Brivido Crudele (Thorns | 1967) di Robert Silverberg

Brivido Crudele

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Brivido Crudele (Thorns | 1967) di Robert Silverberg

PRESENTAZIONE

Da alcuni anni, con il successo dei suoi ottimi volumi sull’archeologia e su altri soggetti scientifici, Robert Silverberg ha finalmente la possibilità (anche quella economica) di dedicare più tempo e più attenzioni alle sue opere di fantascienza, ed ecco il risultato di questo stato di cose: un romanzo ambizioso, meditato e impegnativo come Thorns. Un romanzo che, dopo aver chiuso l’ultima pagina, ci lascia in uno stato di turbamento. Forse quel che ci disturba è che per tutto il libro si ha l’impressione che l’autore scrivesse per ottenere un certo risultato e che poi, giunto alla fine, non sia riuscito a realizzarlo con tutta l’esattezza che desiderava; ma forse, più probabilmente, il romanzo ci turba perché Silverberg ci è riuscito davvero, forse era proprio quello lo scopo del romanzo.

Thorns è la storia del «non uomo» e della «ultra donna» — per usare le parole con cui il volume è stato presentato al pubblico americano — che, ad opera di un terzo personaggio che regge i fili delle loro azioni, sono spinti a divenire amanti. E Thorns è anche la storia di come riescono a sciogliersi dalle catene invisibili che li legano al loro burattinaio e a riottenere la propria identità. Minner Burris è un astronauta, e nel corso della sua ultima esplorazione nello spazio i superbiologi di una razza extraterrestre lo hanno trasformato in qualcosa che fisicamente non è più un uomo, e che forse non lo è più neppure mentalmente.

È una curiosità, un mostro, un fenomeno da baraccone. Lona Kelvin è una ragazza come mille altre; un’orfana che è servita a biologi umani come donatrice di uno stock di cellule uovo per un esperimento di sviluppo embrionale extrauterino. L’esperimento ha avuto successo: un centinaio di uova, fecondate artificialmente, si sono sviluppate in modo normale, e Lona si trova nella condizione di essere la madre di cento bambini che non ha mai visto.

Colui che tiene i fili, il burattinaio, è il sadico, l’enorme, il mostruoso Duncan Chalk: un grande industriale della pubblicità e del divertimento collettivo, un individuo che assorbe i sentimenti altrui, un telepatico che si nutre delle emozioni di uomini e di donne da lui stesso portati alla crisi. Chalk è il monarca medievale che tiene per diletto la scuderia personale di fenomeni umani, Chalk è il signorotto inglese del Settecento che, per darsi una scossa, visita il manicomio di Londra o scende per strada, a capo di una masnada di crudeli mascherati, a bastonare i passanti.

E Thorns è la storia del piano orchestrato da Chalk, prima per portarli ad amarsi, poi per farli precipitare nell’odio e nella disperazione… prima per allontanarli dalla solitudine e mostrare loro le bellezze del mondo, poi per convincerli di nuovo, come all’inizio, che in quel mondo non c’è posto per loro. È il libro più amaro che Silverberg abbia scritto (o che abbia finora pubblicato), e si colloca burattinaio e a riottenere la propria identità.

Minner Burris è un astronauta, e nel corso della sua ultima esplorazione nello spazio i superbiologi di una razza extraterrestre lo hanno trasformato in qualcosa che fisicamente non è più un uomo, e che forse non lo è più neppure mentalmente. È una curiosità, un mostro, un fenomeno da baraccone. Lona Kelvin è una ragazza come mille altre; un’orfana che è servita a biologi umani come donatrice di uno stock di cellule uovo per un esperimento di sviluppo embrionale extrauterino. L’esperimento ha avuto successo: un centinaio di uova, fecondate artificialmente, si sono sviluppate in modo normale, e Lona si trova nella condizione di essere la madre di cento bambini che non ha mai visto.

Colui che tiene i fili, il burattinaio, è il sadico, l’enorme, il mostruoso Duncan Chalk: un grande industriale della pubblicità e del divertimento collettivo, un individuo che assorbe i sentimenti altrui, un telepatico che si nutre delle emozioni di uomini e di donne da lui stesso portati alla crisi. Chalk è il monarca medievale che tiene per diletto la scuderia personale di fenomeni umani, Chalk è il signorotto inglese del Settecento che, per darsi una scossa, visita il manicomio di Londra o scende per strada, a capo di una masnada di crudeli mascherati, a bastonare i passanti.

