Penso che tutte le cose abbiano, almeno quello, un inizio. Comprese le mie ossessioni.
È noto ai più, per lo meno a coloro i quali non sono dominati dalla cultura delle sveglie, che il gocciolare dell’acqua può allungarsi e dilatarsi all’infinito. Se ci sai fare, puoi salire su una singola goccia e seguire tutto il tragitto, dal rubinetto al tubo dello scarico.
E se sei ancora più brava puoi sezionare la goccia d’acqua in frammenti sempre più piccoli, scomponendola nel microcosmo molecola dopo molecola, passando da un legame idrogeno all’altro e lasciarti andare giù, sempre più giù con le mani alzate al cielo inesistente, come quella volta insieme alla cuginetta, sulle montagne russe del Disneyland di Hong Kong.
Allora, tutto attorno a te diventa una galleria del vento, una specie di vortice che ti tira allo spasmo strappandoti via i vestiti, anche quelli intimi, e ti dà una sensazione di voluttà, molto simile all’orgasmo.
Ma il gocciolare, quella volta, almeno quella, fu accompagnato dalle note di “A big hung o’ love” e tutte le molecole, tutte, sembravano oscillare come il pube di Elvis in uno dei sei concerti tenuti in Canada alla fine degli anni ’50, gli unici fuori dagli USA.
Cos’era questa variazione sulla mia usuale depressione ossessiva maniacale mattutina?
Ci riflettevo senza trovarvi risposte e, nella riflessione – fenomeno fisico stavolta – della mia immagine capovolta sul cucchiaio della tazza del caffelatte, vidi la figura appesantita e danzante del Re passarmi alle spalle in un guizzo, come un’ombra bianca allusiva che conosceva, da sempre, il perché delle cose.
Lavarsi i denti, quando hai un disturbo maniacale, non è mai un’operazione banale. Se hai il cromosoma doppio Y, come me, il ritmo trascende e dai denti, lungo i seni, si propaga al basso ventre.
Lavarsi i denti è uno dei preliminari all’autoerotismo compulsivo. Ma il suono dello sfregare isterico delle spatole sulle mie gengive, quella mattina, era troppo, troppo simile a “Burning Love” nel concerto “Aloha from Hawaii” del 14 gennaio 1973.
Tralascio nel descrivere i miei avvistamenti sensitivi durante i bisogni fisiologici – oh se ci furono! – perché Elvis è troppo sacro per esserne associato, anche se soffriva, è noto, come me talvolta, da costipazione nervosa. Ma, sotto la doccia, udii uscire dal sifone le note di “Suspicious Mind”, nella versione del giugno 1972, al Madison Square Garden.
Lo vidi per intero la prima volta alle 10.26, in cucina, quando vi andai per prendere un bicchier d’acqua, l’unica mia vera decisione della giornata.
Era seduto con la chitarra in mano, la sua Guild F50 del 1968 facendo scricchiolare le gambe della sedia sotto il suo peso di 158 kg. Sudava e suonava la cover di Little Richard, “Tutti Frutti”. L’odore del suo sudore era acre.
Lo ascoltai per un po’ con la schiena appoggiata al frigorifero e gli parlai dei miei problemi. Scoprii come fosse molto introspettivo parlare con Elvis, e lui parve annuire, storcendo il labbro in alto, anche se in realtà non credo mi ascoltasse per davvero, ma seguiva senz’altro il ritmo interno, insieme a me, sul riff di Womp- bomp-a-loom-op-a-womp-bam-boom.
Incrociai più tardi la sua figura fuori al balcone. Mi osservava come un Alieno Grigio da dietro le fessure della serranda abbassata, dalle quali non riescono a entrare neanche le zanzare.
I suoi occhiali rossi riflettevano la luce del lampadario del salotto, acceso anche di giorno. Per la prima volta, pensai sul serio che mi avesse notata.
Per un po’ non si fece sentire. Ma la casa rimase un palcoscenico.
Elvis?
Forse era semplicemente dietro le quinte, e ne trassi spunto per riflettere sugli avvenimenti. Il mio Elvis era quasi sempre l’ultimo Elvis, quello decadente e umano degli anni ’70, sovrappeso e troppo icona di se stesso per sopravvivere alla leggenda.
Doveva pur significare qualcosa. Affrontai il problema in soggiorno, con un approccio ad ampio spettro.
Secondo la sua teoria dell’inconscio collettivo, Jung sosteneva la tesi che gli archetipi non sono dei semplici memi ma sono oggettivante elementi reali.
Già, ma cos’è reale? Elvis comparve allora sul sofà, accanto a me, quasi a irridere i miei pensieri, vestito in bianco, da Re, e osservava interessato una televendita di tappeti, l’unico genere di programmi che seguo alla TV.
Parve approvare quando un tappeto persiano, un Tabriz del 1975, forse un falso, fu venduto all’asta per una cifra spropositata. Elvis adorava i tappeti?
Riflettei osservando il fumo della sigaretta. Elvis non aveva mai fumato, forse il sigaro qualche volta, le sigarette di certo no, non si drogò mai ma dipendeva dai farmaci. Era depresso, come me. E il fumo si avvolse nelle note di “That’s all right” e la depressione sembrò, per un istante, fuggir via da me, come il gradiente d’aria attorno a un grattacielo.
Ma poi lo vidi di nuovo, ancora una volta, l’ultima. In cucina.
Davanti al frigorifero aperto, spalancato. La luce lo illuminava come sul palcoscenico e lui si muoveva ancheggiando mimando un rito quasi orgiastico davanti ai suoi proseliti, assorbendo emozioni e rilanciandole amplificate come un Generatore di Van der Graaf. Il Mito si era incarnato nel banale, tra la scelta di un’insalata e un soufflé, tra la busta del latte e i cassetti per la frutta. Era lì, il Mito. Il suo pubblico lo acclamava oltre la dimensione del reale, trascendendo lo spazio e il tempo. Da dietro le resistenze del frigorifero, molto lontano, ne sentii lo strepito, e il suo vestito bianco, da Re, s’illuminò ai bordi quasi fosse in preda a un’estasi mistica.
Restai a fissarlo per non so quanto tempo, perché il tempo stesso, in quegli attimi, che possono definirsi attimi solo per convenzione umana, non aveva alcun significato.
Pensai che una leggenda è sempre una leggenda, in ogni momento della sua vita, in ogni istante che respira. Anche là, davanti al frigorifero, lui era il Re, e quel frammento quantizzato, estrapolato, quell’incursione nella mia squallida giornata di ordinaria depressione, era prezioso e raro come e quanto ogni altro.
M’inginocchiai ai suoi piedi, in preda all’orgasmo, alzando le braccia al cielo, aprendo la bocca nella speranza di ricevere il suo seme.
Ma Elvis non si accorse di me e scomparve, all’improvviso, un attimo prima c’era, un attimo dopo non c’era mai stato.
Il frigorifero tornò allora a essere il frigorifero, la mia casa la mia casa, il banale riconquistò gli spazi perduti, il mito rimase ipocrita come il ricordo di un sogno, l’orgasmo inappagato.
Pensai che tutte le cose avessero, almeno quella, una fine. Comprese le ossessioni.