Contesto e genesi
La fine della Seconda Guerra Mondiale trova la Gran Bretagna sfibrata da anni di assedio nazista e gravata di un pesante debito con l’estero. La ex prima potenza navale ed economica del mondo inizia a smantellare il suo ormai anacronistico impero: nel 1947 ottengono l’indipendenza Birmania, India e Pakistan, e l’anno successivo le truppe inglesi abbandonano a un tormentato destino anche la Palestina.
Intanto pure nella vita della gente comune sono in atto mutamenti radicali. Nel 1945, la reazione all’enorme disparità tra ceti – uno dei tratti distintivi ma non più tollerabile della società inglese – porta al governo i laburisti, che varano un vasto programma di nazionalizzazioni e riforme sociali. È la nascita del Welfare state; malgrado le difficoltà quotidiane (i razionamenti restano in vigore sino al 1953), gli Inglesi ora guardano al futuro con grande ottimismo. È in circostanze come queste che l’inconscio collettivo cerca archetipi con cui esprimere aspirazioni e speranze…
Dal 1945, nella parrocchia di St James a Southport, opera Marcus Morris, un prete anglicano trentenne dinamico e ambizioso. Alieno dai dogmatismi ma convinto che sia dovere della Chiesa pubblicare letture educative e moralmente ineccepibili, Morris si è improvvisato editore stampando The Anvil, una curata rivista per famiglie, che però vende poco. Per vincere l’indifferenza del pubblico, il parroco pensa di ricorrere ai fumetti. In realtà, lo motivano anche altre ragioni. Negli USA è in atto la crociata dello psicologo Frederick Wertham, il quale accusa i comics di fomentare efferatezze e depravazione. Benché sia una tesi mal argomentata, il parroco la condivide in pieno. Oltre alla pornografia e al sadismo attribuiti ai poveri Batman e Wonder Woman (ma Wertham diffida persino di Bugs Bunny), a Morris spiace che i fumetti americani siano disegnati e stampati rozzamente; decide quindi di creare un settimanale, rivolto alla fascia d’età tra i 9 e i 14 anni, che offra qualità, personaggi irreprensibili e, soprattutto, storie avvincenti – perché, sebbene i suoi intenti siano educativi, da uomo pratico qual è sa che nessun ragazzo leggerebbe volentieri dei sermoni, per quanto proposti in forma di fumetto.
Coinvolge nel progetto Frank Hampson, un reduce (in guerra è stato autista di camion e aspirante pilota della RAF) poco più giovane di lui che dal 1948 collabora come disegnatore a The Anvil manifestando un talento non comune.
Hampson frequenta la Southport School of Arts and Crafts per migliorare la sua tecnica e acquisire un titolo di studio che lo agevoli nella ricerca di un buon impiego; nel frattempo, avendo una moglie e un figlio da mantenere, si dà da fare come illustratore freelance.
Il progetto di Morris lo entusiasma e i due si mettono all’opera, decisi a realizzare qualcosa di mai visto prima. Il maggiore apporto creativo è proprio di Hampson: è lui a definire la scaletta dei testi e dei fumetti e a disegnare il logo della rivista (il nome, Eagle, è frutto dell’inventiva di sua moglie Dorothy).
Hampson ammira Harold Foster, Milton Caniff e Alex Raymond, i maestri riconosciuti del fumetto d’avventura made in USA, dai quali ha appreso che l’eccellenza non deriva solo dal bel tratto: occorre anche padroneggiare il peculiare linguaggio dei comics. Sino allora in Inghilterra erano state prodotte storie composte da immagini slegate, legnose anche quando di buona mano: non è l’arte sequenziale – come poi la definirà Will Eisner – alla quale ambisce Hampson. Inoltre, da inflessibile perfezionista, egli è convinto che la sospensione dell’incredulità si ottenga solo quando le fisionomie, i macchinari e ogni minimo dettaglio appaiono realistici, anche grazie all’uso generoso del colore. Chi legge dev’essere affascinato da un mondo parallelo ma verosimile.
Alla fine, ha un’intuizione epocale: trattandosi di attrarre sin dalla prima pagina i lettori con immagini le più colorate e avvincenti possibile, quale genere può soddisfare questa necessità meglio della Fantascienza?