E Thorns è la storia del piano orchestrato da Chalk, prima per portarli ad amarsi, poi per farli precipitare nell’odio e nella disperazione… prima per allontanarli dalla solitudine e mostrare loro le bellezze del mondo, poi per convincerli di nuovo, come all’inizio, che in quel mondo non c’è posto per loro. È il libro più amaro che Silverberg abbia scritto (o che abbia finora pubblicato), e si colloca esattamente agli antipodi del «romanzo di Silverberg» di qualche anno fa: quel tipo di storie avventurose e piene di immaginazione che tutti leggevano con sommo piacere ma che poi criticavano, ipocritamente, con la scusa della superficialità.

Oggi che Silverberg si è avviato per il cammino impervio della scienza seria e della fantascienza fatta con serietà, oggi che le maneggia entrambe con la destrezza e la facilità cui ci aveva abituati con le sue storie avventurose, facciamogli i nostri auguri, tifiamo per lui, e tratteniamo il fiato nell’attesa dei suoi prossimi record.

Schuyler Miller, 1968

Anteprima testo

Il canto dei neuroni

— La sofferenza è una grande maestra — ansimò Duncan Chalk.

Scalava la parete est del suo ufficio sui piuoli di cristallo, verso la scrivania brunita, lassù in alto, centrale incorporata di comunicazione, attraverso la quale governava il suo impero. Non ci voleva nulla, a un uomo come lui, per salire con l’asta di un gravitrone; tuttavia ogni mattina si infliggeva questa arrampicata.

Un codazzo assortito – Leontes d’Amore dalle mobili labbra scimmiesche, e Bart Aoudad, e lo spalluto Tom Nikolaides, e altri ancora – accompagnava Chalk, che una volta di più andava a scuola di sofferenza.

La sua carne s’increspava e ondeggiava, e nella grande mole la bianca puntellatura delle ossa chiedeva pietà. Ben duecentottanta chilogrammi di lardo avvolgevano Duncan Chalk. Il cuore immane e coriaceo pompava a tutt’andare per irrigare di vita le membra massicce. Chalk saliva. Su per dodici metri di parete, l’itinerario a zigzag portava al trono, in cima. Lungo il percorso, chiazze di fungosità luminescenti, simili ad aster gialli dalle punte rosse, emanavano pulsazioni radiose di calore.

Fuori, c’era l’inverno. Fili sottili di neve fresca vorticavano nelle strade. Il cielo plumbeo cominciava appena a percepire la ionizzazione riversata dai grandi piloni solari. E Chalk grugniva, Chalk saliva.

— Tra undici minuti, signore — disse Aoudad — l’idiota sarà qui. Darà spettacolo.

— Ora mi annoia — disse Chalk — ma vediamolo comunque.

— Perché non torturarlo — suggerì d’Amore, scivoloso, con voce vellutata. — Forse il suo talento brillerà meglio.

Chalk sputò e d’Amore arretrò come se gli arrivasse addosso un getto di acido. L’ascensione continuava. Le pallide mani carnose si protendevano ad afferrare le sbarre traslucide. I muscoli sotto gli strati lardosi si annodavano e tremavano. Chalk andava senza posa su per la parete.

Gli intimi segnali di sofferenza lo stordivano e lo estasiavano. Di solito preferiva sorbire la sua dose di dolore per interposta persona; ma era mattina, e quello era il suo quotidiano cimento. Su, su, verso il seggio del suo potere. Un piuolo dopo l’altro. Si arrampicava, col cuore che protestava, con le budella che sciaguattavano nella guaina carnosa, con i brividi nelle reni, con le ossa stesse che si flettevano sotto il peso.

Intorno a lui gli sciacalli erano in attesa. Qualora fosse caduto, ci sarebbero volute dieci persone per risollevarlo. E se, in una disperata fibrillazione, il cuore avesse ceduto? Se avessero visto farsi vitrei i suoi occhi?

Avrebbero esultato, mentre il suo potere svaniva?

Avrebbero gioito, se la sua mano fosse scivolata e la sua morsa ferrea sulle loro vite si fosse allentata?

Ma certo, ma sicuro! Un freddo sorriso curvò le labbra sottili di Chalk. (Perché non erano tumide? Aveva le labbra di un uomo magro, di un beduino combusto fino all’osso dal sole.)

