Cronache Marziane (The Martian Chronicles, 1950) di Ray Bradbury è un classico che esula dai consueti canoni della letteratura sci-fi, nonostante racconti in ventotto episodi la colonizzazione del pianeta rosso. L’autore lascia da parte ogni descrizione pseudoscientifica e privilegia l’introspezione dei personaggi, il lirismo e le speculazioni filosofiche. Proprio questi elementi hanno trasformato l’antologia in un classico senza tempo.
Nel 1980, il capolavoro di Bradbury è stato trasposto in una serie televisiva omonima trasmessa dalla NBC. In tre puntate il regista Michael Anderson narra la storia dell’arrivo degli Americani su Marte.
Preceduti dall’atterraggio di sonde, i terrestri sbarcano sull’arido pianeta. La prima spedizione viene sterminata da un marziano reso geloso dal contatto telepatico stabilito tra la sua compagna e un astronauta. Anche il secondo tentativo fallisce: i marziani uccidono i terrestri a tradimento. Durante la terza spedizione, l’involontaria disperisione dei germi del morbillo scatena il genocidio: gran parte degli abitanti del pianeta muoiono. Ormai dominatori del nuovo mondo, gli Americani demoliscono ogni vestigia del passato alieno e si installano in cittadine formate da container tecnologici. Lo scoppio sulla Terra di un conflitto nucleare induce però gli emigrati a far ritorno a casa in gran numero, nella speranza di salvare i propri cari. Quasi tutti periscono. Ai pochi superstiti resta soltanto Marte…
La narrazione procede in ordine cronologico e alterna momenti d’azione – tipici della vecchia fantascienza d’esplorazione spaziale – a pause introspettive e a significativi episodi di vita quotidiana. Così come i racconti originali di Bradbury, anche sullo schermo le varie vicende presentano differenti lunghezze. Alcune sono sviluppate per intero, altre vengono sintetizzate, oppure omesse. È il caso di Verranno le dolci piogge (There Will Come Soft Rains), storia di una casa automatizzata che continua a funzionare come se fosse ancora abitata, nel desolato dopo bomba che ha spopolato la Terra.
La sceneggiatura di Richard Matheson si dimostra assai rispettosa del testo, e proprio tanto rigore dovette lasciare spiazzati gli spettatori dell’epoca, abituati invece a trame autoconclusive sviluppate nell’arco dei singoli episodi. In Cronache Marziane molti personaggi vivono lo spazio di poche battute e altri si ritrovano a distanza di tempo, magari in brevi cameo. Non c’è un vero protagonista, sebbene le varie fasi della colonizzazione siano accompagnate dalle vicende del colonnello John Wilder. Inizialmente il militare gestisce le missioni dalla base spaziale terrestre, poi raggiunge i coloni e guida le operazioni necessarie a edificare dodici cittadine; infine, dopo aver invano tentato di salvare il fratello dall’esplosione nucleare sulla Terra, torna su Marte.
Le vicende degli altri personaggi si intrecciano. Uno dei primi astronauti riappare ai genitori, ma si tratta di un’illusione aliena basata sui ricordi dei due poveri anziani. Un ex militare che gestisce un diner in stile western ottiene dai marziani la proprietà di un largo tratto del pianeta, e più tardi, insieme alla moglie, sarà testimone dell’olocausto atomico. Un pilota di deltaplano a motore resta sentimentalmente deluso da una donna insopportabile conosciuta al telefono, e lo ritroviamo qualche tempo dopo ospite presso una famiglia apparentemente perfetta a in realtà composta da automi…
La sceneggiatura di Cronache marziane, inizialmente lineare, va poco a poco adattandosi alla complessità delle situazioni, e la vicenda si frammenta. Non è l’unica scelta azzardata: nel 1980 Guerre Stellari era ormai un fenomeno di costume, tutti s’aspettavano effetti speciali analoghi anche sul piccolo schermo. La fantascienza intimista di Bradbury era controcorrente rispetto alla moda e, nonostante descrizioni suggestive dedicate ai marziani dagli occhi dorati a alle loro meravigliose torri di cristallo, il testo raggiunge il suo apice artistico nei momenti riflessivi e malinconici.
