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CAPITOLO I
Il posto era bianco, e c’era qualcosa di altero, un distacco quasi puritano, in quel candore, come se la città si fosse isolata a tali altezze, con i suoi pensieri, da rendere insignificante al confronto l’affaccendarsi strisciante della marea della vita.
Eppure, mi dissi, gli alberi torreggiavano su tutto. Lo sapevo… erano stati gli alberi, all’inizio, quando l’astronave aveva cominciato la sua discesa verso il campo di atterraggio, seguendo il raggio-guida che avevamo captato quando ci eravamo trovati nelle profondità dello spazio siderale, erano stati gli alberi a darmi l’idea che il luogo del nostro atterraggio sarebbe stato un villaggio. Forse uno di quei villaggi antichi, simile a quel vecchio villaggio bianco del New England che avevo visto sulle Terra… a questo punto si era spinta la mia fantasia. Avevo ricordato il villaggio, tutto racchiuso nel nido della valle, attraversato da un torrente argentino e circondato dalle pendici delle colline ricoperte dal gran fiammeggiare degli aceri colorati d’autunno. Osservando gli alberi dall’alto mi ero sentito pieno di gioia, e anche di sorpresa, all’idea di trovare un luogo simile, un luogo quieto e pacifico, perché senza alcun dubbio le creature capaci di costruire un simile villaggio sarebbero state creature gentili e pacifiche, con l’animo sgombero da tutte le bizzarre idee e dalle usanze ancor più strane che era così facile scoprire su di un pianeta alieno.
Ma questo non era un villaggio. Addirittura, era impossibile pensare a qualcosa di più dissimile, di più lontano dall’idea stessa di villaggio. Erano stati gli alberi torreggianti sul suo candore che avevano suggerito alla mia mente il concetto amico di villaggio. Ma chi avrebbe mai potuto attendersi di trovare degli alberi così alti da torreggiare sopra una città, una città che si levava così alta da costringere lo spettatore a piegare il collo, per riuscire a scorgere le sue torri più audaci?
La città si levava nell’aria come una maestosa catena di montagne, grandi vette che spuntavano come immensi fiori dalla pianura, senza l’appoggio di colline o di pendii digradanti; grandi montagne diritte che sorgevano da una grande pianura levigata. La città abbracciava come un recinto il campo di atterraggio, con la sua struttura massiccia, come l’ovale di altissime tribune intorno a un campo di gioco. Dallo spazio, la città era sembrata di un candore abbagliante, ma ora non abbagliava più. Era bianca, tutta bianca, ma di un bianco dolce e vellutato, che suggeriva vagamente l’idea dello splendore quieto di preziose porcellane su di un tavolo illuminato da una candela.
La città era bianca e il campo d’atterraggio era bianco e il cielo era di un celeste così pallido da apparire bianco anch’esso. Tutto era bianco, tranne gli alberi che si sollevavano più alti di una città fatta di impervie montagne.
Il mio collo era stanco, costretto a restare piegato per guardare lassù, per guardare la città e gli alberi, e allora, quando abbassai lo sguardo e diedi un’occhiata al campo, vidi, per la prima volta, che sulla superficie si trovavano delle altre astronavi. Molte, moltissime astronavi, notai con un improvviso brivido di sorpresa… un numero di astronavi assai maggiore di quello che ci si poteva attendere di trovare perfino negli astroporti più vasti e industriosi delle regioni umane della galassia. Astronavi di tutte le forme e dimensioni, e tutte, tutte erano bianche. Era quello il motivo che mi aveva impedito di scorgerle prima. Il loro colore bianco era un perfetto apparato mimetico, che le faceva scomparire e confondere nel generale biancore del campo di atterraggio.
Tutto bianco, pensai. Quel maledetto pianeta era interamente bianco. E non si trattava di un bianco normale, ma di un biancore particolare, con una sfumatura speciale… tutto immerso in quel chiarore di porcellana a lume di candela. Città, astronavi e campo d’atterraggio erano tutti di porcellana, come se un oscuro, industrioso scultore li avesse scolpiti, ricavandoli tutti da un unico, immenso blocco di pietra, per formare un’unica, titanica scultura.
Non c’era alcun segno di attività. Nulla si muoveva. Nessuno usciva ad accoglierci. La città sorgeva immobile, come morta.
