Future Boy Conan

Conan, il ragazzo del futuro

Nella sequenza dei titoli, in poche scene viene riassunta la distruzione della civiltà umana: enormi bombardieri solcano i cieli, sorvolando città (prese di peso dal film Nel 2000 Guerra o Pace, 1936) che eruttano in fiamme.

Un pugno di malcapitati tenta con un razzo (molto retro-futuristico) di sfuggire alle esplosioni che devastano il pianeta, ma ripiombano nell’atmosfera nella quale imperversano cicloni colossali.

Il tremolio dell’inquadratura ci lascia intuire un frastuono devastante, che tuttavia rimane solo un’immagine muta.

Poi, semisommerse nel mare, vediamo città distrutte divenire scogliere che si ripopolano di pesci; e un paesaggio sul quale si staglia la sagoma di un’isola con il razzo conficcato malamente, e… l’ipotesi di una rinascita: due ragazzi su una canoa.

Si va a (ri)cominciare…

L’anno è ora il 2038; il giovane Conan, figlio dei sopravvissuti allo schianto del razzo avvenuto trent’anni prima, ha vissuto fino all’adolescenza solo sull’isola, con un “nonno” che si è preso cura di lui.

L’arrivo di una giovane naufraga misteriosa di nome Lana, e, successivamente, di loschi figuri che rapiranno la medesima, porrà drasticamente fine all’infanzia del protagonista. Perduto il nonno ucciso dai malvagi, Conan si metterà sulle tracce di questi ultimi per salvare colei che, di fatto, è rimasta l’unica persona che conosca al mondo.

La ricerca lo trascinerà in mezzo a un complicato confronto fra le due “società” che si fronteggiano, ultime schegge superstiti del vecchio mondo. Da una parte abbiamo Indastria (originariamente Industria), società ipertecnologica ma morente, senza volto, fondata su un’ampia base di lavoratori-schiavi che mantengono in moto macchine delle quali si sta dimenticando il funzionamento e per le quali non c’è più energia; una società che fabbrica il pane con i rottami di plastica e che si affida a un’archeologia di rapina per recuperare tecnologie funzionanti.

Dall’altra Hyarbor (era High Harbor), comunità rurale a bassissimo impatto, popolata di allegri contadini che lavorano duro e si godono la vita per ciò che possono, apparentemente senza ausili meccanici.

Suo malgrado, il ragazzo diverrà l’ago della bilancia in questa contrapposizione, mentre, sullo sfondo, stravolgimenti ambientali sempre più inquietanti – forse innescati da un cambiamento dell’asse terrestre – preannunciano l’arrivo di una colossale catastrofe.

La Prima Volta di Miyazaki

Mirai Shounen Konan (1978), nella versione italiana solo Conan (successivamente riedito come Conan, il Ragazzo del Futuro) è l’unica serie televisiva pienamente accreditata a HAYAO MIYAZAKI, l’ex intercalatore della TOEI divenuto il regista/soggettista più amato dell’animazione mondiale, come certificato dal successo ai botteghini dei suoi lungometraggi e dalla vasta ed autorevole selezione di premi ricevuti dalla critica mainstream.

La serie è basata sul romanzo The Incredible Tide, un’opera minore della produzione di ALEXANDER KEY; un titolo dalle forti tematiche sociali e ambientali che, proprio per questo, deve aver attirato Miyazaki, il quale – come sua abitudine – lo adatta molto liberamente, pur senza intaccarne il nucleo.

Per questo progetto, Miyazaki riveste i ruoli di sceneggiatore, disegnatore di personaggi ed elementi meccanici, coordinatore principale dei layout e dell’animazione e anche, per la prima volta, regista.

Il risultato di questo “debutto” è tutt’altro che trascurabile.

Oggi, a trent’anni suonati, Conan rimane una delle migliori produzioni fantascientifiche destinate a un pubblico di adolescenti.

Come accade di solito con i lavori di Miyazaki, il prodotto è tanto curato e ben definito che sarebbe eccellente in qualunque format: come film, come telefilm, come animazione, come radiodramma…

La solidità della storia e l’efficacia di situazioni e dei personaggi sono intoccabili; difficile immaginarne un remake, un tentativo di miglioramento. Mirai Shounen Konan II – Taiga Daibouken, un improbabile sequel in 24 episodi prodotto dalla NIPPON ANIMATION nel 1999, non ha di fatto lasciato tracce nel panorama dell’animazione giapponese.

Sfruttando con sottigliezza le potenzialità del cartone animato, la serie soddisfa lo spettatore visivamente, al contempo la sceneggiatura ne mantiene sveglia l’intelligenza offrendo protagonisti “tridimensionali”, capaci di evolvere e mutare, di conquistarsi uno spazio nella trama, coinvolti in una storia complessa ma non cervellotica, punteggiata di colpi di scena e di momenti memorabili.