La colonizzazione di Marte implica speculazioni sul rapporto tra scelte etiche e credi religiosi (Le sfere di fuoco), sull’identità etnica e culturale e sulle discriminazioni che possono derivarne (Su negli azzurri spazi), sul rispetto per il creato (La terza spedizione). Bradbury profetizza i possibili inganni generati dalle amicizie costruite a distanza (Le città silenti) e le illusioni che ci costruiamo pur di rifiutare una realtà inappagante o dolorosa (I lunghi anni). Tutti questi argomenti sono stati sintetizzati sullo schermo da battute e situazioni intimiste, lontane dai toni disimpegnati di una space opera.
La trasposizione ha rinunciato a effetti speciali costosi quanto superflui: le astronavi terrestri sono modellini appesi a cavi e i lanci dei razzi sono footage dei voli della NASA. I sorprendenti prodigi della tecnologia vengono mostrati il meno possibile. Le scenografie delle città dei marziani hanno il sapore estraniante delle prospettive delle piazze di De Chirico. Anche gli alieni sono ‘solo’ uomini calvi e privi d’orecchie, abbigliati con tuniche candide e maschere metalliche, chiusi in caverne tecnologiche o al comando di drakkar che scivolano sulle sabbie, o di globi luminosi.
La fotografia sobria e i colori spenti del paesaggio non potevano sperare di colpire l’immaginazione ingenua della platea degli anni Ottanta, abituata a costumi variopinti e panorami in technicolor. Marte viene descritto con tinte tenui, e solo gli oggetti e gli abiti terrestri si fanno notare per i colori accesi, sottolineando l’estraneità dei coloni a quel mondo.
La miniserie Cronache marziane ha tentato la difficile conciliazione tra le atmosfere elegiache dell’originale e il desiderio di intrattenimento tipico del mezzo televisivo; ma, nonostante qualche concessione al gusto corrente, era impossibile trasformare Cronache Marziane in un’opera di facile presa, dal momento che i budget contenuti delle produzioni tv impedivano di arruolare un cast di stelle e sbizzarrirsi con effetti speciali alla Guerre Stellari. Non c’era quindi motivo di sfrondare proprio gli elementi introspettivi e riflessivi. Il cast annovera, oltre a uno sfiorito Rock Hudson, un lungo elenco di ottimi caratteristi, ed è la loro bravura a coinvolgere gli spettatori.
La malinconia accompagna la conquista dello spazio: una civiltà si estingue inesorabilmente, l’altra si autodistrugge. I terrestri rimpiangono il loro passato, ma spremono ugualmente la loro nuova patria, cancellando ogni traccia dell’antichità ed esportando uno stile di vita nichilista. C’è ben poco di cui compiacersi in un futuro in cui gli Americani ripetono più volte gli errori del passato. La civiltà marziana, basata sulla ricerca dell’armonia, sul godimento responsabile del creato, sull’amore per la conoscenza, viene distrutta dalle malattie portate dagli invasori: è ciò che realmente è accaduto ai danni delle popolazioni native del Nuovo Continente. Le città fatte di container ripropongono i villaggi del vecchio West, l’indifferenza verso le culture indigene replica gli atteggiamenti dei cow-boy. Anche la colonna sonora entra nel tema, alternando brani sinfonici a rivisitazioni country.
Volutamente si elude l’episodio Il verde mattino, con vedeva il terrestre Benjamin Driscoll, fisicamente poco adatto alle dure condizioni del pianeta, decidere comunque di restarvi per piantare alberi, proprio come Johnny Appleseed, il pioniere dei racconti americani che percorreva il West seminando meli. Una figura troppo positiva in un mosaico di tipi umani oppressi dalla fragilità emotiva, condizionati dall’ignoranza e dall’ottusità culturale, smarriti nella solitudine di un mondo che forse mai apparterrà loro. La società dei coloni ripropone i drammi della storia americana e presenta gli stessi problemi vissuti dalle comunità rurali e dai piccoli paesi. Si accenna al dilagare della corruzione, e se non ci sono veri e propri crimini forse è solamente a causa del rapido spopolamento del pianeta.