Una folata di vento m’investì dal nulla, una solitaria folata di vento, che mi accarezzò il corpo e mi frusciò intorno. E vidi che non c’era polvere. Il vento non aveva neppure un granello di polvere da sollevare, e non c’era neppure un frammento di carta da portare via. Mossi più volte il piede sul materiale che formava la superficie dell’astroporto, e quel mio movimento non produsse alcuna traccia. Il materiale, qualunque fosse stata la sua natura, era privo di polvere, come se fosse stato spazzato e lucidato meno di un’ora prima.
Dietro di me udii il rumore di stivali che scendevano dai pioli della scaletta. Era Sara Foster, che aveva delle noie a causa del suo stupido fucile balistico che portava in spalla, legato a una cinghia. Il fucile ondeggiava a ogni suo movimento, e picchiava contro i pioli della scaletta, minacciando d’impigliarsi da un momento all’altro.
Allungai le braccia, e l’aiutai a scendere, e non appena lei ebbe raggiunto il suolo si voltò a guardare la città. Osservando i lineamenti classici del suo viso, e la ciocca di capelli rossi ricciuti, mi domandai ancora una volta in virtù di quale bizzarra magia una donna di tale bellezza fosse sfuggita a quella dolcezza di lineamenti che avrebbe reso debole e fragile la bellezza.
Lei sollevò una mano, ricacciando indietro la ciocca di capelli che le scendeva sugli occhi. Quella ciocca di capelli le era caduta sugli occhi dal primo momento in cui l’avevo conosciuta.
«Mi sento una formica,» disse «È lassù, semplicemente, immobile, e ci guarda. Voi non sentite lo sguardo di tutti quegli occhi?»
Scossi il capo. Non avvertivo lo sguardo di nessun occhio.
«Ora, da un momento all’altro,» continuò lei, «Solleverà un piede per schiacciarci.»
«Dove sono gli altri due?» chiesi.
«Tuck sta radunando la roba, é George sta ascoltando, con quell’espressione dolce e scema incollata sul viso. Dice che è arrivato a casa.»
«Per l’amor di Dio!» esclamai.
«A voi George non piace,» disse Sara.
«Questo serebbe niente; potrei ignorarlo. E tutto questo affare che mi disturba. Non ha senso.»
«Ma lui ci ha condotto qui,» disse lei.
«Giusto. E spero che almeno gli piaccia.»
Perché a me non piaceva affatto. C’era qualcosa di sgradevole nella vastità e nel candore e nel silenzio di quel paesaggio. C’era qualcosa di oscuramente minaccioso nel fatto che nessuno si mostrasse, per darci il benvenuto o per interrogarci. C’era qualcosa di sottilmente allarmante nel raggio direzionale che ci aveva condotti fino a quel campo di atterraggio, e nel fatto che, arrivati là, non avessimo trovato nessuno. E c’era qualcosa di sgradevole anche negli alberi. Nessun albero dell’universo aveva il diritto di essere alto e colossale come gli alberi che si sollevavano sopra la città.
Udimmo dei rumori. Fratello Tuck aveva cominciato a scendere la scaletta, e George Smith, che ansimava per il peso del carico, stava uscendo dal portello; Tuck guidava i piedi brancolanti del cieco, aiutandolo a trovare i pioli.
«Scivolerà, e si romperà il collo,» dissi, in un tono che indicava come, se anche fosse successo, non mi avrebbe importato molto.
«Se la cava benissimo,» disse Sara, «E Tuck lo aiuta.»
Affascinato, li osservai scendere dalla scaletta… il frate guidava i piedi del cieco, e lo aiutava a trovare i pioli, quando il cieco calcolava male le distanze.
Un cieco, mi dissi… un cieco e un falso frate, e una celebre cacciatrice che andava in cerca dell’oca dalle uova d’oro, dando la caccia a un uomo che probabilmente non era mai esistito, ma era solo una stupida leggenda.
Dovevo essere stato pazzo, nel momento in cui avevo accettato un lavoro simile.
I due uomini raggiunsero finalmente il suolo, e Tuck, prendendo il braccio del cieco, lo fece voltare, in modo che il suo viso fosse rivolto alla città. Vidi subito che Sara non si era sbagliata, parlando di quel sorriso idiota.
Il volto di Smith era l’immagine della beatitudine, e mostrava un’espressione che, su quel volto vuoto e molliccio, appariva quasi oscena.
