Anno 2070: l’atmosfera terrestre è satura di anidride carbonica, le risorse sono esaurite, gran parte delle specie marine sono estinte. L’umanità sopravvive in spazi chiusi, sotto gigantesche cupole oppure in torri disseminate nei vasti deserti. Emigrare su un altro pianeta abitabile rimane l’ultima speranza.
Un giovane astronauta viene selezionato per imbarcarsi su una nave spaziale, diretta verso il lontano Aquaend, un mondo tutto da esplorare, che si ipotizza idoneo alla vita umana.
Fin dalle prime sequenze, il corto Aquaend di LUIGI BONIZZATO affronta temi di dolorosa attualità: il disastro ambientale, la solitudine dell’uomo, la perdita della fede, l’emigrazione verso luoghi lontani… argomenti trattati spesso dalla migliore fantascienza, che ritrae il futuro per consentire la riflessione sul presente, o per indagare la natura umana.
L’idea di un gruppo di astronauti lanciato nello spazio, alla disperata ricerca di un pianeta da colonizzare, è già contenuta nello struggente e purtroppo mal distribuito The Wild Blue Yonder di WERNER HERZOG, che fonde documentario e fantasia grazie all’uso creativo di materiale footage della NASA. In quella pellicola, per bocca di un malinconico alieno, vengono narrati i deludenti tentativi di ricostruire un’esistenza soddisfacente sul nostro pianeta da parte della gente di Andromeda.
Più esplicito è l’omaggio a STANLEY KUBRICK, in particolare a 2001 Odissea nello Spazio. L’aspirante astronauta attende il colloquio che deciderà il suo futuro in una sala simile ai locali della stazione orbitante in cui si incontrano Heywood Floyd e il dottor Smilof. L’assenza di gravità fa galleggiare negli asettici corridoi dell’astronave non una penna, ma un libro dedicato al regista. La capsula di salvataggio assomiglia a quella usata da David Bowman per riparare l’astronave e, più tardi, sfuggire al vendicativo elaboratore guasto Hal 9000. Le scenografie e gli abiti sono ispirati dal capolavoro, e le stesse inquadrature sono montate in maniera da suggerire diversi narratori, com’era avvenuto per il drammatico viaggio della Discovery.
Anche se è stato proiettato in svariate rassegne specializzate, il cortometraggio prende le distanze da certi imbarazzanti collage di citazioni dotte ma affastellate con l’unico intento di piacere ai critici. La narrazione di Luigi Bonizzato è certamente influenzata dai Grandi: per fortuna, non è mai lineare e scontata. Lungi dall’indulgere a facili sfoggi di effetti speciali e luoghi comuni, il regista segue il personaggio principale nei suoi ricordi, mescola presente, passato e sogni, in un flusso continuo che ricorda l’Ulisse di JAMES JOYCE.
Il protagonista vaga nello spazio profondo con un solo compagno, che si intravede ma resta sempre in penombra, quasi fosse solo una voce interiore a cui viene attribuito un corpo. È una presenza voluta sia per acuire il senso di solitudine, sia per preparare lo spettatore all’enigmatica conclusione.
Se, nelle magistrali tavole de L’Incal di MOEBIUS e JODOROWSKY, Aquaend è il pianeta-oceano dalle acque vermiglie che celano misteri, nel cortometraggio diviene metafora dell’inconscio umano. Il regista sottolinea come il viaggio verso l’ignoto sia prima di tutto un cammino interiore che ogni persona in ogni epoca o condizione compie. L’astronauta non ha un nome: come se attribuirgli una precisa identità comportasse il ridurre la sua esperienza dall’universale al particolare.
Ha una storia personale, narrata al solo scopo rendere credibili decisioni e comportamenti. Scopriamo che è l’unico sopravvissuto a un incidente provocato da un parafulmine difettoso. Viviamo la sua quotidiana disperazione attraverso un tentativo di uscire all’aria aperta senza la necessaria mascherina, o tramite una corsa in auto a folle velocità, o nella solitudine di una chiesa deserta. Sappiamo che ha accettato la missione perché è il “migliore”, o piuttosto perché non ha nessuno al mondo, come confessa all’imprenditore che lo assume. Rivela la sua umanità scegliendo di vivere nel lusso i suoi ultimi giorni sulla Terra.