Altro elemento inusuale di Cronache marziane: l’assenza degli eroi tipici del cinema di genere. Gli spettatori si ritrovano davanti personaggi comuni afflitti dal trauma dello sradicamento, non certo intrepidi astronauti alla conquista di Marte con tecnologia e coraggio. Anche il colonnello John Wilder, che inizialmente può ricalcare la figura del carismatico comandante di missione, mostra presto le sue fragilità. Non riesce a tener fede alla promessa d’impedire lo scempio del pianeta. Deve sottostare ai problemi delle piccole comunità e chiudere un occhio sul comportamento irresponsabile dei nuovi coloni. Nel momento estremo, si precipita sulla Terra per salvare i suoi cari ma arriva tardi. Nell’epilogo si rassegna a dire addio al passato. I superstiti sono pochi, la Terra sarà inabitabile per millenni, non resta che accettarlo e far tesoro dell’esempio dei marziani.
La malinconia dell’ambientazione, la narrazione intimista tanto lontana dalle avventure epiche, l’essenzialità degli effetti speciali delusero gran parte degli spettatori alla prima messa in onda. Lo stesso Ray Bradbury rimase insoddisfatto, probabilmente dalla resa approssimativa delle parti più liriche. O dalla scelta arbitraria degli episodi, o dal ritmo altalenante della narrazione, costretta a barcamenarsi tra le esigenze produttive e il desiderio di innovare.
L’operazione di tradurre il linguaggio poetico in immagini concrete rendendolo accessibile al vasto pubblico era già complicata in partenza. Compatibilmente con i mezzi a disposizione, lo scrittore Richard Matheson, in veste di sceneggiatore, dovette selezionare dalla raccolta di Bradnury solo alcuni episodi, con risultato ovviamente disomogeneo – anche se non certo un “mezzo fallimento” come invece si etichettò. Forse le pretese erano esagerate, e molti spettatori non conoscevano il testo di Ray Bradbury, tanto da porre imbarazzanti confronti con opere del tutto diverse. In Italia, inoltre, la miniserie andò in onda in versione più corta: 291 minuti anziché i 360 effettivi, un taglio davvero notevole. In alcuni Paesi si propose in forma di film, ulteriormente accorciata.
Ogni tanto sul web circolano voci di un possibile remake, ma Cronache Marziane è un’opera di fantascienza speculativa, distante dalla sensibilità del cinema di genere attuale. Purtroppo i rari soggetti fantascientifici a sfondo filosofico hanno incontrato sì il favore dei critici specializzati ma senza conquistarsi il consenso del grosso pubblico. Dopo i discutibili risultati del rifacimento di Solaris, targato Steven Soderbergh, è difficile attendersi una rivisitazione rispettosa del testo di Bradbury e della sua poetica.
Meglio forse riscoprire la miniserie di Anderson, che, pur dimostrando tutti i suoi anni, resta attuale nei temi affrontati.
Tit. originale: The Martian Chronicles
Anno: 1980
Nazionalità: USA | UK
Regia: Michael Anderson
Autore: Ray Bradbury, Richard Matheson
Cast: Rock Hudson (Colonnello John Wilder), Gayle Hunnicutt (Ruth Wilder), Bernie Casey (Maggiore Jeff Spender), Christopher Connelly (Ben Driscoll)
Fotografia: Ted Moore
Montaggio: Eunice Mountjoy
Musiche: Stanley Myers
Rep. Scenografico: Assheton Gorton(production design)
Costumi: Cynthia Tingey
Produttore: Andrew Donally, Milton Subotsky | Richard Berg, Charles W. Fries (esecutivi) | Charles M. Fries (associato)
Produzione: Charles Fries Productions, Stonehenge Productions, British Broadcasting Corporation (BBC), Polytel International Film