Il sedicesimo piuolo era in vista. Chalk lo agguantò. Gli ribolliva sudore da tutti i pori. Rimase un attimo in bilico, spostando laboriosamente il suo peso dal metatarso del piede sinistro al calcagno del destro. C’era poco gusto e ancor meno piacere a essere il piede di Duncan Chalk. In quell’istante, sforzi di tensione quasi incalcolabili si esercitavano sulla caviglia destra di Chalk. Poi, con un gran gesto che falciò l’aria, egli si proiettò in avanti, abbattendo la mano sull’ultimo piuolo, e la vista felice del suo trono gli si aprì.

Abbandonandosi nella poltrona che lo aspettava, Chalk ne ricevette le cure, mani a micropila affondate nel tessuto che lo blandivano, rimestando e spremendo, aghi nascosti che slittavano attraverso l’epitelio, spandendo fluidi lenitivi. Cordoni impalpabili di cavo metallico spugnoso che gli si infilavano negli abiti, per assorbire il sudore dei rilievi e avvallamenti della sua carne. Il rombo del cuore affaticato si placava. I nodi dei muscoli contratti si scioglievano. Chalk sorrise. Il giorno era cominciato, tutto andava bene.

Leontes d’Amore disse: — La facilità con cui lei sale, signore, mi stupisce.

— Mi credi così grasso da non potermi muovere?

— Io, signore…

— Il fascino della difficoltà — disse Chalk. — Fa girare il mondo sui cardini.

— Faccio venire l’idiota — disse d’Amore.

— Il sapiente idiota — rettificò Chalk. — Gli idioti non mi interessano.

— Sì, certo, il sapiente idiota.

Attraverso uno spiraglio a diaframma della parete retrostante, d’Amore sgusciò via. Chalk si appoggiò allo schienale, incrociando le braccia sulla distesa uniforme del torace e della pancia. Spinse lo sguardo dall’altra parte del grande baratro costituito dalla stanza. Era alto e profondo, uno spazio aperto, vasto, nel quale vagavano lucciole. Chalk aveva la mania degli organismi fotogenetici. Luce, luce, luce! Avrebbe voluto diventare fotogenetico egli stesso, avendone il tempo!

Giù in basso, si incrociavano figure affaccendate, al lavoro per Chalk. Di là dalle pareti, altri uffici erano come celle d’alveare, nell’edificio ottagonale di cui quello era il nucleo centrale. Chalk aveva creato una organizzazione grandiosa. Si era scavato, in un universo indifferente, una apprezzabile nicchia, in quanto il mondo traeva ancora diletto dalla sofferenza. Ormai il piacere morboso di rimestare nei particolari macabri delle morti in massa, catastrofi aeree, e così via, apparteneva quasi al passato. Ma Chalk sapeva bene fornire surrogati ancora più diretti, energici e violenti. In quel momento medesimo, egli era al lavoro per procurare piacere a molti, dolore a qualcuno e, a se stesso, piacere e dolore insieme.

Il caso genetico l’aveva predisposto a questo compito come nessun altro, facendone un divoratore di emozioni, con la fame e la sensibilità della sofferenza: un uomo che si nutriva di pura angoscia come gli altri di pane e companatico. Esponente supremo dei gusti del suo pubblico, era fatto per appagarne i bisogni inconfessati. Il suo potenziale di assorbimento era un po’ calato, con gli anni; ma non si era saturato. Adesso, nei festini emotivi da lui stesso imbanditi spilluzzicava un bocconcino croccante qua, un sanguinaccio dei sensi là, tenendo in serbo l’appetito per le permutazioni più grottesche della crudeltà, sempre in cerca di sensazioni nuove e immemorabili.

— Non credo — disse, rivolto ad Aoudad — che quel sapiente idiota varrà molto. Continui a sorvegliare Burris, l’astronauta?

— Ogni giorno, signore. — Occhi grigi e inespressivi, e un aspetto che ispirava fiducia, accentuavano i modi incisivi di Aoudad. Aveva le orecchie quasi a punta. — Tengo Burris sotto osservazione.

— E tu, Nick? La ragazza?

— Monotona — disse Nikolaides. — Ma la sorveglio.

— Burris e la ragazza… — ruminò Chalk. — Somma di due rancori. Ci occorre una nuova iniziativa. Chissà… chissà…

Dalla parete di fronte riapparve d’Amore, slittando fuori su una mensola aggettante. Il sapiente idiota stava placido in piedi accanto a lui. Chalk, fingendo interesse, si sporse avanti. Le pieghe della sua pancia si moltiplicarono.