Ritenendo che alla Eagle serva un personaggio bandiera come attrazione principale, subito pensa al cappellano di una futuristica Interplanet Patrol; poi decide opportunamente di levargli il collare da prete per farne un colonnello pilota in forza alla Space Fleet dell’ONU, conservando però contesto, comprimari e nome dell’eroe. Nasce così Dan Dare, Pilot of the Future.
Quanto al resto della Eagle, sono previsti personaggi comici e avventurosi (prevalendo i secondi), biografie a fumetti, articoli scientifici. La rivista deve avere venti pagine, otto delle quali a colori. Su queste basi, nella primavera del 1949 Hampson inizia a comporre i primi menabò, associando all’impresa altri giovani artisti locali. Vengono completate le bozze di tre numeri e, con queste sottobraccio, uno speranzoso Morris affronta Fleet Street, a Londra, sede tradizionale degli editori inglesi.
Al parroco preme anche liberarsi dai debiti con le banche, causati dai passivi accumulati da The Anvil e dal fatto che sta pagando di tasca propria Hampson e il resto dello staff. I primi contatti però non sono incoraggianti. Gli editori maggiori, pur riconoscendone il valore, dubitano che il progetto possa risultare redditizio, stanti l’inusuale formato tabloid e la necessità di una stampa con un costoso tipo di fotoincisione (la photogravure) per garantire la resa migliore di disegni e colori. Ma caso vuole che in quello stesso periodo la Hulton Press, editore solido anche se non di primo piano, stia attraversando una crisi; così, quando Morris li approccia, i dirigenti della Hulton si convincono che la Eagle possa servire a superare l’impasse, e il 10 ottobre 1949 gli telegrafano di essere “definitely interested”.
Nei sei mesi che intercorrono tra quella data e l’esordio della rivista, Hampson, nominatone chief designer (con Morris direttore), lavora freneticamente per trovare disegnatori e sceneggiatori all’altezza, assumendo, insieme a validi professionisti, anche sconosciuti di talento, tra i quali spicca l’ancora inesperto Don Harley. La Hulton si adopera intanto per garantire successo all’impresa: oltre a pagare un buon stipendio a quelli che sono ora suoi dipendenti – e a risolvere i guai finanziari di Morris – fa costruire una rotativa capace di stampare in photogravure il milione di copie con cui s’intende far esordire la rivista e, per essere certa che vadano vendute, mette in atto una campagna pubblicitaria senza precedenti. Le cose parrebbero quindi volgere al meglio, sebbene, nell’entusiasmo del momento, Hampson trascuri un dettaglio che gli sarà foriero di conseguenze dolorose: Morris ha concesso alla Hulton la proprietà dei personaggi della Eagle, Dan Dare compreso.
Ad ogni modo, venerdì 14 aprile 1950 la Eagle debutta trionfalmente nelle edicole. Il milione di copie basta appena a soddisfare le richieste; in seguito la vendita si stabilizza sulle 750.000 copie alla settimana, una tiratura superiore a ogni previsione.
La Eagle è davvero qualcosa di mai visto prima, che entusiasma lettori di ogni età e ceto. Oltre a personaggi d’avventura ben rappresentati, offre articoli scientifici a misura di ragazzo, meravigliosi paginoni centrali con spaccati di fabbriche e macchinari (i celeberrimi cutaway, curati per lo più da Leslie Ashwell Wood, un maestro di questo tipo di disegno tecnico), biografie di personaggi storici, storie umoristiche, in splendidi colori, spesso acquerellati. Il tutto a opera di una redazione che si assesta sulle duecento unità. Il successo genera supplementi, annuals, tre pubblicazioni gemelle di pari qualità anch’esse dirette da Morris (Girl rivolta alle ragazze, Robin mirato alla fascia d’età tra i 7 e gli 8 anni e Swift inteso come raccordo tra Robin e la Eagle, per una tiratura complessiva di 2 milioni di copie settimanali) e un lucroso merchandising basato sui personaggi più apprezzati: Jeff Arnold, protagonista di un western maturo e realistico, splendidamente disegnato da Frank Humphris; il sergente della Legione Straniera francese Luke, eroe d’avventure tanto politicamente scorrette quanto trascinante; P.C. 49, un bobby già protagonista di un serial radiofonico scritto da Alan Stranks. Ma è Dan Dare a diventare la meraviglia nazionale oggetto di culto da parte di un’intera generazione.
