Osservatorio di Arecibo

C.U.N. – Centro Ufologico Nazionale

Nella ricerca di materiale riguardante il tema del “contatto alieno”, un’utile risorsa è rappresentata dal sito web del Centro Ufologico Nazionale (http://www.cun-italia.net/), punto di riferimento per tutti gli appassionati italiani di ufologia.

Fondato nel 1966 con lo scopo di studiare in modo scientifico e non pregiudiziale il fenomeno UFO, diffondendone obiettivamente i dati e le conoscenze, il Centro è un’associazione privata, definita statutariamente come apolitica, aconfessionale e senza fine di lucro.

Le attività da essa svolte ricoprono quattro settori primari: il SETTORE INDAGINI, con l’analisi e la verifica sulle segnalazioni di avvistamenti, e la redazione dei relativi rapporti; il SETTORE DOCUMENTARIO, con la raccolta, la catalogazione e la conservazione dei dati; il SETTORE SCIENTIFICO, con l’attività di studio e ricerca sulle informazioni accumulate, effettuata secondo il metodo scientifico e seguendo precise modalità tecniche; il SETTORE DIVULGATIVO, con la diffusione obiettiva di fatti e di studi. La coordinazione dei vari rapporti associativi rientra poi nell’ambito del SETTORE ORGANIZZATIVO.

Oltre a archiviare il materiale inerente alle tematiche ufologiche nella “Banca delle Documentazioni”, accessibile a tutti gli interessati che si occupino con serietà di ricerca, il Centro produce alcune pubblicazioni cartacee: menzioniamo il bollettino trimestrale “Filo Diretto” (inviato ai soci e a chiunque desideri, come semplice abbonato, aggiornarsi sugli sviluppi dell’ufologia in Italia e all’estero), e il bimestrale “UFO notiziario”, in vendita presso tutte le edicole italiane.

Il network on-line del CUN è formato da una ventina di siti web locali, associati e amici, che ben rappresentano la ramificazione territoriale delle attività svolte.

Il CUN incarna in Italia quell’esigenza d’iniziativa privata sul tema UFO che nel tempo ha accomunato un po’ tutti i paesi sviluppati, in risposta forse alle posizioni assunte da parte delle autorità ufficiali preposte all’indagine sugli eventi ufologici, considerate spesso, a torto o a ragione, poco esaurienti.

Di fatto, a partire dagli anni Cinquanta, le informazioni, le problematiche e le teorie inerenti al fenomeno UFO hanno avuto una diffusione crescente proprio ad opera di associazioni private, come appunto il CUN.

Per quanto riguarda l’Italia è interessante capire se, dal 1966 anno in cui il Centro si è costituito, qualcosa sia cambiato a livello istituzionale nella ricerca ufologica, se esistano oggi organismi statali (civili o facenti capo all’Aeronautica Militare) incaricati di occuparsene, e se il CUN collabori con strutture di questo tipo. «Non è affatto un mistero», ci spiega Vladimiro Bibolotti, segretario generale del Centro, «che, fin dalla sua nascita, il CUN abbia avuto in seno alti ufficiali o piloti pluridecorati; per esempio Franco Bordoni-Bisleri, o il Generale Salvatore Martelletti (recentemente alla Presidenza del CUN), o ancora il Generale Attilio Consolante, membro del Consiglio Direttivo. Vorrei ricordare la partecipazione al Simposio Mondiale di San Marino, nell’anno 2000 sotto la Presidenza Pinotti, dell’allora comandante del Reparto Generale Sicurezza (ex SIOS) dell’Aeronautica Militare Italiana, Colonnello Aldo Olivero, che, in rappresentanza dello Stato Maggiore dell’Aeronautica, ha riferito sull’attività del suo reparto, incaricato di registrare le segnalazioni di UFO pervenute tramite fonti militari e civili e di elencarle annualmente in uno specifico rapporto. Ma parlare di collaborazioni significa, nei fatti, esporre il CUN allo sciacallaggio degli ufologi di confine, che sbraitano al complotto, ad un asse CUN-militari, o anche peggio. Al contrario, è più che naturale che figure o esponenti qualificati del CUN possano, di tanto in tanto, scambiarsi brevi bilanci o notizie, nell’ambito distinto dei propri ruoli, quello istituzionale e quello associativo.» Per merito anche di queste proficue interazioni, la ricerca ha avuto modo di evolversi, beneficiando peraltro di casistiche via via più ampie e di sempre più efficaci strumenti tecnologici, utili per analizzare le evidenze documentali e testimoniali.

Anche la fenomenologia UFO, di per sé abbastanza varia, nel tempo pare aver subito alcuni cambiamenti… Oggi, con l’esperienza di quarant’anni di ricerche alle spalle, qual è la posizione del CUN riguardo all’ipotesi di una presenza sulla Terra d’intelligenze extraterrestri?