— Le presento David Melangio — disse d’Amore.

Melangio: quarant’anni, non una ruga sulla fronte alta, occhi ingenui da bambino. Umido e bianchiccio, come un verme di terra. D’Amore l’aveva vestito in ghingheri, con una tunica scintillante tempestata di pagliuzze di ferro; ma, su di lui, l’effetto era grottesco, la grazia e la dignità della costosa veste andavano sprecate, servivano solo a sottolineare l’innocenza puerile e insignificante di Melangio.

L’innocenza non era un articolo per il quale il pubblico sarebbe stato disposto a pagare, e il mestiere di Chalk consisteva invece nel vendergli quel che richiedeva. Ma, per il fabbisogno corrente, anche l’innocenza, condita con qualcos’altro, poteva forse servire.

Chalk diteggiò sulla manopola del computer, alla sua sinistra, e disse: — Buongiorno, David. Come ti senti, oggi?

— Iersera ha nevicato. La neve mi piace.

— Tra poco sarà sparita. Le macchine la sciolgono.

Voce vibrante di desiderio. — Come vorrei giocare nella neve!

— Prenderesti freddo — disse Chalk. — David, che giorno era il 15 febbraio 2002?

— Venerdì.

— Il 20 aprile 1968?

— Sabato.

— Come lo sai?

— Dev’essere così — rispose semplicemente Melangio.

— Il tredicesimo Presidente degli Stati Uniti?

— Fillmore.

— Che cosa fa il Presidente?

— Abita alla Casa Bianca.

— Sì, questo lo so — disse Chalk affabilmente — ma che compiti ha?

— Di abitare alla Casa Bianca. Qualche volta lo lasciano uscire.

— Che giorno della settimana era il 20 novembre 1891?

Risposta istantanea: — Venerdì.

— Nell’anno 1811, in che mesi il quinto giorno cadde di lunedì?

— Solo in agosto.

— Quand’è che il 29 febbraio cadrà nuovamente di sabato?

Melangio rise: — Questo è troppo facile. Il 29 febbraio viene solo ogni quattro anni e quindi…

— Va bene. Spiegami la faccenda dell’anno bisestile.

Silenzio.

— Non sai perché ciò accade, David?

D’Amore intervenne: — Può dirle qualsiasi data, signore, su un perìodo di…

Brivido crudele - Copertina

Tit. originale: Thorns

Anno: 1967

Autore: Robert Silverberg

Edizione: Editrice Nord (anno 1972), collana “Cosmo Argento” #15

Traduttore: Renato Prinzhofer

Pagine: 194

ISBN: 8842900249

ISBN-13: 9788842900245

Dalla copertina | Una giovane orfana diciassettenne, vergine, e madre di cento figli. Un astronauta che, su un lontano pianeta, è stato vivisezionato e rimesso insieme, ma con criteri extra-terrestri, da dei super-chirurghi. Unite queste due vittime di un oltraggio insanabile. Dall’orrore che striscia sotto la loro pelle, pronto a prorompere, scaturiranno torrenti di paura, ira, odio, gelosia, tormento, terrore: le emozioni umane delle quali si nutre e si abbevera, e grazie alle quali ingrassa e si arricchisce, il «mercante di dolore». L’astronauta, l’orfana e l’avvoltoio: il più strano «triangolo» coniugale che i mondi interplanetari abbiano mai veduto.
Già il nostro tempo ha tributato i maggiori onori della critica a uno scrittore francese, teorico del «teatro della crudeltà», e una certa stampa ha scoperto e sfrutta correntemente l’avidità morbosa con cui il pubblico è disposto ad abbeverarsi delle sciagure e sofferenze altrui.
Ma tutto ciò è ancora un innocente gioco infantile rispetto all’inquietante personaggio che, in questo libro, porta il nome di Chalk. «Il dolore è un grande maestro», egli dichiara in apertura di libro. Chalk si è arricchito ed è diventato una potenza, facendo il mercante di dolore: crea, nella realtà, delle situazioni sensazionali, inedite, atroci, e ne vende «in esclusiva» la storia.
Ma anche la ricchezza passa in seconda linea, rispetto all’appagamento dei suoi oscuri appetiti personali. In seno a una civiltà interplanetaria, egli manovra le sue vittime, attraverso l’aridità di climi torridi o glaciali, per procurarsi il suo crudele brivido di piacere.