Black Lagoon

Black Lagoon

Gli incantevoli mari del Sud non sembrano molto cambiati, rispetto ai tempi in cui venivano solcati dalle giunche dei pirati di salgariana memoria, anzi sono diventati peggiori: ora infatti i criminali e gli irregolari di ogni specie che incrociano su quelle rotte hanno a disposizione un arsenale ben più letale e spettacolare!

Tra le bande di mercenari che svolgono le più rocambolesche azioni di pirateria per conto di qualche cartello c’è il terzetto imbarcato sulla ‘Lagoon’, composto dalla giovane pistolera Revy, dal capitano e pilota Dutch e dall’esperto informatico Benny. Durante una delle loro missioni, i tre prendono in ostaggio un impiegato giapponese, Rokuro (subito ribattezzato Rock), destinato a diventare ben presto un membro attivo dell’equipaggio…

Pirati da videogame persi in un film d’azione

Tratta dall’omonimo manga di Rei Hiroe, Black Lagoon è una serie animata che si ricollega direttamente, a partire già dalla sigla, al celebre Cowboy Bebop: sigarette accese, colpi di pistola, primi piani dei protagonisti e titolo dello show che corrisponde al nome della nave… In 1 minuto e mezzo il riferimento viene dichiarato, e si manifestano al pubblico l’intento di spettacolarità e lo stile dell’opera, rivolto all’amalgama, alla citazione.

Nonostante i debiti verso l’illustre predecessore, tutti esposti in bella mostra, Black Lagoon non è comunque la stessa cosa, né una fedele trasposizione; se Cowboy Bebop attingeva largamente dal western, qui la fonte primaria è il genere d’azione, e, mentre Spike combatteva come un vecchio pistolero da saloon, ora Revy scorrazza sulle scene come una Lara Croft (di cui ricalca la cui figura,  con pochissime varianti) in preda a una crisi di nervi da sfogare sparando addosso a qualcuno.

Non che il vecchio West, o perlomeno l’America dei gangster, siano irriconoscibili o troppo nascosti dalla prorompente protagonista in shorts e top, ma l’impatto maggiore sullo spettatore è dato dagli elementi mutuati dai film di arti marziali e d’azione (i riferimenti e il continuo ricorso alla citazione, così come il gusto per la rappresentazione tendenzialmente cruda o splatter, possono ricordare per esempio il cinema di Tarantino), riportati sullo schermo con un ritmo e una spettacolarità da videogioco ‘sparatutto’.

Il vero distacco dallo ‘stile bebop’ non consiste però nella sostituzione di alcuni ingredienti, quanto piuttosto nel modo in cui sono combinati e nel risultato che se ne è voluto ottenere. Black Lagoon (e questo vale soprattutto per la prima parte della seria) non ha pretesa di proporsi come stile alternativo, vuole raccontare delle storie senza necessariamente integrarsi fino in fondo con i riferimenti usati per crearle, cosa che invece fa di Cowboy Bebop una serie del tutto peculiare e una pietra miliare. I personaggi, eccettuati pochissimi spunti nemmeno essenziali, non mostrano consapevolezza della finzione di cui sono attori: l’attenzione si focalizza sulle avventure affrontate più che sulla costruzione di scenari nuovi e indipendenti in cui rielaborare la selva di citazioni impiegate. Il modesto (e, da questo punto di vista, insufficiente) sviluppo a cui sono portati i protagonisti rende questa serie incapace di svincolarsi dal suo background; i personaggi rimangono essenzialmente i figuranti dell’ennesimo film d’azione, senza evolversi in interpreti di qualcosa di nuovo e diverso.

L’ambientazione di Black Lagoon non è fantascientifica e futuristica (il luogo del possibile, dell’immaginabile, modellabile con pochi vincoli), bensì contemporanea e resa con un certo grado di realismo: la perdita in termini di libertà d’espressione e inventiva viene allora recuperata sul terreno dell’azione pura e della spettacolarità. L’ostentata rinuncia a censurare la violenza e la continua messa in mostra di citazioni di provata efficacia, anche rivisitate in chiave ironica e messe in discussione, servono appunto a rafforzare questo aspetto.

Inoltre, solo 2 dei 12 dodici episodi sono autoconclusivi, gli altri si dividono in archi narrativi più lunghi che non producono, tra l’altro, alcun cambiamento di rilievo nella situazione iniziale dei quattro protagonisti: la narrazione è quindi meno frammentaria, incentrata sullo svolgimento delle sottotrame e sulle lunghe sequenze d’azione, non sul grado di sintesi delle singole puntate e sulla loro reciproca diversità. La serie è resa così piuttosto omogenea sia nello stile che nei contenuti, ma anche ripetitiva e inconcludente sul piano della narrazione, se considerata nel suo insieme.

