Cosa fa un supervisore all’animazione? Qual è il ruolo e il peso dell’animazione nel panorama creativo italiano? Roba da gladiatori: portatevi la clava, ce lo dice Silvano Mezzatesta.
Questa volta entriamo nel vivo dell’animazione, no… non quella del villaggio vacanze, ma la vita decisamente ‘animata’ di chi lavora nel mondo dei cartoni e per giunta deve supervisionare un cospicuo team di creativi alle prese con le incoerenze del mercato, i tempi risicati e la chimera della qualità. Per Terre di Confine la parola va a Silvano Mezzatesta, artista e professionista attivo da decenni nel settore.
Furio Detti | Come si diventa supervisore dell’animazione? In cosa consiste il tuo lavoro? Si passa immagino dal lavoro di animatore ma poi…
Silvano Mezzatesta | Io ho cominciato la carriera in modo un po’ particolare. Ho iniziato come ‘professionista-non-professionista’, nel senso che appena uscito dal liceo artistico sono stato assunto come animatore praticamente a mia insaputa, ossia sono entrato in uno studio di animazione per la bontà del mio segno ma del tutto privo di ogni nozione tecnica sull’animazione in quanto tale. Quest’ultima l’ho imparata strada facendo grazie a una buona insegnante, Yoshiko Watanabe, con cui ho collaborato per tre anni. Ho quindi esordito come animatore autodidatta, negli anni Novanta, quando era ancora possibile iniziare il mestiere in questo modo. Le prime esperienze di supervisore le ho avute invece quando ho maturato una scioltezza tecnica e una capacità di giudizio sul lavoro altrui tale da permettermi di fare questo salto professionale. Il supervisore, fondamentalmente, ‘risolve problemi’ e riscuote la fiducia delle persone con cui opera e di cui studia, migliora e coordina il lavoro. La fiducia delle persone, degli animatori, che quindi ascoltano i tuoi consigli, è fondamentale. Il riconoscimento non vale una medaglia, ma ti dà la capacità di migliorare le prestazioni di un team di animatori. Piano piano diventi un supervisore affidabile, credibile, rispettato.
FD | Hai detto che negli anni Novanta iniziare come hai fatto tu un percorso del genere era ‘ancora possibile’: in che senso, e che cosa oggi è cambiato?
SM | Sono cambiate le forme tecniche di produzione. Una volta si disegnava sulla carta con il piano luminoso; occorrevano una buona mano, naturalmente, e una buona testa, capace di assorbire velocemente le informazioni e trasferirle sulla carta. Oggi la tecnologia ha cambiato tutto: i tempi di produzione si sono accelerati, i costi si sono abbattuti, è ora possibile aggiungere nuovi elementi all’animazione. Ci sono aspetti tecnici decisamente più stimolanti, ma complessi. Il processo è divenuto più difficile, molto più difficile da gestire. Tutto questo chiede all’aspirante animatore un background più maturo e delle competenze più avanzate che in passato. Se riesci di questi tempi a diventare animatore iniziando da zero come ho fatto io anni fa, beh… allora devi essere proprio bravo.
FD | Hai distinto quindi la tecnica dal segno grafico. Sul piano tecnico, quali sono gli errori più comuni e quali i punti critici del lavoro di squadra richiesto dall’animazione?
SM | In questi ultimi anni – ma la mia è una critica assolutamente personale, per quanto insegnando animazione da anni ho le mie idee consolidate – penso che l’animazione in Italia sia stata decisamente sdoganata. Quando ho iniziato io, da noi non esisteva alcuna cultura specifica sull’animazione; oggi invece si attribuisce la qualifica di animatore anche a chi è capace di creare un loop minuscolo in Flash, o un personaggio che fa due cicli e fine… Chiunque può dirsi animatore, e peraltro non esiste una qualifica specifica di ‘animatore’. Nessuno ti qualifica professionalmente in modo preciso. Questo è il problema! Cosa significa ‘animare’? Secondo me è la capacità di immaginare in termini visivi, coerenti certo con il tuo pensiero, il tuo mondo creativo e le tue idee, ma anche capaci di trasferire le emozioni a chiunque altro. Se l’animazione non produce le medesime emozioni che l’autore prova si prefigge di trasmettere, semplicemente non funziona. L’animazione è una sensazione visiva che va data in pasto a più persone possibili. Se il tuo personaggio fa ‘Buh’ in sala e si alzano di scatto cinquanta persone, la cosa funziona. Se invece se ne alza in piedi una sola…
FD | …c’è qualcosa che non gira giusto.
