Avvertite il Mondo!
Anteprima testo
Avvertite il Mondo! (Give Warning to the World, 1984), di John Brunner
PRESENTAZIONE
Autore completo e multiforme, John Brunner è ormai notissimo ai nostri lettori sia per le sue opere impegnate e letterariamente più valide e mature come Il telepatico, Il gregge alza la testa, Tutti a Zanzibar, Codice 4gh, che per le sue avvincenti saghe avventurose, tra cui citiamo a caso Conquista del caos, Eclissi totale, Impero interstellare.
La gamma dei generi e delle tematiche toccate da Brunner nell’arco della sua carriera è infatti vastissima: si può dire che non c’è argomento che egli non abbia trattato, dalla pura avventura spaziale alla estrapolazione di tipo sociale, al romanzo psicologico, alla fantasy pura, all’opera di tipo sperimentale (ricordate Il gioco dell’inferno?).
Questo Avvertite il mondo! (Give Warning to the World), uscito in America nel 1974 e basato su una precedente versione del 1959 (Echo in the Skull) totalmente rivista e ampliata, riprende un po’ il classico soggetto dell’invasione, soggetto che Robert Heinlein aveva reso celebre con il suo The Puppet Masters.
La versione che Brunner dà di questo tema fantascientifico è però abbastanza nuova e originale: il romanzo è ambientato nella moderna Londra dei giorni nostri e Brunner è molto bravo a inserire nel comune ambiente mondano certi tocchi di alienità, perché in un certo senso questo romanzo è anche un po’ una storia d’orrore fantascientifico, ed è ben noto che gli elementi orrorifici risaltano molto di più quando vengono messi a confronto con l’ordinarietà del loro contesto.
Purtroppo non possiamo dire di più per non rovinare il gusto della lettura e la suspence della vicenda: basti dire che si tratta di un’opera da leggere tutta d’un fiato, simpatica, gradevole, avvincente.
Sandro Pergameno
CAPITOLO PRIMO
Il ronzio del traffico punteggiato di tanto in tanto dallo squillo impaziente dei clacson. La luce del sole che scendeva obliqua fra le tende mal tirate. Rannicchiata in posizione fetale sotto l’unico lenzuolo — la sola cosa che riusciva a sopportare sopra di lei in quel clima rovente — Sally Ercott si svegliò, passando da un terrore all’altro.
La gola le doleva come se avesse urlato nel sonno. Ma se l’aveva fatto, le sue urla dovevano essere state silenziose. Nessuno era accorso a vedere cosa le stava succedendo…
Come i morenti rintocchi d’una campana, nella sua mente risuonava l’eco d’un incubo talmente spaventoso che, nel rendersi conto di trovarsi ancora là, ancora in quella casa orribilmente squallida, non riuscì a impedirsi di scoppiare in lacrime. La federa del guanciale, come le lenzuola, era impregnata d’untume al punto che, anche sottoponendo al lavaggio più energico quel vecchio tessuto, sarebbe stato impossibile pulirlo del tutto, quasi che lo strato di sudiciume appena percettibile, quello stesso che rendeva ripugnante al solo sfiorarla la carta da parati a fiorami della sua tetra stanza, fosse diventato parte integrante della fibra, rendendola appiccicosa come cuoio umido.
Ciò malgrado affondò nel cuscino il volto scosso dai singhiozzi.
Accadeva sempre quando si svegliava. Invece di sfuggire all’agghiacciante trappola dei suoi sogni in un modo sano e normale, si trasferiva in un’altra prigione, infinitamente più spaventosa. Qualcosa di abominevole, d’indicibilmente schifoso incombeva sulla sua consapevolezza. Era come se la crudeltà più pura potesse venir distillata in una nube orrenda e tenebrosa. La perseguitava mantenendosi ai margini della sua visione, pronta a balzar via ogni qualvolta cercava di affrontarla in modo diretto, ma senza mai scomparire del tutto.
Alla fine riuscì a dominare il suo tormento. La sua reazione successiva, automatica, fu di guardarsi il polso sinistro. L’orologio non c’era, naturalmente. Era al banco dei pegni della Praed Street… era lì dall’ultima volta che era riuscita a lasciare la casa. Quanto tempo fa? Più di una settimana.
Ma a giudicare dal rumore del traffico, e dal raggio di sole che entrava dalla finestra, che non riusciva mai a penetrarvi fino a mattino molto inoltrato poiché dirimpetto, in diagonale, s’innalzava un grosso blocco di appartamenti, doveva essere quasi mezzogiorno. Rabbrividì, e tutto il suo corpo magro fu colto da uno spasimo convulso di nausea.
Oh, Cristo, cos’ho mai fatto per meritarmi questo inferno in terra?
Ancora per un po’ giacque distesa sul letto, incapace di muoversi. Poi, sopra di lei, uno sferragliante baccano le annunciò la partenza della signora Ramsey per il viaggio del sabato dall’attico fino alla strada col suo secchio traboccante di spazzatura. La signora Ramsey era vecchia e artritica, e le ci voleva sempre un’eternità per completare il percorso anche quando non rovesciava fuori una buona metà del suo carico, costretta perciò a fermarsi per raccattarlo.