Apoteosi e catastrofe
All’esordio della Eagle, Hampson disegna ben tre personaggi: Dan Dare, Tommy Walls (protagonista di una tavola che pubblicizza una marca di gelati) e San Paolo (nella biografia The Great Adventurer, una delle poche storie, in tutto cinque, di carattere religioso che la rivista presenterà). E dei primi due cura anche i testi. Ma premendogli occuparsi solo di Dan Dare, si sbarazza presto degli altri impegni. Per quanto strano possa sembrare, Hampson inizia la saga dell’eroe spaziale senza avere in mente una trama definita. Ha però idee chiare su contesto e personaggi e, volendo essere scientificamente inappuntabile (fatti salvi i diritti della creatività), si avvale dei consigli di Arthur C. Clarke, allora scrittore di Fantascienza agli esordi, voluto da Morris come consulente scientifico della Eagle; la collaborazione dura solo sei mesi, ma Clarke fa in tempo a pubblicare sulla rivista due racconti e a inventare un nome divenuto famoso: Treen. Sebbene la storia nasca puntata dopo puntata, a due tavole per volta, essa pone solide fondamenta a ciò che seguirà.
La prima avventura – l’unica senza titolo, battezzata ‘Voyage to Venus’ nelle ristampe – è ambientata nel 1996. Sotto il governo illuminato delle Nazioni Unite regnano pace e progresso; la Space Fleet ha raggiunto la Luna e Marte, e lo spazio circumterrestre è punteggiato di astronavi e stazioni spaziali. Eppure la Terra sta attraversando un momento critico, causato dall’eccessivo sfruttamento del suolo (sì, nel remoto 1950, Hampson già parla di ecologia). Incombe una carestia globale, e a Dan Dare tocca l’incarico di verificare se sia possibile ricavare cibo da Venere, pianeta supposto ricco di vita. Compiuto un difficile viaggio, l’eroe scopre che il globo è diviso tra due specie intelligenti, biologicamente e moralmente incompatibili. Ai Theron del sud, umanoidi angelicati e blandamente noncuranti, non spiacerebbe aiutare la Terra, ma esitano nel timore di irritare i Treen, spietati rettiloidi padroni dell’emisfero settentrionale, coi quali, dopo guerre millenarie, hanno patteggiato un fragile armistizio. Dare, catturato dai Treen, è condotto a Mekonta, loro capitale, dove scopre che essi sono assoggettati al Mekon, un nano macrocefalo e megalomane che ha in progetto di conquistare tutto ciò che può, a cominciare dalla Terra.
Dopo una complessa e avvincente serie di avventure, ricchissima di spunti (tra l’altro, impariamo che la nascita, in un lontano passato, del Mare Mediterraneo è una conseguenza del conflitto tra Treen e Theron), si giunge alla resa dei conti, una battaglia tra i Treen e una coalizione di Theron e terrestri combattuta nella piana prospiciente Mekonta. Il Mekon, scomparso nella mischia, è dato per morto e ai Treen non resta che arrendersi. Sono le ore 16,30 del 7 luglio 1996. Citare data e orario non è un vezzo: la saga di Dan Dare segue una ferrea cronologia, ogni episodio pone le premesse del successivo e deriva a sua volta da fatti precedenti, un’altra novità per l’epoca.
La continuity non è il solo espediente usato dall’autore per conferire verosimiglianza all’universo che va creando. Esso è anche retto da una inflessibile coerenza interna: le armi, le divise, le astronavi, i luoghi e ogni minimo dettaglio vengono stabiliti una volta per tutte e fissati in model sheet e riproduzioni in scala: c’è il plastico dettagliato del quartiere generale della Space Fleet; le tavole di riferimento coi tratti somatici, l’altezza, persino i dati anagrafici dei personaggi; i busti tridimensionali degli stessi; i panorami dei pianeti alieni e così via. Nulla viene trascurato, e il piano della casa di Hampson adibito a studio diventa un deposito di meraviglie.
Ma ciò non basterebbe a giustificare il trionfo del personaggio. Il primo irresistibile motivo di fascinazione proviene infatti dall’arte di Hampson, capace di creare immagini sempre sorprendenti per bellezza e inventiva. In secondo luogo l’autore si ispira ad avvenimenti ben vivi nella mente degli Inglesi: l’idea del mondo affamato rispecchia le recenti difficoltà patite dall’Inghilterra. L’intera vicenda descritta in ‘Voyage to Venus’ può essere letta come un’allegoria della Seconda Guerra Mondiale, con il Mekon (Hitler) folle e aggressivo, la Terra (l’Inghilterra) minacciata e allo stremo e i Theron (gli Americani) riluttanti a uscire dal loro edonistico isolamento.