SM | Sì. Qualcosa non va. Molti animatori si basano sul loro giudizio personale, ma è fondamentale saper stare col cervello acceso, fare paragoni e avere l’umiltà di imparare da tutti. Io, insegnando, continuo tutt’oggi a imparare, da dieci anni. Ho dato, e ho ricevuto anche. Devo farlo per dovere professionale. L’animatore completo deve essere lucido nel giudicare il suo lavoro e nel valutare come risolvere le esigenze e gli aspetti tecnici più rilevanti.
FD | Come giudichi la cultura sull’animazione italiana? Qualità o quantità? È corretto affermare che molti generi, anche di moda, come per esempio l’animazione giapponese, pur sdoganata, fatichino a imporsi in modo capillare? Esiste un mercato dell’animazione in Italia?
SM | Tu parli di mercato. Ma in Italia non c’è un vero mercato dell’animazione. E parlare di tutto questo è abbastanza complesso. Intanto si punta più sulla quantità che sulla qualità. Che non ce la fa a uscire. Per forza di cose. Siamo un paese che da sempre non ha mai puntato al pubblico. Nel 90% dei casi – sembra un paradosso assurdo, ma è così – non si produce per un pubblico. Come un ristorante che cucina, ma non apre ai clienti e, a fine serata, butta tutte le portate nella pattumiera. Una cosa abbastanza clamorosa, ma qui in Italia purtroppo molte cose, troppe, sono clamorose. E l’andazzo è questo anche nell’animazione. Si creano idee qui, si imbastiscono preproduzioni in Italia, poi però si sbatte tutto a produrre in Cina. Non voglio certo farne una colpa agli animatori cinesi, loro non c’entrano, è solo un fatto di convenienze: sono veloci e producono a bassissimo costo, indipendentemente da quello che devono produrre. Si punta solo al consumo rapido…
FD | …un fatto di filiera.
SM | Sicuro. Ma è una filiera malsana. Come insegnante, vedo veramente tanti talenti italiani, ragazzi che potrebbero realizzare, e a prezzi estremamente contenuti, cose notevoli se solo avessero le orecchie giuste ad ascoltarli e il sistema giusto per produrre. Ma tutto viene fatto a migliaia di chilometri, quando e se va in produzione. Sull’animazione giapponese, un tempo mi chiedevo perché fosse così sobria nella resa delle espressioni, talvolta persino rigida, fredda, piuttosto scollata o molto limitata nella mobilità rispetto a quella occidentale. È stata Yoshiko a spiegarmi bene: guarda come si muovono i Giapponesi! Non gesticolano. Parlano con la ‘bocca a parte’.
Noi Italiani parliamo continuamente col corpo! Naturale che la loro animazione riflettesse il loro modo di muoversi e agire, la loro cultura gestuale, molto compassata. Ovviamente adesso c’è una varietà maggiore di studi e di animazione. Persino Miyazaki, dalle masse, quasi non viene neppure ritenuto un ‘giapponese’. Lo scenario certamente si è evoluto anche per loro.
FD | Senti, si ha l’impressione che il collo di bottiglia, più che nella produzione e nella fatica di assemblare un team, si produca all’atto del rilevare il riscontro da parte del pubblico e la resa economica del prodotto. Persino produzioni di autori approvati, riconosciuti, e su personaggi ormai abbastanza di culto, come ad esempio Ratman, di Leo Ortolani, pur appaltate ‘velocemente’ all’estero e pur entrate in fase di realizzazione e persino di messa in onda, si sono poi arenate alla prova dei fatti. La RAI ha sospeso la programmazione della serie per scarsi ascolti Auditel. Questo cosa comporta in termini di scoraggiamento per un animatore?