«Il CUN non ha una posizione preconcetta,» spiega ancora Bibolotti, «né in senso negazionista, né accettando in toto i deliri di chi cerca pubblicità con affermazioni suggestive (ma dubbie, sul piano di una logica di contatto tra umani e possibili civiltà extraterrestri). Ci fa sorridere chi oggi ricorre, per riciclarsi, al concetto di esopolitica, termine intelligente ma ampiamente abusato. Le valutazioni di scenari di contatto sono possibili ma, in genere, da escludersi se provenienti dal mondo USA, specie se da parte di ex-militari, che in realtà sarebbero vincolati al segreto (e che segreto?). Ne abbiamo visti tanti che, pur avendo assunto ruoli apparentemente “scomodi” o delatori, sono stati poi, magari da defunti, celebrati ai massimi livelli dalle stesse autorità militari. Si sa: quando si appartiene a un mondo “particolare” come quello militare o legato all’intelligence, non si va mai in pensione, e anche gli atti conclusivi di una carriera sono spesso diretti da regie bene attente. Sembra infatti che sia in corso una politica sistematica di discredito, attuata mediante la “fuga” di presunte informazioni segretissime, attraverso particolari canali o strutture di intelligence. Lo scopo reale è di imboccare i sedicenti ufologi sensazionalisti (ma dovremo continuare a chiamare costoro ancora con il termine di ufologi?) con notizie da circo esoplanetario, screditando così l’intero il settore della ricerca UFO/ET. Prova ne sia l’incolumità dei protagonisti di queste vicende, diversamente dai pionieri dell’ufologia che spesso sono rimasti invece vittime d’incidenti o morti misteriose. In questi giorni esce un libro molto importante, controcorrente, su vicende lontane occorse nel nostro paese e in altre località del pianeta. S’intitola Contattismi di massa, ed è unico nel suo genere. Ciò che colpisce, leggendolo, è la logicità della politica di contatto che, nell’ipotesi proposta nel volume, sarebbe avvenuta coerentemente tra civiltà diverse, col coinvolgimento di diplomatici, politici, scienziati di altissimo livello, mondo accademico, militari, importanti figure istituzionali, artisti…Certo, occorre esser cauti nei giudizi, ma almeno, in questo caso, per la prima volta lo scenario esopolitico esce dalla fantascienza cospirazionista. Anche noi come CUN stiamo alla finestra pronti ad osservare implicazioni, sviluppi e ricadute che un testo del genere potrebbe generare nella comunità ufologica seria. E intanto continuiamo il lavoro di ricerca, senza distrazioni o suggestioni, come d’altronde abbiamo sempre fatto – con merito, riteniamo – fino ad oggi.» Come anticipato da Bibolotti, all’argomento UFO è legato indissolubilmente anche quello del “contattismo”, che si è spesso ipotizzato decadere nelle forme estreme delle cosiddette “abduction” (presunti rapimenti di soggetti umani da parte di creature aliene). Abbiamo chiesto quanti casi di “abduction” siano stati studiati in Italia da parte del CUN, e se, fra questi, ve ne siano alcuni da ritenere di particolare interesse, tali da poter essere analizzati come fatti potenzialmente “autentici” (prescindendo dalle cause). «Non vogliamo generare allarmismo», risponde il Segretario del Centro, «né facili miti. Sicuramente nel corso degli anni il CUN si è imbattuto in una certa casistica, molto scomoda da gestire (sia per gli addotti, cioè i soggetti “vittime di rapimenti”, sia per gli inquirenti) ma estremamente interessante. Il livello delle informazioni è tale da farci ritenere di dover mantenere il riserbo, soprattutto per il rispetto e la salvaguardia dei testimoni o dei soggetti stessi vittime di tali eventi!»

Queste parole ci lasciano una certa curiosità insoddisfatta, ma, spulciando fra la documentazione che il CUN ha inserito on-line, abbiamo trovato alcuni articoli che il lettore potrà consultare per approfondire l’argomento “abduction”; segnaliamo in particolare: Abductions, nuove frontiere, di ENRICO BACCARINI, Alieni ed Umani: la politica del contatto di FULVIO TERZI, ed Endorfine e Impianti di GIORGIO PATTERA.

Noi proseguiamo concentrandoci invece, specificamente, sulle problematiche tecniche e culturali relative a un eventuale “primo contatto”, con particolare riferimento alle caratteristiche di intelligibilità “semantica” che un messaggio dovrebbe avere per poter veicolare efficacemente informazioni tra l’uomo e un ipotetico interlocutore extraterrestre.

A questo proposito riportiamo, sempre dall’archivio on-line del CUN, l’interessante relazione Tra leggenda e storia: i linguaggi del SETI, sul tema “Uomo, Universo, ET: colonizzatori e colonizzati”, esposta al 1° Simposio Mondiale sulla Esplorazione dello Spazio e la Vita nel Cosmo, svoltosi a San Marino il 6-7 Maggio 2000. In essa è riassunta un po’ la storia dell’evoluzione del linguaggio per comunicazioni extraterrestri.

“La prima strategia proposta”, spiega il dott. Paolo Musso, del Dipartimento di Filosofia, Sezione di Epistemologia, dell’Università di Genova, “fu quella di mostrare immagini che potessero essere “viste” dai telescopi ottici della civiltà aliena: quest’ipotesi era infatti coerente con quanto sostenuto dalle teorie astronomiche del tempo (la prima metà dell’Ottocento, ndr) che credevano plausibile l’idea di una vita extraterrestre nel nostro sistema solare. Sembra che a porsi il problema sia stato per primo il matematico KARL FRIEDRICH GAUSS, che a quanto pare propose di tracciare un gigantesco triangolo rettangolo in un’area della Siberia (piantando ampie strisce di alberi in modo da formare i tre lati, e coltivando a grano l’interno per ottenere un colore uniforme); una variante poteva essere quella di rappresentare il teorema di Pitagora costruendo, nel modo appena illustrato, su ogni lato del triangolo un quadrato. Parallelamente, a Vienna, l’astronomo JOSEPH JOHANN VON LITTROW suggerì di scavare nel Sahara dei canali che formassero figure geometriche di 30 km di lato, da riempire, di notte, con kerosene a cui dare poi fuoco.”

Il dottor Musso cita anche CHARLES CROS, il primo a proporre l’utilizzo di un codice, da trasmettere nella fattispecie riflettendo la luce del Sole verso Marte (pianeta che allora si riteneva potenzialmente abitato) per mezzo di un sistema di specchi. Gli impulsi luminosi avrebbero dovuto rappresentare un numero definito di “unità” di colore, in ordine alternato bianco/nero (una qualsiasi coppia di colori opposti), che, come “tessere” di un mosaico raggruppate in sequenze di pari lunghezza, avrebbero formato “righe” da incolonnare poi una sotto l’altra per ricostruire l’immagine bidimensionale trasmessa. Nel 1920, H. W. NIEMAN e C. WELLS NIEMAN semplificarono l’idea proponendo di usare impulsi di durata diversa a rappresentare differentemente i due colori, come il sistema punto-linea dell’alfabeto Morse. Si tratta in sostanza del codice binario, lo stesso usato dai computer, il modo più semplice per trasmettere immagini.

“Intanto nel 1896”, prosegue il dottor Musso, “FRANCIS GALTON aveva suggerito un approccio differente: prima di inviare immagini bidimensionali, egli riteneva infatti più utile spedire una sorta di introduzione alla matematica, in modo tale da essere poi in grado di trasmettere messaggi che descrivessero gli oggetti attraverso le loro misure anziché direttamente le immagini.(…) nel 1953, LANCELOT HOGBEN, nel suo articolo “Astraglossa, o primi passi nella sintassi celeste”, e sulla sua scia PHILIP MORRISON, avevano suggerito, come primi passi, l’invio di numeri (come impulsi ordinari di forma rettangolare) e dei concetti matematici basilari (“più”, “meno” e “uguale”, rappresentati invece da un radioglifico, un segnale con una forma caratteristica). Semplici esemplificazioni aritmetiche avrebbero condotto gli extraterrestri alla comprensione di questi simboli, il che, successivamente, avrebbe permesso l’introduzione di π, e per suo tramite del concetto di numero irrazionale.”

