Chernevog, di C.J. Cherryh Schede libri

Chernevog


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CAPITOLO UNO

La neve cadeva fitta nel bosco, creando degli alti cumuli; era un mondo intatto, illuminato dalle stelle, nel quale anche una singola lepre delle nevi era importante… E proprio una lepre stava avanzando lentamente, dopo un lungo vagabondare, lasciando per qualche tempo sul manto bianco delle impronte, che più tardi sarebbero state cancellate dalla neve. C’era da domandarsi da dove venisse. E dove stesse andando.

Vi fu uno sbattere d’ali. Un gufo delle nevi si tuffò per poi alzarsi in volo, agitando le ali appesantite dalla sua preda. Le impronte si erano interrotte in un cerchio di neve smossa, dove si allargava una scura chiazza di sangue…

Sasha giaceva disteso con gli occhi aperti, il cuore che gli batteva forte, incapace di muoversi, incerto su dove fosse od in quale letto si trovasse.

Non sapeva che cosa ci dovesse essere di così inquietante in un sogno simile, o perché una macchia di sangue dovesse sembrargli tanto terrificante.

Giaceva disteso ad ascoltare le assi della casa che scricchiolavano sopra e sotto di lui, poi si fece coraggio ed infilò un braccio gelido sotto le coperte; seppe allora che quello era il letto che aveva nella casa di suo zio a Vojvoda.

Era la neve della foresta, la neve ammucchiata che faceva scricchiolare il tetto. Ma lui era al sicuro nel suo letto nella casa dei suoi amici, dove niente di male poteva entrare.

E dove non sarebbe mai entrato, fintantoché la foresta fosse cresciuta.

Era primavera. Un sussurro attraversò il vecchio bosco; era un fruscio di rami secchi, morti, uno stormire ed uno scricchiolio di fronde che giunse come un vento che montava, e fece si che Sasha sollevasse lo sguardo dagli alberelli che stava piantando. Il frastuono praticamente si interruppe sopra di lui, poi vi fu un ultimo schianto di piccoli rami, ed una pioggia di fuscelli e frammenti di corteccia gli cadde sul capo.

Lui si drizzò, scuotendo via i detriti dal cappuccio e dal cappotto, poi si riparò gli occhi da altri eventuali frammenti, e scrutò verso la luce. Un ramo enorme e particolarmente fronzuto si staccò dagli altri e cadde: non fu una caduta a capofitto, a dire la verità, ma un rapido fluttuare verso il basso che schiantò altri rami e fece piovere altri pezzi di corteccia. Una creatura massiccia, coperta di squame, si era sistemata come una protuberanza vivente nel tronco di un albero morto da lungo tempo.

«Misighi?», chiese Sasha. Di certo assomigliava a Misighi: era ricoperto di licheni, ruvido, e molto, molto vecchio, anche secondo il computo degli anni dei leshy!

«Si, sono Misighi.» La sua voce era il profondo sussurro del bosco. Con un altro fruscio allungò le sue innumerevoli dita fatte di rami e toccò in modo tremulo la spalla di Sasha. Quindi le dita si chiusero gentilmente sul braccio del giovane che si girò a guardare un largo occhio, leggermente folle. «Salute!», borbottò. «Salute! Giovane Stregone, odori di betulla!»

«Sembri più giovane ad ogni primavera!», disse Sasha, dando dei colpetti sul ruvido tronco di Misighi. Era vero: Misighi prosperava come un vecchio albero dal cuore improvvisamente rinverdito, un vecchio albero selvaggio che cresceva inaspettatamente bene grazie ad un piccolo aiuto che aveva ricevuto nel giardino situato nei pressi del bosco.

«Betulle…», disse Misighi. «Questo è un luogo buono per le betulle».

«Tutto questo lato del fiume è buono», rispose Sasha, indicando con un dito e pensando a come sarebbe stato il fiume, quando lui avrebbe avuto molto più di diciotto anni. Adesso c’erano solo alberi morti, ed il fiume scorreva attraverso radici che non facevano più presa sul suolo. Però il bosco richiedeva un duro lavoro, macchia per macchia, a cominciare dal centro ed andando verso l’esterno; l’autunno precedente erano cresciuti degli alberelli, salvati dall’ombra cupa che si stendeva più a monte.

«Radici da far attecchire,» borbottò Misighi. «Betulle e pini. Radici e rami; si, giovane Stregone».

«Va tutto bene, Misighi?»

«Radici e rami. Le promesse sono state mantenute. Sono state tutte mantenute!»