Hampson poi, da mancato pilota della RAF, finisce col fare di Dan Dare un alter ego idealizzato, l’uomo che avrebbe voluto essere, come dirà in seguito. Il giovane colonnello della Space Fleet è fiero dell’impeccabile divisa che indossa e dei principi etici che ne conseguono. Una visione ingenua dell’esercito, ma in quel 1996 si regge sul presupposto utopistico che i politici cui il soldato deve obbedienza siano migliori dei loro omologhi in carne e ossa. Coraggioso e leale, Dare ricorre di rado alle armi e, tanto più subdoli e feroci sono i suoi nemici, tanto meno è disposto a imitarne i metodi. Non che rifugga dalla lotta, ma le sue vittorie sono frutto di spirito di sacrificio e premesse morali superiori. A loro volta, i terrestri sono permeati di spirito di tolleranza nei rapporti con gli alieni, anch’essi in genere mai ottusamente minacciosi. Agli stessi Treen tocca il ruolo di cattivi ricorrenti solo perché il Mekon esercita su di loro un ascendente negativo, dovuto a ragioni culturali. E persino la malvagia indole del Mekon ha una spiegazione ‘scientifica’ (è causata da una selezione genetica). Per l’autore, e per Dan Dare, insomma, ogni cultura ha le sue ragioni, comprese le quali accordarsi è possibile. È probabile che anche a questo riguardo a Hampson prema dirci qualcosa del mondo reale: tra i personaggi di contorno, che comprendono un Francese e un Americano, lui vorrebbe inserire pure un Russo, ma l’editore gli fa notare che, nel pieno della Guerra Fredda, non è davvero il caso.
È bene ribadire che nella saga non c’è traccia di pedanteria o moralismo: l’autore bada sempre ad avvincere e stupire. Tuttavia è anche uomo di grande sensibilità ed eticità laica (in un’intervista rilasciata ad Alan Vince dirà: “I’m not religious”), conscio della responsabilità che comporta il creare per i più giovani, e capace di superare i pregiudizi e i luoghi comuni del suo tempo. Un esempio è rappresentato da un altro personaggio ricorrente: la professoressa Peabody. Competente e sicura di sé, è tutt’altro che la donnina decorativa e in attesa perenne di essere salvata dall’eroe, com’è invece usuale trovarne nei fumetti di quel periodo.
Dall’opera di Hampson, oltre all’afflato umanista, promana un altro sentore particolare: Dan Dare, o meglio, Daniel McGregor Dare, nato a Manchester nel 1967, con studi a Rossall e Cambridge, non può essere che Inglese (o forse, come piacerebbe essere agli Inglesi). Lo attestano, oltre alla caratterizzazione regionale dei comprimari (Gallesi, Irlandesi, Scozzesi), il solido buon senso e il sottile umorismo. Il che non gli impedisce di essere proposto con successo in molti altri Paesi, Italia compresa. Con l’eccezione vistosa degli USA, curiosamente incapaci di apprezzare la bellezza e lo spessore del personaggio. Ma, si sa, da quelle parti non c’è afflato che valga il martello di Thor o la ragnatela di Spiderman.
Al consolidarsi del trionfo della Eagle e di Dan Dare corrisponde il crescere dell’attaccamento dell’autore per la sua creatura. L’artista ottiene dalla Hulton la disponibilità di un team composto da ben sei disegnatori e coloristi, supportato all’occorrenza da altre persone. E gli basta appena per soddisfare un complesso piano di lavoro. Ogni lunedì, lui prepara lo storyboard di un episodio, badando che inizi con una scena particolarmente suggestiva; abbozza poi i disegni, rifacendosi al materiale di riferimento e allegando fotografie di persone vestite come i personaggi, per facilitare la visualizzazione di scene cinetiche o di particolare impatto; infine ripartisce le vignette tra i membri dello staff, riservandosi la rifinitura della prima pagina. Severo e infaticabile, se boccia il lavoro degli altri, come spesso accade, lo rifà personalmente, tra nuvole di fumo di pipa, trascurando persino di andare a letto.