“Partendo da questo spunto, HANS FREUDENTHAL (…) elaborò un linguaggio che potesse essere veicolo di comunicazione tra creature che avessero in comune soltanto l’intelligenza e null’altro: lo battezzò Lincos (abbreviazione per “lingua cosmica”, in latino). Il linguaggio logico sembrava al nostro autore il più adatto per la comunicazione interstellare, soprattutto per il suo carattere formale, perché la correttezza dei ragionamenti non dipende dal contenuto espresso dagli enunciati ma soltanto dalla loro forma. Freudenthal si proponeva dunque di costruire un sistema formale, con un linguaggio (alfabeto e regole di formazione delle formule del linguaggio) e un calcolo (assiomi e regole da applicare); l’aspetto semantico delle espressioni – cioè il legame con la realtà – doveva invece essere completamente reciso, perché i riceventi extraterrestri avrebbero potuto non essere in grado di comprenderlo. (…) Il risultato non fu esattamente quel prodigio di chiarezza che Freudenthal pretendeva, anche perché già la stessa versione “terrestre” del discorso, prima ancora della sua traduzione simbolica, risultava piuttosto singolare. Ecco come, per esempio, egli intendeva comunicare le nozioni essenziali circa la generazione degli esseri umani: “L’esistenza di un corpo umano comincia qualche tempo prima di quella dell’essere umano medesimo. Lo stesso vale per alcuni animali. Mat, madre. Pat, padre. Prima dell’esistenza individuale di un essere umano, il suo corpo è parte del corpo di sua madre. Esso è originato da una parte del corpo di sua madre e da una parte del corpo di suo padre”. Se devo essere sincero, non mi sembra molto più comprensibile del testo in linguaggio formalizzato…”

“Come Freudenthal dichiarò esplicitamente nell’introduzione al suo celebre saggio Lincos: Design of a Language for Cosmic Intercourse (North Holland, Amsterdam, 1960), le sue principali fonti di ispirazione erano la Characteristica Universalis di Leibniz, il Formulario di Peano e i Principia Mathematica di Russell e Whitehead: vale a dire, in buona sostanza, il programma del neopositivismo logico. Che tale programma fosse stato dimostrato impossibile per la matematica già nel 1931 dai celebri Teoremi di incompletezza di Gödel, e che, più in generale, il progetto di “costruzione logica” del mondo della filosofia neopositivista, già ampiamente messo in crisi da Popper, stesse per crollare definitivamente di lì a un paio d’anni sotto i colpi di Kuhn e Feyerabend, non parve evidentemente preoccupare più di tanto il Nostro, che confidava addirittura di poter “coprire con il Lincos l’intero campo dell’umana esperienza”, comprendente fra l’altro “il modo di fischiare al proprio cane, le buone maniere e il modo di comportarsi nelle diverse occasioni, e un sistema di punizioni quando siano trasgredite alcune norme”. Nonostante la sua apparente (o reale) follia, alcune delle idee di Freudenthal erano però valide. La matematica, in effetti, essendo basata sulle caratteristiche più generali della realtà fisica (…) deve necessariamente essere la stessa dovunque (…) ed essere espressa in modo da risultare comprensibile a chiunque. Ed è altresì vero che basandosi su di essa si possono comunicare alcuni concetti astratti, validi non solamente in matematica. Ecco per esempio come, nel suo celebre libro (poi anche film) ContactCarl Sagan procede per comunicare i concetti di “vero” e “falso”, non molto diversamente da come intendeva Freudenthal”:

1A1B2Z

1A2B3Z

1A7B8Z

«Che cos’è secondo lei?»

«Il mio tesserino della scuola superiore? Intendi dire che la A sta per una combinazione di punti e di linee, e che la B sta per una differente combinazione di punti e di linee, e così via?»

«Esattamente. Si sa cosa significano uno o due, ma non si conosce il significato di A e B. Che cosa le dice una sequenza di questo tipo?»

«A significa “più” e B significa “uguale”. È così?»

«Bene. Ma non comprendiamo ancora il significato di Z, giusto? Adesso sta scrivendo…»

1A2B4Y

«Capisce?»

«Forse. Dammene un altro che termini in Y.»

2000A4000B0Y

«Okay, credo di esserci arrivata. Purché non legga gli ultimi tre simboli come una parola, Z significa vero e Y falso.»

“Il problema è che tutto ciò resta comunque limitato. Il rischio è che alla fine tutta questa fatica non porti molta più informazione di un mero self-proclaiming message (cioè di un messaggio con cui si comunica esclusivamente il fatto della propria esistenza, senza alcuna ulteriore informazione). Come ha notato il filosofo del linguaggio NEIL TENNANT in un suo sferzante saggio (The decoding problem: do we need to search for extraterrestrial intelligence in order to search for extraterrestrial intelligence?), “ciò che è proclamato non sarà appena «Hey, siamo qua», ma piuttosto «Hey, siamo qua, e quel che più conta, sappiamo un po’ di matematica»”. Il che, come nota ancora Tennant, “non sarà terribilmente informativo”, dato che per mandare qualsiasi messaggio è necessario disporre di apparecchiature adatte, sicché “anche il più scarno messaggio self-proclaiming «Hey, siamo qua» ha, come suo corollario pragmatico, «…e quel che più conta, abbiamo dei radiotrasmettitori»”. Tuttavia, proprio per questa ragione, è forse possibile estendere la base di conoscenze comuni. Dopo tutto, per poter disporre di radiotrasmettitori in grado di comunicare tra loro, è necessario avere conoscenze scientifiche abbastanza avanzate. Siccome le leggi della natura sono le stesse in tutto l’universo, e siccome in gran parte possono essere espresse in forma matematica, non dovrebbe essere impossibile usare il linguaggio matematico stesso per comunicare anche la nostra scienza in un modo universalmente comprensibile.”

