Anteprima testo
Avanti nel Tempo (Flashforward, 1999) Robert J. Sawyer
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Primo giorno: martedì 21 aprile 2009
Una frattura nello spaziotempo…
Il centro di controllo del Grande collisore per Adroni (Large Hadron Collider, LHC) del CERN era nuovo: era stato autorizzato nel 2004 e completato nel 2006. Comprendeva un cortile centrale, inevitabilmente chiamato ‘il nucleo’. Ogni ufficio aveva una finestra che si affacciava o verso il nucleo o verso l’esterno, sul vasto campus del CERN. Il quadrilatero che circondava il nucleo aveva due piani, ma gli ascensori principali facevano quattro fermate: una a ciascuno dei due piani, una al piano terra, in cui si trovavano le caldaie e i magazzini, e la quarta al livello meno novantanove metri, da dove si raggiungeva una delle stazioni della monorotaia utilizzata per percorrere la galleria circolare di ventisette chilometri del collisore.
La galleria stessa correva sotto terreni agricoli, alla periferia dell’aeroporto di Ginevra, e ai piedi delle montagne del Giura.
La parete meridionale del corridoio principale del centro di controllo era divisa in diciannove lunghe sezioni, ciascuna delle quali era stata decorata con un mosaico realizzato da un artista di uno dei paesi membri del CERN. Quello greco rappresentava Democrito e l’origine della teoria atomica; quello tedesco illustrava la vita di Einstein; quello danese, la vita di Niels Bohr. Non tutti i mosaici, tuttavia, avevano la fisica come tema: quello francese riproduceva il profilo di Parigi, mentre quello italiano mostrava una vigna, con migliaia di ametiste levigate che rappresentavano i singoli grappoli.
La sala di controllo vera e propria del Grande collisore per Adroni era un quadrato perfetto con ampie porte scorrevoli posizionate nel centro esatto di ciascun lato. Era alta due piani, e la metà superiore aveva le pareti in vetro, in modo che i gruppi di visitatori potessero osservare l’attività dei tecnici; il CERN organizzava delle visite guidate per il pubblico della durata di tre ore nei giorni di lunedì e sabato, alle 9 e alle 14.
Piú in basso, al di sopra delle finestre, appese contro le pareti erano disposte le bandiere dei diciannove stati membri, cinque per parete; il ventesimo riquadro era occupato dalla bandiera blu e oro dell’Unione europea.
La sala di controllo conteneva decine di consolle. Una era destinata alla gestione degli iniettori delle particelle e controllava l’inizio degli esperimenti. Quella accanto aveva la superficie angolata e dieci monitor incassati che mostravano i risultati trasmessi dai rivelatori ALICE e CMS, gli enormi sistemi sotterranei che avrebbero registrato e tentato di identificare le particelle prodotte dagli esperimenti dell’LHC. I monitor su una terza consolle mostravano sezioni della galleria sotterranea del collisore che curvava dolcemente, e la putrella della monorotaia appesa al soffitto.
Lloyd Simcoe, un ricercatore canadese, era seduto alla consolle degli iniettori. Aveva quarantacinque anni, era alto e sbarbato di fresco. Aveva gli occhi azzurri e i capelli tagliati alla militare di un colore marrone così scuro da poterli tranquillamente definire neri… a parte sulle tempie, che erano almeno per metà già ingrigite.
I fisici che studiavano le particelle non erano famosi per la loro eleganza nel vestire, e fino a poco tempo prima Lloyd non aveva fatto eccezione. Ma qualche mese prima aveva deciso di donare il suo intero guardaroba alla sede ginevrina dell’Esercito della salvezza, e di lasciare che la sua fidanzata scegliesse per lui dei capi completamente nuovi. Per dire la verità quegli abiti erano un po’ troppo vistosi per i suoi gusti, ma doveva riconoscere di non avere mai avuto un aspetto così distinto. Oggi indossava una camicia beige, una giacca color corallo, pantaloni marroni con sacche esterne al posto delle tasche e, in ossequio a una moda piú tradizionale, un paio di scarpe nere italiane di pelle. Lloyd aveva anche fatto propri un paio di status symbol universali che, guarda caso, appartenevano alla tradizione locale: una penna stilografica Mont Blanc, che teneva infilata nel taschino della giacca, e un buon orologio svizzero analogico.