Nella seconda avventura, ‘The Red Moon Mystery’ – per gli appassionati tra le migliori della saga –, la minaccia proviene da un asteroide, detto la Luna Rossa, in rotta di collisione con la Terra. Il suo approssimarsi provoca disastrose inondazioni, ma in breve si scopre che il pericolo maggiore è costituito dalle ignote entità che lo manovrano. Tramite una sorta di locuste robot, gli alieni depredano periodicamente il Sistema Solare, lasciandosi dietro pianeti desolati (in precedenza, avevamo appreso che le rovine di una civiltà estinta di Marte testimoniavano di una simile catastrofe, avvenuta 200.000 anni prima). In ‘The Red Moon Mistery’ risalta la capacità dell’artista di coniugare il fantastico con il quotidiano in modo tale da darci l’illusione di leggere la cronaca di fatti accaduti realmente.
Nell’avventura successiva ‘Marooned on Mercury’ torna in ballo il Mekon, e in ‘Operation Saturn’ l’eroe deve debellare un persino più sinistro nemico (Vora, alieno misterioso proclamatosi “Last of the great ones who came from outer space”) che da Saturno minaccia di distruggere la Terra. Dopo un altro ritorno del Mekon in ‘Prisoners of Space’, nel 1955 inizia il periodo d’oro della saga, grazie all’apporto di Don Harley, divenuto un eccellente disegnatore e il cui stile si integra alla perfezione con quello di Hampson. Dan Dare, Pilot of the Future diventa il fumetto meglio disegnato di sempre. Hampson inizia anche ad avvalersi dell’esperto Alan Stranks come collaboratore alle sceneggiature. Nasce così ‘The Man from Nowhere’, prima parte di una trilogia che porta Dan Dare e alcuni suoi compagni fuori dal Sistema Solare. Motivo del viaggio è la richiesta d’aiuto dei Crypt, alieni pacifici e inermi il cui pianeta è periodicamente invaso dai Phant, bellicosi abitanti di un erratico pianeta gemello. Nella seconda parte della trilogia, ‘The Rogue Planet’, si descrive la guerriglia condotta contro gli invasori. Qui il perfezionismo di Hampson raggiunte vette incredibili. Non c’è dettaglio della flora e fauna aliene o delle città che sia trascurato, persino i gradi dei soldati phant sono accuratamente descritti nei model sheet. Riportata la pace tra i due mondi grazie alla scoperta di ciò che rende i Phant tanto aggressivi e allo smascheramento del maligno computer che li vuole tali, Dare torna a casa.
In ‘Reign of the Robots’ (ultima parte del trittico) il nostro eroe scopre che, mentre compiva in animazione sospesa l’andata e ritorno interstellari, sulla Terra sono passati ben dieci anni; e che nel frattempo dev’essere accaduto qualcosa di terribile, perché Londra appare deserta, abbandonata da un pezzo. Ovviamente, c’entra il Mekon che, soggiogata l’umanità nel 2002, ora se ne serve come cavia per folli esperimenti. Con l’aiuto dei Theron, anche questa volta il terribile omiciattolo viene sconfitto, e forse poi muore inghiottito da una sorta di sabbie mobili venusiane nella breve avventura ‘The Ship that Lived’.
Segue ‘The Phantom Fleet’, una storia controversa, sebbene anch’essa meravigliosamente disegnata. Inizia con l’approssimarsi alla Terra di una flotta aliena. La Space Fleet è in allarme, ma Dare scopre che le astronavi trasportano un popolo di pacifici tritoni inseguiti da altri esseri acquatici, loro nemici, molto meno rassicuranti. Hampson, informato da Morris che i lettori non gradiscono, si affretta a concludere la vicenda, presumibilmente senza aversene troppo a male perché ha già in mente quello che nelle sue intenzioni sarà l’apice della saga…
All’inizio di ‘Safari in Space’ apprendiamo che il passato di Dan Dare cela una tragedia. Quand’era bambino, suo padre, William Dare, pioniere del volo spaziale, perì durante il collaudo di un’astronave di nuova concezione, esplosa in volo. O almeno così ha creduto Dare, perché un bizzarro scienziato ora gli dice di avere le prove che l’astronave è invece partita alla volta di un pianeta extrasolare, Terra Nova. Sono passati trent’anni, ma Dare e lo scienziato, decisi a scoprire che ne è stato di Dare senior, partono su una replica di quell’astronave, il Galactic Galleon. Come si è detto, Hampson ha grandi progetti. La ricerca del padre deve portare Dare su molti pianeti, facendolo entrare in contatto con altrettante specie aliene, e nello studio dell’artista sono già pronti gli opportuni modellini corredati da minuziose tavole di riferimento. Ma le vite del personaggio e del suo creatore stanno per cambiare radicalmente, una svolta che sbigottirà, le cui premesse erano però nell’aria da tempo.