Al di là di queste caratteristiche, Black Lagoon non è un semplice anime d’azione. Il suo scopo rimane l’intrattenimento puro, ma la fortunata scelta dei riferimenti e la spregiudicatezza dello stile lo rendono interessante sotto molti punti di vista.

Pur nelle deliberate somiglianze, e nelle diversità già accennate (l’ambientazione contemporanea, la narrazione più lineare, i personaggi passano in secondo piano, la chiave di lettura improntata più spesso al realismo che non alla genuina autoironia), con Cowboy Bebop, questa serie cerca di andare al di là delle sue premesse, tentando in modo convincente il vero salto di qualità, almeno negli ultimissimi episodi della seconda parte: l’azione non è più di facile fruizione e fine a se stessa, la psicologia dei personaggi riceve più spazio, i riferimenti sono usati e interpretati in modo molto più maturo. Gli ultimi 6 episodi si configurano quasi come una miniserie a parte, fortemente indipendente dal contesto e un gradino sopra di esso, con un’atmosfera generalmente più cupa e una regia che scandisce impeccabile le tappe della tragedia incombente.

L’azione è resa in modo adeguato dalle animazioni dello studio Madhouse, mentre, per quanto riguarda i disegni, sono soprattutto le colorazioni vivaci a distinguersi.

La regia ha senz’altro il merito di non annoiare mai, affidandosi nelle pause tra i vari combattimenti soprattutto alla descrizione del caotico e multiforme microcosmo di Roanapura; uniche pecche sono i meccanismi troppo ripetitivi e lo spazio relativamente scarso concesso allo sviluppo dei personaggi.

La colonna sonora alterna pezzi perlopiù elettronici e movimentati (come The Mad Council, Make a Bet) ad altri lenti e suggestivi (ad esempio Samara Samanda), per mettere in risalto sia la frenesia dell’azione che l’ambientazione orientale; risaltano la sigla iniziale Red Fraction, poi Teardrops to Earth, il cupo 66 Steps e il tema finale Don’t Look Behind.

Benvenuti a bordo

Il primo arco narrativo è forse il meglio riuscito, sia per l’introduzione di un ambiente suggestivo, che per il rapido e credibile sviluppo del coprotagonista, che per l’efficace sintesi degli ingredienti caratteristici della serie. Azione, sparatorie, guerre tra bande di gangster, mercenari e contrabbandieri, un po’ di ‘fanservice’ e di esistenzialismo: il tutto (spesso preso in prestito altrove) è mescolato con disinvoltura, ridisegnato per l’occasione e servito caldo in salsa rigorosamente irriverente e politicamente scorretta.

L’esordio di Rock sulla scena e la sua veloce maturazione nell’arco di due episodi è senz’altro un elemento interessante: un tipico colletto bianco di Tokyo, che vive subendo le vessazioni dei superiori a maggior gloria dell’azienda, viene usato a sua insaputa come pedina sacrificabile in un’operazione tutt’altro che pulita, ritrovandosi ostaggio a bordo della Lagoon e inseguito per terra e per mare da un’altra agguerrita banda di mercenari armati fino ai denti.

In un mondo totalmente alieno e a contatto con dei compagni di ventura inizialmente poco amichevoli, Rock compie la sorprendente scelta di sfruttare la situazione per mettere in atto la sua personale ribellione contro i superiori che lo hanno usato e tradito, contro il sistema di vita che lo ha finora reso depresso e incapace di immaginarsi un futuro. La sua situazione, anche dopo il rocambolesco imbarco, continua a mantenere una caratteristica costante (simboleggiata graficamente dal fatto che egli non smette mai di vestire in camicia bianca e cravatta): pirata era, e pirata rimane. Dipendente di un’azienda coinvolta in traffici illegali e risoluta nell’assoldare bande armate per cancellare le proprie tracce, oppure membro effettivo di una squadra di mercenari, questo è il tratto che accomuna il vecchio e il nuovo Rock, e che apre implicitamente una polemica contro il capitalismo moderno, la cui immagine riflessa è quella dei gangster e dei mafiosi disposti a tutto per i soldi e per il potere esattamente come i superiori del nostro ex-impiegato modello.

L’avidità e la violenza dei pirati dei mari del Sud che si danno convegno nella tentacolare Roanapura (una specie di moderna Tortuga asiatica) sono paragonabili a quelle che si celano nell’industriosa megalopoli da cui proviene Rock, ma vivono in tutta la loro sanguigna crudeltà alla luce del sole, libere dalla soffocante ipocrisia di una legalità apparente.