Più tardi, sull’astronave, dorme in una stanza che replica un’accogliente casa d’inizio Novecento, con tanto di arredamento di alto antiquariato, quadro barocco di Madonna con Bambino e fotografie. Queste ultime vengono lasciate intravedere solo per un attimo; quel poco basta per suggerire allo spettatore la vita familiare perduta: una ragazza, un matrimonio… Dettagli descritti con brevi battute e con sequenze appropriate, senza rivelare informazioni superflue.
Il dialogo è essenziale, fatto di poche significative battute; mai si sostituisce all’uso della camera, e parlano piuttosto le inquadrature, tutte selezionate in modo da fornire precise indicazioni sui personaggi. La suggestione della musica classica o dei suoni contemporanei completa le atmosfere metafisiche.
Per restare in tema di citazioni, la visione della donna con un bambino ricorre spesso. Non sappiamo con certezza se si tratti della moglie con il figlio, periti nell’incidente dal quale il protagonista si è invece salvato, o se sia un ricordo felice dell’infanzia, o magari una metafora dei sogni più autentici, ma non ha importanza: è un’immagine confortante per l’astronauta, e allo stesso tempo rappresenta una meta agognata che diviene sempre più concreta a mano a mano che l’astronave si avvicina al pianeta Aquaend.
Questa reminiscenza, che va a concretizzarsi nelle ultime sequenze, ricorda da vicino quelle indotte dall’Oceano Pensante di Solaris, forse l’entità più aliena tra quelle mai immaginate. Un complesso organismo, che dà corpo al ricordo di persone concrete, ed è vivente pur restando inintelligibile da parte dell’uomo. L’astronauta in qualche modo raggiunge Aquaend e in esso si perde; trova l’oggetto dei suoi sogni, oppure lo intravede prima che subito sfugga.
Aquaend è il compiersi del Destino, sia esso la soddisfazione paradisiaca dei desideri, la fine della vita fisica, il fondersi con l’Assoluto o un’esperienza estatica di contemplazione a cui seguirà un consapevole ritorno, analoga a quella che permea la Divina Commedia.
La conclusione è ricca di poesia e giustamente enigmatica: ci sono situazioni che parlano direttamente al cuore dello spettatore. Oltre, ogni parola, ogni inquadratura, ogni spiegazione è superflua.
Intervisa a Luigi Bonizzato
Luigi Bonizzato, classe 1967, diplomato al Liceo Artistico, ha frequentato l’Accademia di Belle Arti e lavorato come grafico pubblicitario e fumettista. Oggi si occupa d’insegnamento di materie artistiche, e realizza cortometraggi che produce, dirige, fotografa e monta personalmente. Esordisce nel 1989 con il fantascientifico 1998; nel 1991 gira l’horror Trashman, che nel 2002 partorirà il sequel Trashman 2: the Desolator; la produzione di Fantascienza riprende nel 1993 con Universe, a cui fanno seguito Koburn (2004), The Shadow Program (2006) e Aquaend (2007). È attualmente in lavorazione un nuovo corto, The Crossing Man.
Con molta disponibilità, l’autore ha accettato di narrarci la sua visione della Settima Arte.
Quando e come hai iniziato ad interessarti al Cinema?
Molto presto. Da bambino avevo un piccolo televisore in bianco e nero con il quale mi sintonizzavo su straordinarie rassegne fantascientifiche curate da ENRICO GHEZZI: quei film mi hanno aperto delle porte che non si sono mai più richiuse. E poi c’erano i telefilm, come la prima serie di Spazio 1999, che mi terrorizzava, o Project U.F.O. che trovavo esotico e onirico, molto onirico. Ogni notte era una sorpresa, una meraviglia. Questo mi ha spinto a fare qualcosa, a cercare di ricreare con il super 8 mm quel “sense of wonder” con il quale scoprivo la Fantascienza: e quella degli anni Settanta era Fantascienza estremamente profonda, fondamentale, affascinante. Naturalmente continua a esserlo tuttora, dato che i film-playstation di oggi non reggono minimamente il confronto.