SM | Guarda, per incoraggiare un animatore basta poco. Come allungare un pezzo di pane ai piccioni: gli animatori corrono al volo non appena si apre uno spiraglio per lavorare e realizzare le loro visioni. Il punto è che scoraggiarlo è altrettanto facile. Il discorso sta a monte. Parlando in generale, in Italia, almeno per l’animazione, non si fanno mai indagini serie di mercato. Per giudicare un’idea, un progetto, si interpellano produttori, coproduttori, produttori associati e case di distribuzione, ma non si interpella mai il pubblico e non si guarda mai quello che sta girando al momento. In Italia c’è un problema culturale, non tanto e non solo nel senso generale del termine, quanto nel senso che manca proprio la competenza specifica e produttiva sulla filiera dell’animazione. Si pensa di saperci fare, ma non è così. C’è persino gente che pretende di serializzare da subito, senza fare uno straccio di valutazione dei costi. Una cosa paurosa! Quando pure, poi, conosci il costo di una serie, non fai nulla per garantirti la continuità produttiva e la qualità del prodotto. Io ho fatto la supervisione agli storyboard di un film sui gladiatori di prossima uscita per la Rainbow CGI…
FD | Titolo?
SM | Born not to Be Gladiators. È stato presentato in anteprima a Cannes. Dicevo… ho supervisionato l’80% degli storyboard e poi ho lasciato la cosa in mano ai miei ex allievi, ma non per tagliare i costi – loro erano pagati direttamente da Rainbow – ma per assicurare una continuità di stile, di qualità e per lasciar lavorare altri talenti. La Rainbow, nelle sue produzioni, ha avuto l’intuito di lavorare sul merchandising. Questo è il loro prodotto, la loro immagine. Anche se forse avevano iniziato a lavorare ancora inconsapevolmente su questa tipologia. Resta il fatto che l’animazione riguarda personaggi già amati dal pubblico di riferimento, e ovviamente la serie animata va da sola.
FD | Un’ultima domanda. Quale storia ti è rimasta nel cuore e vorresti vedere animata, da te o da qualcun altro?
SM | Da ragazzino io ero affascinato dalla Divina Commedia. Con i dovuti adattamenti, tagli, aggiustamenti, arrangiamenti sul tema, con le scelte del caso, non mi dispiacerebbe vederla anche trattata per un pubblico magari più maturo e meno infantile. Credo che l’universo dantesco abbia infinite e strabilianti possibilità di espansione grafica e visiva, con un taglio personale ed estremamente avvincente. Più in genere, il mio sogno per adesso è di lavorare a una produzione che abbia un senso vero: dove il lavoro di chi ci mette l’anima come noi viene rispettato. Sia artisticamente che… economicamente. Dispiace perché sembra sempre di fare discorsi ‘un tanto al chilo’, ma qui in Italia siamo sempre troppo timorosi di parlare degli aspetti economici del mestiere. Parlare dei soldi. E veniamo bistrattati su questo come su ogni altro fronte.
FD | Spesso, mi pare, è un timore incoraggiato da chi deve allentare i cordoni della borsa: “Ti faccio produrre il tuo sogno! Cosa pretendi? Anche di essere pagato?”.
SM | Ah sì! Ti faccio un piccolo esempio. Nel ’92 lavorai per un progetto nel quale chi ci retribuiva riusciva addirittura a farci pesare il compenso dicendoci: “Ringraziate il cielo che vi paghiamo, perché voi fate un lavoro che vi piace!”.
FD | Penso che tanti di noi abbiano presente la cosa… Grazie di cuore per l’intervista, la passione e l’entusiasmo che dimostri. In bocca al lupo per il lavoro.
SM | Grazie a voi. Davvero.