“(…) Per esempio, è chiaro che chiunque abbia una benché minima cognizione scientifica non può non riconoscere in una serie di numeri da 1 a 92, ciascuno accoppiato con un diverso simbolo, l’elenco degli elementi chimici (…). E, una volta in possesso dei loro simboli, nonché di quelli della matematica precedentemente acquisiti con i quali indicare le loro combinazioni, si può fare davvero molta strada. Il rischio anche stavolta, però, non è tanto di non capirsi, quanto di ricadere nella situazione precedente. Parafrasando Tennant, potremmo dire che stavolta ciò che è proclamato non sarà appena «Hey, siamo qua», ma piuttosto «Hey, siamo qua, e quel che più conta, sappiamo un po’ di chimica». Il che, di nuovo, “non sarà terribilmente informativo”, dato che è proprio ciò che ci aspetteremmo da chiunque fosse capace di costruire dei sofisticati radiotrasmettitori. Certamente se ad entrare in contatto fossero due civiltà di diverso livello tecnologico, quella più evoluta potrebbe tentare di far leva sulle conoscenze comuni per trasmetterne di nuove: ciò tuttavia sarebbe interessante solo per l’altra, e solo a patto che il tempo necessario al messaggio per giungere a destinazione fosse inferiore a quello necessario per giungere alle relative scoperte con i propri mezzi; il che, date le distanze implicate, non è poi così scontato.”

“Il vero problema, comunque, è che in ogni caso non si riuscirebbe a oltrepassare l’ambito meramente scientifico (…). E questo è il motivo per cui nei (pochi) tentativi di comunicazione fin qui effettivamente tentati si è sempre finiti per seguire un’altra strada.”

“Come già anticipato, il suggerimento pionieristico di GODDARD (utilizzare delle immagini incise su una targa metallica, a bordo di una navicella spaziale, ndr) è stato poi effettivamente messo in opera in occasione del lancio di tre sonde interplanetarie (costruite per scopi completamente differenti), le Pioneer 10 e 11 e la Voyager. Ognuna di esse ha a bordo una placca con incise immagini di vario tipo, che, se ritrovate da intelligenze extraterrestri, dovrebbero fornire loro molte informazioni, almeno secondo l’intenzione degli ideatori.”

“Vediamo il loro contenuto in particolare. Sulle placche delle sonde Pioneer sono rappresentati i seguenti elementi: due figure umane – un uomo, con l’avambraccio alzato e il palmo della mano aperta in segno di saluto, e una donna -; dietro di loro la forma schematizzata della Pioneer stessa; nella parte inferiore della placca vi è la medesima navicella, raffigurata in scala più ridotta, e il suo tragitto nel Sistema Solare, disegno dal quale si dovrebbe arguire come suo luogo di partenza il nostro pianeta (…). Inoltre, nella parte superiore, si possono vedere riprodotti, mediante due cerchi uniti tra loro da una linea orizzontale, l’atomo d’idrogeno e il momento di rotazione dell’elettrone. Infine vi è un ultimo diagramma da analizzare, posto al centro della placca: quindici linee che s’incontrano in un punto e che dovrebbero indicare la posizione del nostro pianeta (al centro) in relazione alle quindici pulsar più evidenti finora osservate.”

“La placca d’oro della Voyager (d’oro perché è uno dei materiali meno deteriorabili), ha in parte gli stessi diagrammi delle Pioneer (l’atomo d’idrogeno e la posizione del nostro pianeta indicato dalle pulsar), ma contiene inoltre foto di uomini, donne e bambini di diverse razze, immagini di capolavori artistici e di bellezze naturali del nostro pianeta nonché un registratore, montato sulla piastra stessa, il cui modo d’utilizzo è illustrato per mezzo di disegni. Questi, se correttamente compresi, dovrebbero permettere l’ascolto di dischi con le voci e i canti prescelti per presentare la nostra civiltà: per esempio vi è il saluto di Jimmy Carter, allora presidente degli Stati Uniti, e dell’allora segretario generale dell’ONU, Kurt Waldheim. Vi sono infine raffigurati, sulla parte destra superiore, i segnali corrispondenti ai suoni che l’apparecchio usato correttamente deve produrre. La Voyager, ormai uscita dal nostro sistema solare e sperduta nello spazio esterno, è insomma “un piccolo museo in miniatura della razza umana.”

“(…) il vero problema è però che una sonda spaziale sperduta nell’immensità dell’universo non ha praticamente nessuna possibilità di essere ritrovata. Per questo motivo, gli sforzi dei ricercatori del SETI si sono concentrati soprattutto sul metodo della trasmissione di immagini in codice, il quale, pur ideato inizialmente per segnalatori ottici, può tuttavia agevolmente essere utilizzato anche per la ben più efficiente (su scala cosmica) comunicazione via radio.”

“Tale metodo è stato utilizzato per la prima volta da FRANK DRAKE nel 1974, quando egli inviò, dal radiotelescopio di Arecibo (Puerto Rico), il primo radiomessaggio della storia intenzionalmente rivolto ad un’altra civiltà, indirizzandolo verso l’ammasso stellare M13, detto l’ammasso di Ercole.

Il codice utilizzato fu quello suggerito inizialmente da Cros e dai Nieman, il binario, ovvero il codice dei calcolatori moderni, che si basa su due valori soltanto, acceso=1 e spento=0. (…) perché la ricostruzione dell’immagine non risultasse ambigua, si fece in modo che il numero totale di bit (cioè di impulsi) fosse il prodotto di due numeri primi,(…) da potersi quindi scomporre in un modo soltanto (…). Il messaggio di Arecibo (…) consiste di 1699 impulsi binari (ripetuti più volte, per un totale di 3 minuti di trasmissione). 1699 è il prodotto di 73 per 23, che sono primi, e questo è appunto il formato della trasmissione: 73 righe per 23 colonne. Sostituendo agli 1 quadratini neri e agli 0 quadratini bianchi si ottengono le immagini che compongono il messaggio. Faccio qui incidentalmente notare che in effetti, a rigore, tale metodo non è proprio del tutto esente da ambiguità, perché potremmo anche disporre i nostri bit su 23 righe per 73 colonne. È vero che in questo modo non si otterrebbe nessuna figura coerente, e che esseri intelligenti appena degni di questo nome dovrebbero pure, prima o poi, pensare di provare anche nell’altro, però, con tante critiche ben più pretestuose di questa, come ora vedremo, mi stupisce un po’ che nessuno l’abbia ancora notato. Per questo mi sembrerebbe meglio usare un formato che fosse dato dal quadrato di un solo numero primo (anziché dal prodotto di due): in questo modo, infatti, potremmo avere davvero una suddivisione univoca (e inoltre i quadrati sono più facili da riconoscere e da scomporre in fattori, soprattutto nel caso di numeri più grandi di quelli usati da Drake(…)).”