La scelta di realizzare corti è legata ai mezzi, alla possibile distribuzione, o è una scelta narrativa che senti più tua?
Anche se la tecnologia digitale mi consentirebbe di creare un lungometraggio, ovviamente dovrei appoggiarmi a una struttura produttiva solida per realizzare un film competitivo. Il corto rappresenta una valida alternativa poiché è un prodotto agile, veloce, riproducibile, scaricabile, visibile in più Festival specializzati: è un’ottima opportunità per farsi conoscere rispetto al tentativo farraginoso di portare a termine e cercare di distribuire un film (per di più di Fantascienza) in Italia. E poi le mie storie si esauriscono naturalmente in uno spazio di quindici-venti minuti, tempo ideale per un cortometraggio. Sono portato per i corti in modo del tutto spontaneo, e li faccio da sempre per puro piacere senza preoccuparmi di dovere a tutti i costi sfondare nel cinema.
Sullo schermo si nota una grande passione per STANLEY KUBRICK, sia come uso della macchina da presa sia come scenografie, costumi, temi. Quali sono invece i modelli letterari che ispirano la tua opera?
Temo di non averne affatto. L’eventuale ispirazione che possa trarre da qualcun altro può giungermi attraverso un quadro, una musica, un film, qualcosa per esempio che – come nel caso di Koburn –mi faccia pensare: vorrei poter realizzare una sorta di “Mad Max”. Il risultato è comunque sempre frutto di una mia personale e lunga elaborazione. Direi che essenzialmente ho lo stesso approccio al materiale di un pittore, è come se creassi un quadro che ritocco continuamente, fino a che non ottengo una precisa armonia sensoriale. E anche questo mi viene del tutto naturale.
Quale è stato l’effetto speciale più complesso da ottenere?
Sono convinto che nulla sia impossibile se si è abbastanza elastici e creativi. Ad esempio per The Shadow Program avevo bisogno di una città allo sfascio, ma mi sono detto: inutile costruire complicati modellini quando ci sono parchi tematici come “Italia in miniatura”, con decine di piccoli palazzi e monumenti! Avrei solo dovuto buttar lì qualche macchinina rovesciata. Per Aquaend volevo una città futuristica nel ghiaccio stile SF anni Settanta, e così, mentre aspettavo che nevicasse, nel mio garage ho messo insieme un sacco di roba che avesse un senso, poi sono andato in spiaggia e l’ho assemblata e ripresa con un grandangolo. Con il computer faccio il resto: fumo, pioggia, nebbia, aggiungo e tolgo particolari, le astronavi in volo o i mezzi cingolati… Mi arrangio moltissimo, e la sfida, il vero divertimento è ottenere il massimo col minimo. Ovviamente bisogna essere coscienti dei propri limiti e non fare il passo più lungo della gamba; Roger Corman insegna!
Metafisica, modelli e grafica al PC: cos’è più indispensabile?
Senz’altro un computer per legare il tutto. Il computer mi ha finalmente permesso l’indipendenza creativa, rispetto a una volta quando ero costretto ad affittare costosi impianti di editing lineari che, tra i tanti limiti, non consentivano di modificare ciò che era già stato registrato su videocassetta master. Il computer è davvero libertà totale.
Prima di realizzare Aquaend, hai avuto la possibilità di visionare The Wild Blue Yonder?
