E forse è l’unico sopravvissuto all’Apocalisse Z…