A volte si poneva delle domande. A volte, di notte, quando i dubbi crescevano più spontanei, pensava ad un boschetto, ad una pietra circondata dai rovi, e ad un giovane addormentato su quella pietra…

A volte, quando i leshy venivano a fargli visita così improvvisamente di giorno, provava una certa inquietudine per quel luogo, e per la sicurezza di loro tutti.
Però sembrava che Misighi fosse venuto a fargli visita per nessun’altra ragione che non fosse l’amicizia e la curiosità. Poi il leshy si staccò bruscamente dalla foresta, muovendosi un momento così rapidamente che l’occhio riusciva appena a vederlo avanzare, ed un altro così lentamente che sembrava librarsi sopra gli alberelli che Sasha si era sporto ad osservare da vicino.

Era vero: i piedi dei leshy erano rivolti all’indietro.

«Ben fatto, ben fatto!», disse Misighi riguardo alle giovani betulle. E

poi: «Lui… si. Lui dorme. Dorme!»

Sasha si tolse il terriccio dalle mani, infilò i pollici nella cintura con una contrazione infastidita dalle spalle e pensò ad una domanda a lungo trattenuta, che non aveva mai rivolto a Misighi. Adesso però la sussurrò, pensando alla pioggia, alla neve dell’inverno, ed al passare del tempo: «Lui soffre? Sente il freddo?»

Misighi scosse le sue numerose dita con un suono simile al fruscio del vento attraverso i cespugli, e Sasha ebbe immediatamente la visione del volto di un giovane addormentato, con i fiocchi di neve che prima toccavano e poi si scioglievano sulle sue ciglia scure, e si posavano delicatamente sulle sue guance pallide, sul naso e sulle labbra. Quel giovane addormentato non mostrava alcun segno di cambiamento o di decadimento.

Avrebbe desiderato che fosse cambiato, o di poter vedere soltanto il bianco delle sue ossa sferzate dalla pioggia, e sapere così che non c’era più pericolo. Si sentiva in colpa per quella speranza; ma che ci potesse essere della sofferenza, questo no, non poteva davvero desiderarlo, ed era irragionevolmente sollevato per il fatto di essere sicuro che non vi fosse alcun pericolo.

Però, sia la pietà che la curiosità, erano terribilmente pericolose.

«Percepisco dell’inquietudine,» disse Misighi. «Perché?»

«È stato il vederlo,» disse Sasha. «Ed il pensare a lui. Misighi, perché sei venuto?»

«È stato l’odore delle betulle,» rispose Misighi, il che era quasi vero: Misighi aveva evidentemente avuto l’intenzione, né più né meno, di vedere che cosa stessero facendo i suoi vicini da quando la neve si era sciolta. Lui andava e veniva in quella foresta, e la primavera e la riva del fiume con delle nuove betulle erano una cosa importante per quella vecchia creatura, i cui boschi erano interamente spariti tanto repentinamente. Misighi si preoccupava di ogni singola foglia.

Poi, d’improvviso, Misighi disse: «Arrivederci!», dato che ormai aveva visto tutto quello che era venuto a vedere. Risalì a velocità fulminea lungo il tronco morto e se ne andò facendo un baccano grande quanto quello che aveva fatto al suo arrivo.

Misighi era ancora un po’ arrabbiato; bisognava che se lo ricordassero.

«Arrivederci!», gridò Sasha, agitando il cappuccio, e forse Misighi lo udì.

Dopodiché, il giovane raccolse il canestro ed il bastone che usava per scavare, e si spostò lungo il fiume, per piantare degli altri alberelli.

«Ho incontrato Misighi,» disse ai suoi amici quella sera, quando fece ritorno alla casa vicino al fiume. Riferì anche il fatto che Misighi stava bene.

Però tenne per sé quanto Misighi gli aveva fatto vedere nella visione.

Nevicava. C’erano delle lepri nei boschi, le prime da quando la foresta era morta. Pyetr spiava una volpe in caccia, ed Eveshka stava curando un topo di campagna mezzo congelato che si trovava in una cuccia di stracci sistemata a fianco del camino.

Ramoscelli e legna da ardere erano impilati vicino alla vecchia casa del traghettatore, così come dei ceppi interi, che venivano raccolti fintantoché si fossero rivelati utili. I leshy portavano tutto ciò che raccoglievano nella foresta morta: si poteva vederli, alcune notti, alti come gli alberi alla luce della luna, ed ingannavano facilmente l’occhio se non si era abituati alle Creature della Foresta ed ai loro trucchi.

«Potremmo costruire una sauna,» le disse Pyetr, battendo i piedi sulla veranda, il viso intirizzito dal freddo, ed i capelli biondi cerchiati da una corona di ghiaccio attorno al cappuccio. «Dovremmo proprio fare una sauna. C’è un sacco di legno da usare per il tetto…»

La nebbia gravava sul fiume e sul sentiero oltre il vecchio traghetto, dove gli alberi si levavano come fantasmi.

Torna indietro! Udì suo padre che la chiamava, e seppe che, se avesse ignorato il suo avvertimento, sarebbe morta. Però, in quel sogno, lei continuava a…


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