Ho avuto modo di vederlo più tardi, in televisione, ma sinceramente l’ho trovato abbastanza trash, per non dire brutto: ho capito l’operazione che voleva fare WERNER HERZOG, ma non è nelle sue corde e questo è del tutto evidente. Sarebbe stato più originale fare del buon Herzog creando in studio un’astronave e spedendo un paio di sub nell’artico, ripresi da un’attrezzatura cinematografica decente, in una sorta di Fitzcarraldo fantascientifico! Francamente mi ritrovo di più in Nosferatu, il Principe della Notte o in Aguirre, Furore di Dio, dove è percepibile la purezza del rapporto tra uomo e destino, nel passaggio culminante da ordinario a straordinario. Lì c’è tutto Herzog.
Aquaend e Solaris: due mondi che si assomigliano?
Senza dubbio. Vi è la stessa struttura narrativa e un soggetto assai simile dato che Aquaend è la storia di un uomo irrisolto, un astronauta che non avendo mai superato la perdita della famiglia accetta una missione senza ritorno nello spazio con sviluppi straordinari. Senza Solaris e 2001: Odissea nello Spazio non ci sarebbe Aquaend: quelli sono due tra i film che mi hanno forgiato, e vanno oltre la Fantascienza. In un certo senso ho voluto anch’io trascenderla con Aquaend, arrivando al cuore, al sistema nervoso e oltre, ancora oltre.
I tuoi corti presentano un dialogo essenziale ma molto significativo; quanto conta la presenza scenica degli attori coinvolti?
Le persone coinvolte sono quasi tutti miei amici, e li scelgo soprattutto per la loro fotogenicità più che per le doti recitative. Do molta importanza a una resa fotografica complessiva la più perfetta possibile. In secondo luogo, lavoro sulla recitazione, l’aspetto più faticoso e penoso di ogni progetto. Devo innanzitutto far esaurire la carica di eccitazione degli attori, e poi lavorare sulla loro stanchezza; ed è a questo punto che stabiliscono un contatto con il loro personaggio. Però l’amicizia dev’essere molto forte, dato che nelle mie storie si toccano talvolta corde delicate, profonde, e non ho a che fare con attori professionisti in grado di gestire le emozioni. In alcune occasioni ci sono state infatti, da parte di qualcuno, reazioni anche spiacevoli, dovute a problemi personali di cui ignoravo persino l’esistenza. Posso anche scoprire – con una certa delusione – in un amico molto orgoglio, e quindi resistenza di fronte a una figura “autoritaria” che gli dice cosa fare e come. Comunque, nel bene o nel male, accettano la sfida, e io ho imparato con gli anni la disciplina della calma e della pazienza.
Quale rilievo ha il senso della corporeità nei tuoi video? Il cyborg come superamento del dualismo organico meccanico?
Il cyborg, secondo me, non supera questo dualismo se non con la trascendenza. Il cyborg è un io diviso, una creatura in preda a sofferenza psicologica e fisica, derivante dal suo essere appunto un ibrido. È impossibile, per chi sia stato un uomo, trovarsi a portare protesi meccaniche, avvertire ronzii dal proprio corpo, avere parti di sé indipendenti, magari controllate da un secondo cervello, bionico. Ciò porterebbe alla pazzia chiunque: una pazzia superomistica, da semidio, che è poi quella che ho rappresentato in alcuni cyborg di Koburn. Questi esseri sono spaventosi, imprevedibili, succubi di una tecnologia degenerante anche sul piano cerebrale. Comunque può esistere una redenzione, come nel personaggio del “predicatore” che in Koburn accetta e affronta il dolore solo attraverso la fede in Dio. Bisogna accettare e affrontare il proprio metallo come una malattia o una deformità per le quali provare pena e amore.
Se dovessi montare sull’astronave diretta ad Aquaend, quali dieci migliori film porteresti con te?
Bene, allora procederò con una mia personale top ten, lasciando fuori inevitabilmente e dolorosamente almeno cinquanta film pari merito:
1) 2001: Odissea nello Spazio (1968);
2) Solaris (1972);
3) L’Uomo che fuggì dal Futuro (1971);
4) Alien (1979);
5) La Fuga di Logan (1976);
6) Il Pianeta delle Scimmie (1968);
7) Il Mondo dei Robot (1973);
8) 1997: Fuga da New York (1981);
9) Blade Runner (1982);
10) La Cosa (1982).