È così che il protagonista, eleggendo la Lagoon a sua nuova azienda e dimora (una nave è il microcosmo per eccellenza), decide di scrollarsi di dosso le menzogne del vecchio mondo e di affrontare da pari a pari i membri della sua nuova famiglia, ai quali presterà una collaborazione preziosa e fedele pur restando ancorato ai suoi principi morali. La sua integrazione nel nuovo ambiente e il suo definitivo arruolamento nell’equipaggio avvengono quando i compagni accettano di mettere in pratica una sua idea per abbattere un elicottero nemico.

I primi 2 episodi di Black Lagoon ne costituiscono in definitiva la parte più originale, non soltanto per la densità di contenuti (già tutti proposti in questa fase, e in seguito soltanto ampliati) e per lo sviluppo dei personaggi, ma anche per la maestria della regia nel fissare lo stile formale dell’intero anime con capacità di sintesi e forza espressiva. Bastano infatti i minuti finali del primo episodio a completare le fondamenta della costruzione: al bancone di un locale malfamato, Revy e Rock si sfidano a svuotare uno dopo l’altro bicchieri di superalcolico (il resto degli avventori fa da pubblico, rendendo implicitamente la scena una finzione nella finzione), finché non vengono attaccati da una banda di mercenari; a questo punto la nostra eroina estrae le sue pistole e conclude la sparatoria abbattendo praticamente da sola quasi tutti gli avversari. Non è difficile riconoscere il debito verso il genere spaghetti-western, che fa da riferimento anche per l’insensatezza, il cinismo e l’esagerazione dello scontro. La scena però, oltre a esaltare ed esasperare questi elementi giocando sui contrasti cromatici (la bevuta avviene alla luce, la sparatoria al buio), sposta progressivamente l’ambito della citazione verso il moderno film d’azione o addirittura il videogioco, nel momento in cui Revy comincia a muoversi con salti e capriole degni di una ginnasta provetta. Siamo all’inizio dell’opera, e l’atmosfera notturna non ha una valenza drammatica e crepuscolare, ma serve ad accordarsi al lucido delirio della protagonista, al suo lato oscuro che viene qui colto direttamente nel suo apparire senza veli, rimandando al seguito le parti riflessive per non spezzare il ritmo dell’azione.

Purtroppo, e questo può essere considerato un primo passo falso, la serie animata concederà pochi altri momenti di simili qualità e inventiva, limitandosi a ribadire il copione, e lo sviluppo dei personaggi non andrà molto più in là del livello qui raggiunto, o almeno non in modo convincente: ai personaggi di Dutch e Benny non verrà aggiunto nulla (d’altronde sono già perfettamente funzionali al loro ruolo), Rock progredirà in modo molto più lento e Revy lo farà soltanto nel finale, dato che il tempo a lei dedicato servirà piuttosto a svelare il suo passato.

Il secondo episodio conclude in modo spettacolare e irriverente la prima fase di scontri, con un duello un po’ inverosimile ma ricco di tensione tra la motonave e un elicottero, per poi rallentare sensibilmente e preparare il combattimento successivo tra il quartetto della Lagoon e una banda di pirati rivali.

L’azione del terzo episodio tiene un ritmo serrato, con Revy che sembra affrontare uno dopo l’altro i livelli di un videogame, in preda a una vera e propria furia distruttiva da cui riemerge soltanto alla fine del cruento spettacolo. In questo episodio l’ambientazione viene ampliata e rifinita, i personaggi vengono ribaditi nei loro ruoli e l’azione violenta viene consacrata a marchio della serie.

Navi fantasma

Le peggiori tare dell’anime si concentrano invece nel secondo arco narrativo, che racconta lo scontro tra la Lagoon e una banda di fanatici neonazisti, attorno al relitto di un U-Boot tedesco affondato nei mari del Sud sul finire dell’ultima guerra mondiale.

L’impostazione in sé non sarebbe priva di possibilità interessanti: alternanza tra scene d’azione e lunghe pause riflessive, scenari inquietanti e tombe sottomarine a fare da sfondo all’approfondimento del lato oscuro di Revy e ai dubbi di Rock, feroce critica del fanatismo e della sua tragica insensatezza.

La retrospettiva sulla storia del sottomarino affondato, per quanto credibile e suggestiva, prende forse troppo spazio, considerando che il suo unico contributo concreto è di rappresentare il dissidio tra i due ufficiali a bordo (in uno di loro il senso del dovere si coniuga con l’amore per la vita, mentre l’altro è totalmente assorbito dal valore assoluto che attribuisce alla sua missione).