“In ogni caso, tornando alla figura, il valore informativo di questa immagine vuole essere di nuovo molto alto, come nei messaggi delle sonde. Nelle prime righe vengono rappresentati, nell’ordine, i numeri da 1 a 10 – perché noi contiamo in base 10, anche se quest’informazione è sconosciuta al ricevente – e successivamente il numero atomico di idrogeno, carbonio, azoto, ossigeno e fosforo, che sono gli elementi principali che compongono il nostro corpo. A questo punto c’è un brusco e inaspettato cambiamento di significato: da qui alla fine, infatti, alle figure con valenza numerica se ne affiancano altre con un significato visivo. Vengono simboleggiati la doppia elica del DNA (composto dagli elementi sopra elencati), la figura stilizzata dell’uomo con accanto due numeri (che dovrebbero essere già stati decodificati e compresi), uno per la sua altezza e uno per la popolazione terrestre, e la riproduzione del Sole e i 9 pianeti, con il quadratino rappresentante la Terra lievemente spostato verso l’uomo per indicarne la provenienza. Lo schema termina con una raffigurazione del radiotelescopio da cui il messaggio è stato inviato e col numero corrispondente al diametro del suo specchio. (…)”

“Sia il messaggio di Arecibo che quello precedente “di prova”, così come quelli delle navette, sono risultati assai difficili da decodificare per gli stessi terrestri interpellati, benché almeno quelli dotati di preparazione scientifica vi siano alla fine riusciti, almeno in buona parte. Effettivamente i messaggi contengono alcuni evidenti difetti, (…). Le critiche a cui hanno dato luogo, tuttavia, mi sembrano in gran parte esagerate e fuorvianti, e almeno in qualche caso veramente insensate. Vi è stato un autore, per esempio (l’esperto di intelligenza artificiale MICHAEL ARBIB), che ha criticato il messaggio di Drake del 1962 perché secondo lui potrebbe essere interpretato in maniera completamente diversa – intendendolo come spedito da una razza di esapodi provvisti di grandi teste – semplicemente capovolgendolo. Nella sua interpretazione, la figura dell’esapode verrebbe formata (per la verità in maniera piuttosto approssimativa…) dal gruppo di simboli che dovrebbero rappresentare gli elementi chimici, mentre la figura stilizzata dell’alieno vista alla rovescia potrebbe essere interpretata come quella del radiotelescopio usato per spedire il messaggio (cosa già un po’ più verosimile), e gli altri simboli, in mancanza di meglio, come “nuvole” che ricoprono il pianeta, essendo posti tra l’esapode e il satellite stesso.”

“B. e F. MELCHIORRI hanno invece paragonato la placca della Voyager al celebre disco di Festo, ritrovato sull’isola di Creta, un disco di terracotta sulle facce del quale sono disegnate trenta caselle ordinate a spirale e illustrate con bassorilievi che convergono al centro: gli archeologi hanno formulato diverse ipotesi, ma non sanno ancora come decifrare il messaggio.”

“Morrison, il fisico che con GIUSEPPE COCCONI nel ’59 aveva proposto per primo l’uso della frequenza “magica” dell’idrogeno per la comunicazione interstellare, prendendo spunto dalle difficoltà presentate dal messaggio di Arecibo ha proposto addirittura di inaugurare una nuova disciplina, “l’anticrittografia”, ovvero la tecnica di progettazione di codici facilissimi da decifrare. E, naturalmente, nessuno di loro ha mai perso l’occasione di far notare come ogni messaggio del genere sia immancabilmente viziato da antropocentrismo.”

“(…)Ora, a me sembra (e credo che ciascuno lo possa agevolmente verificare da sé) che il problema del messaggio di Arecibo (e in generale di tutti i messaggi iconici fin qui elaborati) sia in realtà uno solo, e cioè l’eccesso di stilizzazione (che, almeno nel caso del DNA, raggiunge un livello veramente intollerabile, e che è altresì responsabile dell’impossibilità di distinguere agevolmente tra numeri in codice binario e figure). Semplicemente, queste non sono immagini del nostro mondo: sono solo una sua rappresentazione iperstilizzata ed ipersemplificata, più o meno del livello che si potrebbe ottenere con i Lego. (…) Non credo che gli alieni avrebbero potuto cadere in errore se Drake avesse rappresentato la figura umana per esempio con una fotografia di Valeria Marini (ma, in verità, anche solo con un disegnino della Lucy di Schulz)! E avrei proprio voluto vedere che razza di esseri si sarebbe dovuto inventare Arbib perché si potessero fraintendere queste immagini semplicemente capovolgendole.”

“Insomma, secondo me, tutto quello che si può legittimamente dire analizzando questi messaggi è che delle rappresentazioni iperstilizzate ed ipersemplificate non sono sufficienti per evitare equivoci (…). Se è così, allora miglioriamole! Ma non capisco proprio come ci si possa attaccare a questo per trarne conseguenze filosofiche epocali circa una pretesa incomprensibilità delle immagini in generale, dato che qui, lo ripeto, immagini non ce ne sono. Né capisco come si possa accusare di essere troppo “antropocentriche” delle figure che semmai lo sono troppo poco, al punto da risultare incomprensibili innanzitutto ai normali esseri umani.”