La regia è precisa, originale, e le scene d’azione sono ben coreografate e sufficientemente imprevedibili.

La serie arrivò in Italia agli inizi anni Ottanta, durante la prima grande fase di esplosione dell’animazione giapponese sulle reti private nazionali, e rappresentò una netta rottura rispetto alla dieta di cartoni animati a base di robot giganti destinati al pubblico maschile o di maghette e orfanelle rivolte a quello femminile. Nonostante la canzoncina leziosetta della sigla, bastavano le immagini dei titoli di testa per capire che Conan non era Heidi e non era Goldrake.

Era Fantascienza, di quella vera.

In molti rimanemmo ipnotizzati davanti allo schermo.

Un buono in un mondo di buoni

I personaggi dei romanzi di Alexander Key sono frequentemente adolescenti dotati di poteri paranormali – come nel caso dei protagonisti del ciclo di “Witch Mountain” (portato sullo schermo da Disney in due film e oggetto di un recente remake).

In mano a Miyazaki, gli ipotetici poteri paranormali di Conan divengono passivi, e lasciano il posto a una più semplice e cinematica prestanza fisica oltre i limiti dell’umano: Conan ha una capacità di apnea da balenottera azzurra (lo scopriamo nel primo episodio, durante il lungo e spettacolare duello subacqueo contro lo squalo), possiede una forza colossale, è pervaso da un appetito pantagruelico, è sorretto da una costituzione di ferro e dimostra un’agilità da ninja anfetaminico.

Onesto, leale, pronto a sacrificarsi per gli altri, Conan è ingenuo ma non stupido: è un buono in un mondo di buoni, taluni semplicemente incattiviti, e la forza del suo personaggio sta anche e soprattutto nel non credere nella malvagità altrui.

Le caratteristiche così elencate ne farebbero un personaggio insopportabile nelle mani di uno sceneggiatore meno dotato, ma la serie salva la leggerezza (e la simpatia) di Conan ritraendo sempre i suoi exploit in termini quasi comici. Come certe acrobazie di Jackie Chan, le imprese superumane del ragazzo non strappano – se non ai più cinici – un grugnito di incredulità ma piuttosto un sorriso per lo stile quasi buffonesco in cui sono presentate.

Le gag visive sono molte, disseminate nel corso della serie, e spesso ne addolciscono una certa innegabile cupezza (è difficile descrivere la fine della civiltà senza dover mostrare alcuni luoghi oscuri).

Sul fronte dei protagonisti è casomai la controparte femminile di Conan, Lana, a uscire dal confronto un po’ sciapa e un po’ irritante, sempre bisognosa di soccorso, sempre sconvolta dall’orrore di ciò che sta accadendo, spesso ridotta a un “plot token”, sballottata fra salvatori e rapitori.

Ma è nei personaggi secondari che la scrittura di Miyazaki brilla, e si lascia il modello di Key alle spalle senza fatica. Soprattutto personaggi “negativi”, come il capitano Deis e il suo equipaggio di cialtroni, o come la comandante Monsley, sono tratteggiati con tale simpatia e freschezza che la loro redenzione finale non arriva come una sorpresa ma come un sollievo; e lo stesso malvagio amministratore Lepka, Primo Cittadino di Indastria, unico vero malvagio irredento dell’intera storia, non può non suscitare una scintilla di compassione nella sua ultima scena.

Per i meno ingenui

Anche per un pubblico un po’ più smaliziato, Conan riserva alcuni punti di interesse.

Il primo è certamente la rappresentazione del mondo dopo la scomparsa di gran parte del genere umano; un pianeta che si sta lentamente riassestando e nel quale è lecito sospettare che il posto dell’umanità – ammesso ci sia ancora – sia stato radicalmente ridimensionato.

Paesaggi e fondali vengono utilizzati per sottolineare l’alienità del nuovo mondo, offrendo vasti scenari di città in rovina sommerse dai flutti o invase dalla vegetazione, mari color ardesia costellati di trombe marine, deserti nei quali si susseguono colonne di carri armati fossilizzati, tetri complessi sotterranei dove intere comunità sono andate a morire.

C’è poi, inserita nel dialogo e lasciata in sottofondo, la questione irrisolta del rancore della generazione dei sopravvissuti verso la precedente generazione responsabile alla guerra.

Non a caso i cattivi sono tutti fra i trenta e i quarant’anni, perciò bambini durante il conflitto.

Lepka, Deis e Monsley, per quanto salvati a suo tempo dai benevoli scienziati che progettarono Indastria, non possono nascondere una ostilità profonda verso coloro che vedono comunque come i responsabili di gran parte dei loro traumi. La capacità di indirizzare e “cavalcare” questa ostilità è certamente uno degli strumenti che permettono a Lepka di dominare su Indastria.

Si può affermare che è questo confronto generazionale – dal quale Conan ed i suoi coetanei sono esclusi – il vero nocciolo “ideologico” della serie.