Non avrebbe resistito ad aspettare la fine di quell’intollerabile sequenza di tonfi, fino allo schianto trionfante del coperchio del bidone laggiù in strada. Rabbiosa, odiando se stessa senza saper perché, Sally Ercott si girò sul fianco e mise i piedi sul pavimento.
Il telefono accanto al letto di Nick Jenkins esplose in uno squillo acuto. Girandosi su se stesso, allungando d’istinto una mano per afferrare gli occhiali e infilarseli sopra il naso, agguantò il ricevitore con l’altra.
— Sì?
— Vecchio dormiglione — rombò una voce familiare. — Non dirmi che ti ho svegliato!
Nick si stiracchiò in tutta la sua lunghezza, che era notevole. Era un giovane alto e magro, i capelli castani scarmigliati, un volto sottile dal mento aguzzo. La miopia che l’affliggeva da sempre gli dava una cert’aria svagata, che svaniva non appena inforcava gli occhiali. Allora, sembrava ciò che era: saggio e pieno di talento.
— Oh, sei tu, Tom — borbottò. — No, non mi sono scordato il nostro appuntamento per il pranzo, oggi, se è per questo che mi telefoni. — Si sollevò su un gomito e diede un’occhiata alla sveglia. — E per di più, non sono in ritardo. Abbiamo detto all’una, no? E adesso manca un quarto a mezzogiorno.
— Sapendo come sei, al sabato — replicò, caustico, Tom Gospell, — ho pensato che avrei fatto meglio a cautelarmi che avessi tempo in abbondanza. Soprattutto con la prospettiva che la tua vecchia carriola possa bloccarsi per strada se qualcuno le tira un’occhiataccia.
— Non è una vecchia carriola! È una XK120 classica, ed è una delle migliori macchine sportive che siano mai state costruite!
— Uhmmm… stavi dormendo della grossa, vero? Non c’è bisogno d’esser ringhioso, sai? D’accordo, ci vediamo all’una in punto. E dal momento che è una splendida giornata, se non hai niente in programma per dopo, ti darò la possibilità di convincermi che hai ragione a proposito della Jaguar. Portami da qualche parte dove possiamo goderci il sole. E una giornata di sogno, e non devo incontrare Gemma fino alle sei.
— Affare fatto — concluse Nick, soffocando uno sbadiglio.
L’ispettore capo Bill Dougherty girò la chiave che aveva ritirato quella stessa mattina a Scotland Yard ed entrò in uno degli appartamenti all’undicesimo piano dell’alto isolato che dava sulla Mamble Row. Lungo il corridoio che si dipartiva dagli ascensori, due o tre dei residenti gli avevano riservato occhiate arcigne, cariche di sospetto. Forse, la storia elaborata come copertura non avrebbe retto ancora a lungo.
Il che farà piacere al consiglio municipale, è ovvio. Signore, tutte le chiacchiere che abbiamo dovuto snocciolargli per convincerli a lasciar vuoto questo posto, con quattrocento famiglie in lista di attesa per un nuovo alloggio! E pensavamo di andarcene entro tre settimane, se non… avevamo creduto che questo appartamento fosse un dono del cielo. Adesso mi sembra diventato una pietra al collo!
Le stanze erano spoglie, echeggianti, desolate, senza mobili o tappeti, anche se, com’era naturale, c’erano tende alle finestre. Lì, nel soggiorno, rimanevano tirate, in pratica, tutta la giornata. Ma presto o tardi ciò avrebbe attirato l’attenzione di qualcuno.
Purché questo non capiti tanto presto da mandare a monte l’operazione.
Un giovane agente in borghese era di guardia alla finestra del soggiorno. Seduto su una sedia pieghevole di plastica, stava guardando attraverso un binocolo ad alta risoluzione sorretto da un treppiede. Alla sua sinistra, su un tavolino parimenti pieghevole, erano appoggiati un telefono e un registratore. Su un altro treppiede, alla sua destra, era montata una macchina fotografica col teleobbiettivo puntato in permanenza sul numero 5 della Mamble Row. Non c’era nient’altro nella stanza, salvo i resti d’uno spuntino che aveva sostituito la prima colazione, un bicchiere di cartone vuoto e un piatto a gettare con la crosta d’un panino.
E un mucchio di polvere.
— ‘giorno, Hedger — fece Dougherty, chiudendo la porta.
L’agente trasali. — ‘giorno, signore! — esclamò. — Non l’ho sentita arrivare. Se posso permettermi… lei ha un passo diabolicamente leggero per… uh…
— Per un uomo così grasso?
Hedger si mostrò corrucciato. — Stavo per dire pesante, signore.
— E va bene — sospirò Dougherty. — Anche se è all’incirca la stessa cosa. Spesso mi stupisco di non far sobbalzare interi edifici… Niente d’interessante, a quanto mi par di capire?
— No, questo turno è stato davvero monotono. Ha sentito che il dottor Argyle è stato di nuovo su, ieri sera… si? Ho scattato una fotografia della sua auto, anche se non sono sicuro che la luce fosse sufficiente a far risaltare il numero della sua targa. E naturalmente ho…