“Ci sono però anche altre due obiezioni ricorrenti, secondo le quali l’uso di immagini sarebbe comunque antropocentrico in un senso più fondamentale. La prima sostiene ciò in base al fatto che, anche sulla Terra, vi sono culture che adottano raffigurazioni diverse da quelle che noi consideriamo “realistiche”. Un esempio molto citato è quello degli Abelam della Papua-Nuova Guinea, che rappresentano l’uomo come un triangolo, per ragioni rituali. Un altro è quello degli Indiani Sioux, i quali ritengono che un uomo a cavallo visto di fianco sia rappresentato più correttamente disegnandone comunque entrambe le gambe, perché un uomo ne ha sempre due anche quando una è nascosta. La mia risposta è che ad essere antropocentriche sono semmai queste rappresentazioni, in quanto culturalmente condizionate, laddove una fotografia rappresenta invece semplicemente “ciò che si vede”, né più né meno; tant’è vero che tali divergenze teoriche non impediscono affatto né agli Abelam né ai Sioux di riconoscere un uomo in una foto, mentre impediscono a noi di fare altrettanto nelle loro raffigurazioni, se non ne conosciamo i presupposti. E qualsiasi civiltà dotata di una tecnologia avanzata dovrebbe avere sviluppato un sufficiente senso del valore universale della rappresentazione oggettiva del mondo (che è alla base della scienza naturale) da non consentire troppi dubbi sul fatto che essa debba essere la prima a venire usata per comunicare (…). La seconda obiezione, più radicale, dice che l’utilizzo di immagini sarebbe antropocentrico in quanto presuppone l’uso della vista, mentre non è detto che tutti gli esseri dotati di intelligenza posseggano necessariamente questo senso. Ciò può essere vero, ma non riguarda il SETI, perché per esso hanno rilevanza solo le creature intelligenti capaci di sviluppare una civiltà tecnologica evoluta (almeno) fino al punto di costruire radiotelescopi. Ora, in primo luogo è assai dubbio che ciò sia possibile senza l’uso di un senso così fondamentale per orientarsi nel mondo come quello della vista (non a caso sulla Terra si è evoluto almeno tre volte indipendentemente; ma, soprattutto, sarebbe in ogni caso irrilevante, perché non si tratterebbe di un problema di “linguaggio”, ma di interfaccia. Nemmeno noi infatti possiamo vedere gli oggetti della radioastronomia, perché le loro frequenze sono al di fuori dello spettro visibile. Eppure li “vediamo” lo stesso, perché abbiamo costruito un’interfaccia che li traduce per noi in frequenze adatte ai nostri occhi. Quindi, siccome un radiotelescopio capta comunque un’immagine bidimensionale del cosmo nelle radioonde, sia che gli alieni vedano su frequenze diverse dalle nostre, sia che non vedano proprio, in ogni caso, se possiedono radiotelescopi, devono per forza avere anche un’interfaccia che traduca le immagini captate in altre che essi possono “leggere” (nel secondo caso – a cui, ripeto, non credo – per esempio potrebbe trattarsi di un’immagine in rilievo, percepibile al tatto). Se così non fosse, infatti, che cosa costruirebbero a fare i radiotelescopi? Non sembrano quindi esserci obiezioni di principio all’uso delle immagini digitalizzate nelle comunicazioni SETI. Ma, soprattutto, il fatto è che esse sono comunque indispensabili.”

Nel prosieguo della sua relazione, Musso pone l’accento sul fatto che la decifrabilità di una forma di comunicazione (per esempio una lingua parlata) non dipende dal suo grado di difficoltà intrinseca, ma dalla possibilità o meno di associarne ai simboli (alle parole) i corretti significati. Il dottore cita l’esempio delle iscrizioni in Etrusco, che continuano a risultare incomprensibili perché di quasi tutte le parole componenti quell’antica lingua s’ignora ancora il significato, nonostante sia invece ben nota la struttura (si conosce interamente l’alfabeto e la sua pronuncia, e parzialmente la grammatica e la sintassi). Al contrario, è stato possibile decifrare i geroglifici egizi, ma solo grazie all’utilizzo di un preciso riferimento, offertoci da quella pratica “tavola di conversione” che si è rivelata essere la Stele di Rosetta. Nella costruzione di un linguaggio formalizzato che metta in contatto due interlocutori, occorre dunque riferirsi a una base di conoscenza che sia condivisa da entrambi, per esempio le comuni conoscenze matematico-scientifiche, che verosimilmente dovrebbero essere note a ogni civiltà in grado di spedire/ricevere messaggi attraverso lo spazio.

“La miglior riprova di ciò”, fa notare Musso, “è che chi non ammette (secondo me sbagliando, ma questo è un altro discorso) l’esistenza di tali conoscenze comuni, ipotizzando che gli alieni possano avere una matematica e una scienza completamente (e non solo parzialmente) diverse dalle nostre, in genere non ammette (qui secondo me a ragione, una volta accettata l’ipotesi) neanche la possibilità di una comunicazione quale che sia”.

Ne consegue che, in linea di principio, è impossibile “dare un senso soltanto tramite le proprietà interne del codice alle parole che non riguardino (direttamente o indirettamente) tali conoscenze comuni (…) e, più radicalmente, che in fondo il problema del linguaggio da usare risulta del tutto secondario rispetto a quello della scelta del metodo che deve conferirgli il contenuto semantico. (…) come ben sa chiunque abbia tentato almeno una volta di parlare qualche lingua straniera, è infatti perfettamente possibile capire e farsi capire abbastanza bene anche avendo una scarsa padronanza della grammatica, purché si conosca un sufficiente numero di vocaboli, mentre l’inverso è, non che difficile, propriamente impossibile. Ma, se la struttura del linguaggio può ancora avere una sia pur relativa importanza, quello che è veramente privo di qualsiasi interesse è il tipo di simbolismo usato: non fa infatti nessuna differenza, ai fini della comprensione, che per indicare il numero 1 si usi appunto il simbolo “1”, la parola “uno” in alfabeto italiano, i simboli del Lincos o quelli dell’immaginario alfabeto Klingon di Star Trek. O meglio, una differenza c’è, ed è che usando un linguaggio già esistente faremmo meno fatica noi a raccapezzarci, potendo più facilmente concentrarci sui problemi veri; mentre i nostri ipotetici partner extraterrestri ne farebbero esattamente la stessa, non un solo grammo di più. In definitiva, dunque, la proposta del celebre astronomo francese JEAN HEIDMANN di trasmettere direttamente l’Enciclopedia Britannica risulta a mio avviso assai meno paradossale di quanto potrebbe sembrare a prima vista.”