Quale è il valore dell’elemento acquatico nei tuoi corti (come mutazione in polpo e sequenze in spiaggia, come assenza, come credo inconscio)?
Amo moltissimo l’acqua. Mi piace stare sott’acqua, galleggiare nell’infinito silenzio verde, con la luce del sole che penetra dall’alto. Mi dà molta pace. Un ritorno al ventre materno? No, forse più una sensazione di contatto con l’universo. Emergere poi, e vedere solo acqua, immaginare un deserto d’acqua è la visione che mi ha portato ad Aquaend. In ogni caso mi accorgo che nei miei lavori l’acqua è quasi sempre presente, in un modo o nell’altro. L’acqua è per me il simbolo della vita.
Quali sono le location dei tuoi corti?
Ho girato quasi tutti i miei corti a Rimini, dove abito: è una città che conosco bene e che contiene tutte le altre città; multiforme. Nel caso di Koburn ho trovato paesaggi incredibili tra S. Leo e Urbino, a un’oretta di auto: vere e proprie zone desertiche con tanto di scorpioni e resti della Seconda Guerra Mondiale. Per The Crossing Man, una storia di viaggi nel tempo a cui sto lavorando, ho girato alcune sequenze in costume a Mondaino, un piccolo borgo medievale sempre a pochi chilometri da Rimini. In linea di massima, tutto ciò che mi occorre è a portata di mano.
Stando alla tua personale esperienza, trovi che la Fantascienza e il Fantastico, in Italia, siano troppo poveri o troppo underground?
Trovo che, semplicemente… non siano! Fantascienza e Fantastico in Italia hanno avuto grande diffusione negli anni Settanta e Ottanta, non solo in campo cinematografico ma anche televisivo, con risultati stupendi. Poi è finito tutto. Ci sono film – che scommetto nessuno ricorda – di una raffinatezza assoluta, come L’Invenzione di Morel o La Decima Vittima per citarne solo un paio. Ci siamo dati da fare parecchio nel campo del Fantastico, per poi far morire i generi negli anni Novanta. Il perché di questa eutanasia è per me un mistero: il mercato c’è (ora più che mai), l’industria cinematografica italiana è attrezzatissima (anche se i teatri di posa sono occupati dai telefilm o i telequiz), ma nessuno in Italia gira più un film di Fantascienza o dell’Orrore! L’unico grande di sempre è PUPI AVATI, a cui va il mio massimo rispetto: rendiamoci conto che quest’uomo continua la tradizione dei generi in Italia con una padronanza assoluta del mezzo cinematografico e anche televisivo, con una energia e ispirazione che gli invidio. Amo paragonarlo a un altro mitico artigiano americano, ROGER CORMAN, in grado di realizzare film con grande creatività, velocità e intuito, coltivando in proprio una grande famiglia di artisti. Ma gente così è più unica che rara, e difficilmente lascerà eredità.
Come va la distribuzione e la diffusione dei corti in Italia?
Oggi molto bene, grazie alla tecnologia. Possiamo duplicare e spedire un corto a un Festival in tempi brevissimi, grazie al DVD. In un futuro molto prossimo, credo che il capiente server di un ipotetico festival “bypasserà” addirittura supporti e spedizioni postali, e invieremo il nostro lavoro direttamente in streaming. Il corto è una potente alternativa al cinema, poiché garantisce a tutti la possibilità di esprimersi con creatività ed entusiasmo, svicolati da regole produttive e interessi commerciali (e di conseguenza, molto spesso, con risultati assai superiori a un film regolare); in più, Internet rappresenta il terreno ideale per la loro diffusione, più di qualsiasi altro mezzo, basti pensare per esempio al boom di YouTube.
Ringraziamo Luigi per averci concesso questa intervista, e per la sua attività in favore della cultura e della diffusione del cinema di genere, che promuove attraverso cortometraggi girati con cuore e tecnologia.