E tuttavia, sul piano ideologico, Miyazaki è abbastanza sottile da evitare qualsiasi etichettatura esplicita.

È Indastria una roccaforte fascistoide e imperialista che marchia a fuoco i ribelli, importa rottami da colonie succubi, e usa tortura e terrore per i propri scopi? O è una degenerata società sovietica, coi suoi abiti unisex e la sua burocrazia impazzita, i suoi cittadini senza volto? C’è forse un accenno ad una struttura a caste?

E Hyarbor? È un paradiso anarcoide e “verde” dove regna la libera espressione? Oppure è una società tradizionalista e patriarcale, con ruoli definiti e imprescindibili: gli uomini nei campi o per mare, e le donne a casa a cucinare?

Difficile appiccicare simboli o patacche colorate, per lo meno sulla base dei segnali che Miyazaki ci lascia intravedere. È vero, la longa manus di Indastria si chiama Monsley, nome mutuato dal romanzo di Key ma appartenuto anche al leader del Partito Fascista Britannico negli anni Trenta… Forse però è un voler leggere troppo in un dettaglio.

E se Indastria, con il bieco Lepka al timone, è malevola per definizione, pure nutre i semi della ribellione e di una possibile rinascita (tanto in personaggi come Deis e Monsley quanto nelle masse senza volto dei “proletari”), così come la libertaria e benigna Hyarbor ha nella banda di giovinastri capitanati da Uro i presagi di un futuro di degenerazione e d’anarchia.

Ed è curioso vedere che la colpa di tutti i cattivi e di tutti gli elementi devianti è la stessa: la nostalgia per il passato pre-bellico, l’accesso alla tecnologia percepito come strumento totalitario.

In questa situazione ideologicamente complicata e ambigua, Conan arriva a catalizzare gli elementi vitali delle due culture contrapposte, salvando di fatto il mondo, disinnescando i residui di ogni tendenza autodistruttiva.

La sua capacità di redimere coloro che lo conoscono, di portare armonia ed equilibrio, è forse più importante della sua prodezza finale, l’abbattimento del Gigante, l’ultimo superbombardiere, in volo per una missione tanto assurda quanto nichilista.

Ciò senza nulla togliere, naturalmente, alla lunga sequenza dedicata all’attacco al Gigante, una delle più grandi scene d’azione della storia dell’animazione, che Miyazaki riprenderà, due anni dopo, in un episodio della seconda serie di Lupin III (Le Nuove Avventure di Lupin III, 1977-1980), quasi una citazione scena per scena dell’originale.

Allegramente irriguardosa di fattori in fondo secondari quali la forza di gravità, l’aerodinamica o il moto dei corpi, la battaglia finale di Conan, spalmata su tre episodi per quasi cinquanta minuti, è assolutamente perfetta, infarcita da quel ridanciano eroismo che si vedeva nei film di cappa e spada. Solo nell’ultimo istante ci rendiamo conto, insieme col protagonista, che questa non è un’allegra cavalcata avventurosa ma un confronto all’ultimo sangue.

Coda

L’episodio conclusivo si intitola “Un grande cerchio”; Conan torna alla sua isola (ora una collinetta su un continente di fresco riemerso) insieme con tutti i suoi amici, per ricominciare da capo, mantenendo anche l’ultima promessa fatta al nonno. Tutti gli impegni presi, sono stati onorati, questa è la stoffa di cui sono fatti gli eroi.

L’isola, è intuibile, non sarà una nuova Indastria ma probabilmente neppure una copia carbone di Hyarbor. E se i cinici possono ricordare il cupissimo finale del racconto Nave da Preda di CYRIL M. KORNBLUTH – con la sua stringente matematica per cui, in capo a trenta generazioni, il mondo è destinato a tornare nuovamente sovrappopolato e cattivo –, dai titoli di coda di Conan sappiamo che tutti i nodi sono venuti al pettine, e possiamo confidare per un attimo in un futuro mondo migliore.

Nel 1979, dalla serie venne tratto un lungometraggio, con un finale diversamente strutturato, che non ci risulta sia mai arrivato ufficialmente nel nostro Paese e che pare essere considerato una rarità anche fra i fan della serie; nel 1984, i tre episodi finali vennero rimontati in un cortometraggio.

Il coinvolgimento di Miyazaki in entrambi i progetti pare essere marginalE

In entrambe le storie dominano le acrobazie volanti e gli ampi scenari, e in entrambe il tentativo di riportare in azione un’arma da guerra ormai dimenticata sortirà effetti catastrofici.

Eppure, se Mirai Shounen Konan impallidisce davanti all’eccellente pedigree scientifico-culturale e artistico di Kaze no Tani no Naushika, è innegabile che la serie del 1978, prodotto commerciale di alto livello, riesce a sfuggire a quella certa seriosità e malinconia propria invece del lungometraggio.

Preferire l’uno o l’altro dei due approcci è, naturalmente, una questione di gusti personali.