“(…) Ma allora, problemi tecnici e (soprattutto) economici a parte, tutto quello che dovremmo fare sarebbe trasmettere delle fotografie (o, meglio ancora, un film) con le opportune didascalie? (…) Certamente, se volessimo soltanto dare un’idea di come siano fatti il nostro mondo e gli esseri che lo abitano, la mia risposta sarebbe: assolutamente sì! Non c’è infatti altro modo, stando a quanto detto finora, di far conoscere ad un alieno un particolare oggetto del nostro mondo se non mostrandoglielo. Tuttavia, in questa maniera resterebbero fuori numerose informazioni non banali circa la struttura interna degli oggetti mostrati e, inoltre, tutta la gamma dei concetti astratti. Una prima, parziale soluzione potrebbe quindi certamente essere costituita dai linguaggi formali che abbiamo visto prima, grazie ai quali è possibile, come si è detto, introdurre almeno i concetti fondamentali della matematica e delle scienze naturali, oltre ad alcuni concetti astratti di portata più generale, come per esempio quelli di “uguale”, “diverso”, “maggiore”, “minore”, “giusto”, “sbagliato”, “finito”, “infinito” e così via. Anche noi infatti usiamo questi concetti in modo analogico, applicandoli a diversi oggetti con (parziali) “slittamenti di significato” determinati dal contesto (per esempio, “giusto” o “sbagliato” in senso morale anziché matematico, “finito” o “infinito” in senso teologico anziché fisico ecc.). Ma, appunto per questo, sarebbe impossibile far capire ad un interlocutore che stiamo usando un determinato concetto in senso analogico se non applicandolo ad un nuovo oggetto dentro un diverso contesto. E questo contesto, se dev’essere diverso da quello scientifico, non potrà, per definizione, essere individuato da un linguaggio costruito interamente sulla scienza. Quindi, per esclusione, dovremo nuovamente far ricorso ad immagini, per esempio usando una scena di pace e una di guerra e contrassegnandole rispettivamente con i simboli (per esempio, nel testo di Sagan, “Z” e “Y”) che avevamo precedentemente introdotto per indicare i concetti di “giusto” e “sbagliato” in senso matematico. Non è detto che gli alieni capiscano (anche se a mio parere la ragione, in qualsiasi parte dell’universo esista, non può fare a meno di funzionare in modo analogico, perché altrimenti non sarebbe in grado di svolgere il suo compito più importante, vale a dire quello di confrontarsi con le novità); tuttavia voglio sottolineare che in questo modo è almeno possibile che essi vi riescano (…).”

“Una seconda soluzione, parziale e quindi non alternativa bensì complementare alla prima, potrebbe essere quella che è poi la più vecchia del mondo: spiegarsi a gesti. Ovviamente, nel caso di una comunicazione di tipo SETI, non lo potremmo fare in modo diretto. Niente però ci vieta di ricostruire la scena con la solita tecnica del codice binario, e di trasmetterla esattamente come le altre immagini puramente descrittive. Dopo molti anni di studi e pur con oscillazioni ricorrenti e non ancora del tutto superate, pare che a questa conclusione sia giunto infine anche DOUGLAS VAKOCH, del SETI Institute californiano – forse il massimo esperto mondiale del problema – come risulta dal Poster Paper da lui presentato alle Hawaii in occasione del Convegno Mondiale Triennale di Bioastronomia Bioastronomy 99 (Kona, 2-6 Agosto 1999), nel quale viene illustrato un metodo per costruire una sorta di filmino (in 3 dimensioni) in cui un uomo e una donna (rappresentati in modo realistico) illustrano appunto a gesti concetti relativi ad oggetti, parti di oggetti e relazioni tra essi.”

“Come egli stesso mi ha detto in quella occasione, però, questo metodo lascia fuori i concetti a più elevato grado di astrazione, che sono poi quelli su cui si fondano l’arte, la cultura e la religione, vale a dire tutto ciò che caratterizza la nostra civiltà e che costituisce ciò che noi “siamo” assai più profondamente che la nostra struttura corporea o la nostra composizione chimica.”

“È possibile (benché per nulla affatto sicuro) che combinando i due metodi si possano fare dei passi avanti anche su questo difficile terreno. Quel che è certo è che, in ogni caso, nessuno dei due potrà mai evitare di fare uso di immagini.”

“(…) il tipo di linguaggio che io auspico per il SETI del futuro, e verso il quale mi sembra ci si stia, pur faticosamente, dirigendo, è un linguaggio integrato, che, su di un impianto base fondamentalmente iconico, sappia inserire opportunamente anche spezzoni di linguaggio formale modellato sulle scienze e sulla matematica. Quanto ai simboli da utilizzare, dovrebbero essere usati il più possibile quelli dei linguaggi naturali già esistenti, scostandosene solo in caso di vera e comprovata necessità. (…) Se quanto fin qui detto è corretto, ne dovrebbe seguire che per trasmettere informazioni interessanti occorra un messaggio molto lungo, se non proprio l’Enciclopedia galattica in stile Heidmann almeno qualcosa di paragonabile come ordine di grandezza. Da ciò parrebbe di poter dedurre una conseguenza, che potremmo chiamare “Principio di non mediocrità dialettica”, per simmetria con il cosiddetto “Principio di mediocrità cosmica”. Mentre infatti quest’ultimo afferma che quanto alla possibilità di un dialogo con altre civiltà è la mediocrità che “paga”, perché la loro esistenza e la possibilità di contatti con esse sono rese plausibili dal fatto che la Terra e l’umanità non sono speciali, ma nella “media” cosmica, il “Principio di non mediocrità dialettica” afferma al contrario che quanto alla concreta effettuazione di tale dialogo a “pagare” è invece “l’estremismo”, giacché i messaggi di media lunghezza dovrebbero essere esclusi (in quanto impossibilitati ad essere realmente più informativi di quelli brevi), riducendo le possibilità dunque all’alternativa secca tra informazione minima (“Hey, siamo qui!”, messaggio meramente self-proclaiming, al massimo munito di un piccolo corredo di immagini tipo “album di famiglia cosmico”) e informazione massima o comunque estremamente elevata (l’Enciclopedia stessa). Dato inoltre il costo spropositato in termini di tempo e di risorse che richiederebbero la compilazione e poi la trasmissione (ripetuta) di quest’ultima a caso nello spazio, sembrerebbe ragionevole aspettarsi che almeno il primo contatto debba avvenire attraverso un messaggio del primo tipo.”