Su questo sfondo vengono messi in mostra, in una lugubre scena, il cinismo e la totale mancanza di scrupoli di Revy. La sua devozione all’unica causa del denaro e la sua furia sanguinaria stritolano impietosamente le assurde illusioni dei nazisti da operetta contro cui si batte, ma sono anche antitetiche rispetto agli ideali e alle convinzioni umanitarie coltivati con serena coscienza.

Fin qui tutto bene, o quasi, non fosse per il fatto che in questo gruppo di episodi l’ambientazione realistica collassa stupidamente, incorrendo in una squallida sequenza di errori tanto incredibili quanto grossolani (e per di più facilmente evitabili). Non è un fatto da poco,  perché la verosimiglianza del contesto è il perno attorno a cui ruota la rappresentazione esplicita della violenza, oltre a costituire un ingrediente essenziale della serie.

Capita invece che Revy e Rock, per inseguire il nemico, risalgano in pochi istanti da un’immersione senza effettuare pause di decompressione; o respirino in un sottomarino i cui occupanti sono morti proprio per aver esaurito l’ossigeno; sottomarino che tra l’altro non si riempie d’acqua quando per accedervi viene fatta saltare una paratia stagna.

Con un pasticcio simile di mezzo, il lugubre monologo di Revy sulla futilità di tutto ciò che non sia il ‘reale’ denaro sonante può sembrare quantomeno ridicolo e fastidioso. E ancora più nauseante risulta la sua inutile follia omicida, che dopo una simile farsa perde qualsiasi connotato veramente tragico e drammatico per ridursi a un assurdo delirio isterico o, nella migliore delle ipotesi, a una scena d’azione sterile e fine a stessa. Stando alle intenzioni della sceneggiatura, il cieco furore della terribile assassina andrebbe ricercato nella sua infanzia realisticamente tragica, nei suoi sogni precocemente spezzati, nella spietata realtà del mondo crudele che infligge i suoi colpi per davvero anche se a volte non lo si vorrebbe credere. I risultati invece sono due: Revy assomiglia parecchio, nel suo fanatismo sanguinario, ai neonazisti che ammazza, e la sua pazzia viene dipinta su premesse così inverosimili da perdere essa stessa credibilità.

Per quel che riguarda lo sviluppo dei personaggi, ci rimane qualche moto introspettivo di Rock che viene assalito da legittimi dubbi riguardo alla sanità mentale della sua compagna; per il resto quest’arco narrativo è il vero e proprio punto debole della serie, minato alla base da una trama pretestuosa e fuori fuoco, da un’imbarazzante trafila di strafalcioni macroscopici e dal ‘balzo’ compiuto dalla protagonista, decisamente più lungo della gamba.

Segue un episodio di transizione, in cui la storia cambia bruscamente registro e tenta di far dimenticare il disastro che l’ha preceduta: la prima parte serve a variare l’ambientazione presentando le suore pistolere della ‘Chiesa della Violenza’; nella la seconda si conclude di fatto lo sviluppo dei protagonisti. Revy e Rock, che risolvono le loro incomprensioni in modo certamente inusuale. Lo scontro tra i due raggiunge un climax coerente con il profilo dei personaggi (una pistolera sulle soglie della pazzia e un anonimo che si sta ritagliando il suo posto nel mondo), per perdere poi intensità fino a diventare quasi un bisticcio tra innamorati: la scena finale (lui che accende la sigaretta di lei con la sua) è quanto di più simile a un bacio possa mostrare un anime come Black Lagoon senza snaturarsi.

Lara Croft contro Mary Poppins

Dopo il brutto passo falso, quindi, la serie barcolla ma non molla. Segue uno sviluppo dalla trama decisamente esile (il rapimento di un rampollo di nobile famiglia che va a monte per l’intervento della sua guardia del corpo), in realtà un pretesto per sciorinare sullo schermo una serie di luoghi comuni tanto scontati e grotteschi quanto spettacolari e di sicura presa.

Nonostante sia la parte meno realistica della serie, questo gruppo di episodi non scivola in situazioni totalmente assurde, dato che le scene d’azione, pur certamente sopra le righe, sono calate in un contesto allestito appositamente per essere dominato dallo spettacolo e dalla parodia. Quel che conta, insomma, è la coerenza della finzione scenica, che in questo caso viene mantenuta: i personaggi svolgono ruoli da macchiette, le sparatorie e gli inseguimenti sono quanto di più classico (ed esagerato) si possa trovare nel repertorio dei film d’azione, i riferimenti sono espliciti, ma tutto questo è mostrato con un grado di ironia che paga ampiamente lo spettatore. Il messaggio che questa sarabanda di citazioni e pallottole vuole trasmettere è reso evidente dalla disarmante semplicità dell’intreccio (spara, scappa, spara, insegui) e dalla consapevolezza della finzione: adesso è il turno dell’azione pura e dello spettacolo fine a se stesso.