Sara sfiorò delicatamente il braccio del cieco.
«Sei sicuro che il posto sia questo, George? Potresti sbagliarti.»
La beatitudine si trasformò in estasi, uno spettacolo da voltastomaco.
«Non c’è alcun errore,» balbettò lui, e la sua voce stridula era rauca per l’emozione. «Il mio amico è qui. Io lo sento, e lui mi fa vedere. Mi sembra quasi di poter tendere le mani e toccarlo.»
Fece un movimento con la mano grassoccia, come se avesse voluto toccare qualcosa, ma là non c’era niente da toccare… solo l’aria. Era tutto all’interno della sua mente.
Era pazzesco solo a pensarci… era pazzesco credere che un cieco che udiva delle voci… no, non ‘delle’ voci, ma solo una voce… potesse guidarci attraverso migliaia di anni luce, verso il confine della Via Lattea, e sopra di esso, in un territorio attraverso il quale nessuna creatura umana, e nessuna astronave umana erano mai passate, per quello che si sapeva, verso uno specifico pianeta. La storia del genere umano era stata piena di uomini che avevano udito delle voci, ma fino a quel momento erano state pochissime le persone che avevano prestato attenzione a questi individui.
«C’è una città,» stava dicendo Sara al cieco, «Una grande città bianca, e ci sono alberi più alti della città, alberi che si levano per miglia e miglia. È
questo che vedi?»
«No,» disse George, confuso da ciò che gli era stato detto. «No, non è questo che io vedo. Non c’è nessuna città, e non ci sono alberi.» Deglutì.
«Vedo,» disse. «Vedo…» Cercò di descrivere ciò che vedeva, e alla fine rinunciò. Agitò le mani, e il suo…
Tit. originale: Destiny Doll
Anno: 1971
Autore: Clifford D. Simak
Edizione: Libra Editrice (anno 1973) collana “Slan – Il Meglio della Fantacienza” #16
Traduttore: Ugo Malaguti
Pagine: 276
Dalla copertina | Sospeso ai confini dell’universo, senza nome, senza principio e senza fine, un pianeta bianco gravita intorno a una stella sconosciuta, nella fiammeggiante regione cosmica dei grandi ammassi globulari. E da questo mondo una leggenda, un mormorio, una speranza si diffondono in tutta la Via Lattea, alle frontiere dei nuovi mondi, nei luoghi dove i vecchi navigatori degli spazi, pieni di delusioni e di sogni, si riuniscono per narrare storie bizzarre, nate quasi tutte da lunghi anni di solitudine alla ricerca di pianeti abitabili per il genere umano. Ma la leggenda di Lawrence Arlen Knight, il vagabondo, l’esploratore degli spazi, che partì in un passato ormai lontano in compagnia di Roscoe, l’unico robot telepatico costruito dall’uomo, è qualcosa di più di un sogno; e un’eco giunge fino alla Terra lontana, mondo ormai abbandonato dagli uomini, popolato da pochi, ricchi privilegiati che accarezzano antiche ambizioni di nobiltà e si annoiano, fermi mentre l’intero universo si muove. E dalla Terra, un giorno, quattro esseri umani partono alla ricerca di questa leggenda: Mike, il cercatore di pianeti, bandito dallo spazio senza colpa, duro e ostinato, con una sola filosofia: sopravvivere; Sara, ricca e annoiata cacciatrice di mostri alieni, troppo orgogliosa per permettere che la sua fama anneghi nella noia; Fratello Tuck, un uomo che indossa una tonaca e calza vecchi sandali, e dichiara di cercare soltanto la verità; e George, il cieco, un uomo viscido e repellente di aspetto, ma con una voce nella mente, la voce di un amico che lo aspetta ai confini della galassia. E inizia così la più bizzarra, nuova, affascinante ricerca della storia della science fiction letteraria: una ricerca che si snoda attraverso paesaggi alieni, sensazioni aliene, bianche città abbandonate e altipiani azzurri e rarefatti, per giungere a quella verità, a quella realtà, che sfuggono sempre all’uomo, cacciatore inquieto sempre in cerca di nuovi orizzonti che esistono forse soltanto nei suoi sogni. La bambola del destino è molto più di un romanzo di altissimo valore: è poesia e filosofia e ricerca, l’opera più grande e matura di Clifford D. Simak.