“Anche da un’analisi condotta in base a metodi e principi indipendenti, come la presente, risulterebbe dunque confermata l’ipotesi, formulata in precedenza dai radioastronomi principalmente per ragioni tecniche, che il tipo di messaggio intenzionale in cui è più probabile imbattersi sia, in definitiva, una semplice portante radio.”

“Vorrei concludere tentando di rispondere alla domanda sul perché, nel dibattito sul linguaggio del SETI, spesso alle (non piccole) difficoltà già esistenti se ne aggiungano altre che derivano da complicazioni apparentemente inutili. (…) trovo molto curioso, per esempio, che quasi tutti si sentano in dovere di inventare una simbologia apposita quando andrebbe benissimo una qualsiasi già in uso, dato che tutte sono convenzionali. Ma, a pensarci, forse si potrebbe dire lo stesso della stilizzazione così spinta dei messaggi iconici: perché infatti tutti seguono questa strada, di per sé innaturale, e nessuno suggerisce semplicemente di aumentare la definizione in modo da servirsi delle immagini reali degli oggetti, come ho fatto io? La risposta alla fine è sempre la stessa: si vuole evitare in tutti i modi il rischio dell’antropocentrismo. Ma abbiamo visto che, almeno da questo punto di vista, il timore non è assolutamente giustificato! E allora? Forse la risposta è più banale ed è riassumibile in due parole: troppo facile! Sarebbe troppo facile usare semplicemente la fotografia di un uomo per rappresentare un uomo, la fotografia di un radiotelescopio per rappresentare un radiotelescopio e quella di una molecola di DNA per rappresentare una molecola di DNA: meglio inventare una rappresentazione ad hoc che richieda, per essere capita, almeno un po’ di ingegno e di conoscenze matematiche.”

“Allo stesso modo, una notazione inventata ad hoc per contrassegnare i numeri non dà nessun vantaggio rispetto all’usare le nostre buone, vecchie cifre arabe, però… Appunto! “Buone e vecchie”. Ma soprattutto vecchie. Possibile che vadano bene anche per il “linguaggio cosmico”? Troppo facile, troppo banale e soprattutto non abbastanza “scientifico” per un compito così alto.”

“Lo stesso Vakoch, pur inclinando attualmente, come abbiamo visto, verso un’impostazione più “naturalistica”, non rinuncia ad inserirvi elementi paradossali: per esempio proponendo di usare, per illustrare determinate relazioni spaziali, i 5 solidi platonici (quelli composti da poligoni regolari), allo scopo di comunicare un senso di armonia e di bellezza che, nel contesto, c’entra davvero poco; oppure suggerendo che il filmino venga costruito in 3 dimensioni anziché in 2 (con tanti saluti alla semplicità e univocità della codifica e con una crescita esponenziale – secondo n3 anziché n2 – della lunghezza del messaggio e quindi del dispendio energetico necessario in caso di sua effettiva trasmissione) nell’ipotesi che gli alieni non abbiano il senso della vista e si orientino attraverso il tatto (come se ciò fosse possibile in assenza di un’interfaccia che trasformi il flusso – di per sé comunque unidimensionale – dei bit in un’immagine solida tangibile (la quale interfaccia, se esistesse, sarebbe allora certamente capace di far ciò anche con un’immagine bidimensionale).”

“(…) Bene, forse questa mia spiegazione è semplicistica, ma proprio non riesco a fare a meno di sospettare che dietro a tutti questi aspetti “curiosi” e altrimenti apparentemente inspiegabili si celi un pizzico almeno di un fenomeno analogo a quello dei cosiddetti “cargo cult”, vale a dire l’adorazione degli aerei da trasporto che lanciavano viveri dal cielo come rifornimento per le truppe, diffusasi in alcune isole del Pacifico durante la seconda guerra mondiale e diventata il simbolo della tendenza umana (esistente in realtà da sempre e non ancora scomparsa) a divinizzare impropriamente il progresso tecnologico.”

“Se ci pensate, nell’immaginario collettivo, l’incontro con gli extraterrestri è sempre concepito con caratteri di eccezionalità, in positivo o in negativo, (…) non soltanto per quanto il fatto (a cui in ogni caso il 99,9 % dell’umanità continuerebbe a pensare per non più di qualche mese, a dir tanto) rappresenterebbe in se stesso, ma anche e soprattutto per le modalità concrete del suo svolgersi. Insomma, noi ci possiamo immaginare, e di fatto ci immaginiamo, tale incontro come l’inizio di una nuova era meravigliosa o di una guerra terrificante, ma semplicemente non riusciamo (voglio dire che facciamo fatica anche sforzandoci) a pensarlo come qualcosa di deludente, cioè qualcosa che sul piano pratico finisse per lasciare le cose più o meno come prima. Allo stesso modo, possiamo pensare di ricevere molti generi di messaggi, come abbiamo visto, alcuni totalmente incomprensibili, altri invece capaci di spalancarci abissi prima neanche immaginabili; ma, di nuovo, quello che proprio non riusciamo a concepire è l’ipotesi di un messaggio banale (…) noi proiettiamo (indebitamente) su questo possibile incontro le nostre speranze e paure più profonde, rivestendolo in tal modo di una luce sacrale.”

“(…) Il sospetto che voglio insinuare è che questo tipo di mentalità abbia una certa presa, maggiore di quanto in genere si voglia ammettere, anche all’interno della comunità scientifica, e che il ricercare sistematicamente tecniche di comunicazione più complicate del necessario ne sia in qualche modo una spia. (…) personalmente ritengo che questo sia un atteggiamento controproducente, anche dal punto di vista del SETI stesso: e ciò non solo per le complicazioni aggiuntive che rischia di introdurre nell’elaborazione di un linguaggio effettivamente utilizzabile, ma anche perché una ipotetica civiltà aliena più progredita della nostra (non per questo necessariamente più saggia, ma forse almeno più ammaestrata dall’esperienza) potrebbe anche nutrire qualche remora a rivelare la propria esistenza ad un’altra che dimostrasse questa sorta di “sudditanza psicologica” nei suoi confronti, (…) a causa delle esagerate aspettative (e quindi delle inevitabili, successive delusioni) che si verrebbero in tal modo a creare.”


Tratto dalla relazione: Tra leggenda e storia: i linguaggi del SETI, di Paolo Musso, 6-7 Maggio 2000.