Seduta alla sua destra, davanti alla consolle dei rivelatori, vi era la responsabile in carne e ossa della trasformazione, la sua fidanzata, l’ingegner Michiko Komura. Dieci anni piú giovane di Lloyd, Michiko aveva un nasino piccolo all’insù, e capelli neri e lucidi pettinati alla paggetto, secondo la moda del momento.
Alle sue spalle sedeva Theo Procopides, il ricercatore collega di Lloyd. Aveva ventisette anni, diciotto meno di Lloyd e non erano mancati i buontemponi che avevano paragonato il tradizionale, maturo Lloyd e il suo impetuoso collega greco alla coppia di genetisti Crick e Watson. Theo aveva i capelli ricci, neri e folti, gli occhi grigi e la mandibola prominente. Indossava quasi sempre dei jeans di cotone rosso – a Lloyd non piacevano, ma ormai nessuno sotto i trent’anni portava piú i bluejeans – e una delle sue tante magliette con personaggi dei cartoni animati di tutto il mondo; oggi esibiva quella con il venerabile Titti il canarino. Alle rimanenti consolle erano sistemati una dozzina di altri scienziati e ingegneri.
Risalendo lungo il cubo…
A parte il regolare mormorio dell’aria condizionata e il debole ronzio delle ventole di raffreddamento, la sala di controllo era assolutamente silenziosa. Tutti erano tesi e nervosi, dopo una lunga giornata trascorsa a mettere a punto l’esperimento.
Lloyd si guardò intorno, poi respirò a fondo. Il suo polso era accelerato, e nel suo stomaco sembrava ci fosse un turbinio di farfalle.
L’orologio alla parete era analogico, come quello sulla sua consolle digitale. Entrambi si stavano rapidamente avvicinando alle 17:00… quelle che per Lloyd, anche dopo due anni che si trovava in Europa, erano ancora le cinque del pomeriggio.
Lloyd era il direttore di un gruppo di lavoro di quasi mille fisici che usavano il rivelatore ALICE (A Large Ion Collider Experiment). Lui e Theo avevano trascorso due anni a progettare la collisione delle particelle prevista per oggi… due anni per svolgere un lavoro che avrebbe potuto richiedere due vite intere. Stavano tentando di ricreare livelli di energia che non erano esistiti fino a un nanosecondo prima del Big Bang, quando la temperatura dell’universo era di dieci milioni di miliardi di gradi. Nel procedimento speravano di scoprire il santo Graal della fisica della massima energia, il bosone di Higgs così tanto ricercato, la particella le cui interazioni fornivano massa ad altre particelle. Se il loro esperimento avesse funzionato, avrebbero finalmente avuto il bosone, e il premio Nobel, che con ogni probabilità sarebbe stato assegnato a chi lo avesse scoperto.
L’intero esperimento era automatizzato e calcolato al secondo. Non c’erano interruttori da abbassare, né levette nascoste sotto coperchi a molla da premere. Sì, Lloyd aveva progettato e Theo aveva codificato i moduli basilari del programma per questo esperimento, ma adesso era tutto sotto il controllo di un computer.
Quando l’orologio digitale raggiunse le 16:59:55 Lloyd cominciò il conto alla rovescia a voce alta insieme a esso.
«Cinque.»
Guardò Michiko.
«Quattro.»
Lei lo ricambiò con un sorriso di incoraggiamento. Dio, quanto l’amava…
Tit. originale: Flashforward
Anno: 1999
Autore: Robert J. Sawyer
Edizione: Fanucci (anno 2000), collana “Solaria” #6
Traduttore: Maurizio Nati
Pagine: 346
ISBN: 8834707613
ISBN-13: 9788834707616
Dalla copertina | Un esperimento scientifico induce un temporaneo spostamento della percezione collettiva. Improvvisamente tutti gli abitanti della Terra vanno avanti nel tempo di ventun anni, e possono così vedere alcuni minuti del loro futuro mentre i loro corpi rimangono in stato d’incoscienza. Quando il mondo si risveglia c’è chi ha osservato eventi devastanti o deprimenti, chi ha visto realizzare i suoi sogni e desideri, chi non ha trovato assolutamente nulla.