L’atmosfera che si respira inizialmente in questo blocco di tre episodi, complici il personaggio di Roberta (doppiata in italiano con accento spagnolo) e un tema musicale studiato in tal senso (El Sol se recuesta, intreccio di chitarre acustiche dal sapore schiettamente latino) è ancora quella degli spaghetti western o di una parodia splatter del genere come C’era una volta in Messico; Dutch anzi cita esplicitamente Giuliano Gemma, mentre Roberta si finge debole davanti ai suoi arroganti avversari più o meno come Terence Hill prima delle sue memorabili risse. Anche in questo caso, però, il film d’azione emerge sullo schermo con tanto di inseguimenti in automobile e sequenze alla Terminator (con una combattente vestita da governante, mitra nella borsa e cannone nell’ombrello, giusto per fare il verso agli scontri in cui le armi spuntano fuori da ogni utensile concepibile), e una dose supplementare di pistolettate e cazzotti tra Roberta e Revy, per poi chiudere in bellezza con l’arrivo della mafia russa comandata dalla temibile Balalaika!

In sintesi, un bel condensato di parodia e azione che però non scade nel ridicolo grazie alla coesione dell’insieme e soprattutto alla mancanza di pretese diverse dal semplice intrattenimento. Solo la retrospettiva sul passato di Roberta e sul suo tentativo di redenzione, con i suoi toni realistici, drammatici e un po’ patetici, fatica a integrarsi nel tono generale dell’arco narrativo, ma la maggior parte del flashback avviene verso la fine, quando la tensione è ormai allentata.

Con questa penultima parte, un miscuglio agrodolce di azione spericolata in salsa latina, la serie animata si risolleva puntando tutto sullo spettacolo e su luoghi comuni di sicuro effetto, amalgamati con una buona dose di autoironia, congelando però lo sviluppo dei personaggi…

Dai mari del Sud con furore

…Sviluppo che sarà solo parzialmente ripreso negli ultimi due episodi, senza approdare di fatto ad alcuna soluzione. Stavolta quelli della Lagoon si trovano alle prese con un gruppo di terroristi mentre sono impegnati in una consegna clandestina per conto della locale cupola della mafia cinese. L’impostazione è costruita di nuovo sul binomio azione-citazioni, ma la chiave di lettura ironica degli episodi precedenti viene affiancata da un’interpretazione più seria, basata sul dissidio tra i due capi della cellula terroristica: uno religiosamente credente nella propria missione, l’altro cinicamente impegnato a svolgere il suo lavoro quotidiano di ‘nemico dello Stato’, con molto senso pratico e disincanto.

L’incontro con quest’ultimo personaggio dà lo spunto a Rock per un’altra riflessione sulla sua scelta di vita, segnata da due aspetti apparentemente contrastanti che però convivono tra loro: la sostanziale continuità della sua condizione di pirata (prima coperto dal buon nome dell’azienda, poi alla luce del sole) e i suoi principi morali (rimane sempre convinto che bisognerebbe evitare gli scontri sanguinosi); lui, gli rinfaccia il terrorista, non può essere un vero ‘nemico del sistema’, può solo rimanere in una zona grigia.

In quanto a Revy, fa in modo di andare a liberare Rock rimandando l’adempimento della missione e l’incasso della ricompensa; qui si fermano i cambiamenti interiori dei personaggi, senza nessun sostanziale passo avanti rispetto al punto in cui erano stati lasciati nel settimo episodio.

Per il resto, questo blocco finale è un film di cappa e spada in versione orientale, con le consuete sparatorie rinforzate dall’entrata in scena di altri due personaggi: da una parte abbiamo le due pistole e il sarcasmo di Chang, mafioso cinese, dall’altra le spettacolari evoluzioni e le lame affilate della bella taiwanese Shauna. O, per definirla con le sue stesse parole, ‘Taiwanese pura’: guardiamoci bene, insomma, dal confonderla con quegli scapestrati di Hong Kong (tra cui Revy) e le loro mosse da avanspettacolo! Meglio la spada o la pistola? I Pugnali Volanti o la Pulp Fiction? Chun-Li o Lara Croft?

E così, con un serio sorriso sulle labbra, Black Lagoon porta a conclusione l’ennesima finta e verosimile scorribanda del quartetto delle meraviglie: l’audace Revy, il diligente Rock, l’efficiente Benny e il pragmatico Dutch.