Nei primi anni della Eagle, Hampson, esaurito dal gran lavoro, è stato costretto a lasciare il tavolo da disegno per due lunghi periodi, nei quali ha potuto solo coordinare il suo team. Sebbene l’apporto di Harley gli abbia poi alleviato le fatiche, permangono altre pene, causate paradossalmente proprio dal successo della rivista. Sono ormai centinaia le licenze commerciali concesse, soprattutto ai fabbricanti di giocattoli, legate ai personaggi della rivista per promuovere prodotti che Hampson giudica d’infima qualità. Ovviamente, il più richiesto è Dan Dare, che tra il 1951 e il 1955 è protagonista di un serial radiofonico trasmesso con successo da Radio Lussemburgo, per il quale l’autore riceve una ricompensa forfettaria di sole 250 sterline: infatti, non avendo egli diritti sul personaggio, il fiume di denaro che esso produce (si parla di un milione di sterline all’anno, una cifra enorme per l’epoca) neppure lo sfiora.
Malgrado tutto, Hampson è gratificato da un lavoro che ama, da uno stipendio ottimo, e da una certa libertà artistica (che la Hulton è ben lieta di concedere a un team capace di procurarle simili profitti). Lo amareggia, è vero, il fatto di non poter realizzare i progetti che gli sembrano il logico sviluppo della saga: un film a disegni animati e una tavola domenicale da proporre negli USA, con testi adattati al gusto di quel pubblico – e sarebbe solo l’inizio di un’avventura artistica e commerciale paragonabile a quella di Walt Disney, prevedendo persino un parco a tema. Tuttavia egli non dispera di poter riuscire a convincere col tempo l’editore ad assecondare anche queste sue ambiziose idee.
Ma ecco il colpo di scena: nella primavera del 1959 sir Edward Hulton, convinto che la televisione sia un nemico invincibile per i piccoli editori come lui, vende l’azienda alla Odhams Press, uno dei colossi editoriali inglesi degli anni ’50. Morris e Hampson vedono il loro futuro in bilico. E con ragione, perché i nuovi padroni decidono subito di ridimensionare lo staff di Dan Dare. Anche il look del personaggio, secondo loro datato, va rinnovato in modo drastico, e le sue storie devono essere brevi e poco approfondite, ritenendo erroneamente che ai lettori ormai piaccia solo ciò che richiede un livello minimo di attenzione.
Le condizioni sono inaccettabili e l’artista abbandona la creatura alla quale ha dedicato dieci appassionati anni di vita. Le sue ultime tavole appaiono sulla Eagle numero 27 del 1959.
La Odhams affida allora a Frank Bellamy la parte grafica del fumetto, mentre la trama pensata da Hampson e Stranks viene stravolta e resa mediocre da Eric Eden, negando agli appassionati le meraviglie che Hampson aveva in serbo per loro. Bellamy è comunque un disegnatore di raro talento, ma quel lavoro non gli piace e lo accetta per un solo anno, il tempo di portare a termine il rinnovamento preteso dalla Odhams, che consiste nell’abbandono della coerenza interna (nessuno bada più a model sheet, modellini ecc.), nella minor cura dei dettagli e nella banalizzazione di trame e personaggi. Dan Dare resta allettante dal punto di vista visivo, ma non ha più l’allure di quand’era un capolavoro. Ormai è solo un fumetto ben disegnato che delude i vecchi lettori senza attrarne di nuovi. Dopo Bellamy, se ne occupano due ottimi disegnatori, già collaboratori di Hampson, cioè Don Harley e poi Keith Watson, che però nulla possono contro una politica editoriale dissennata e la conseguente disaffezione dei lettori.
La Odhams, pur non avendo capito che Dan Dare vale solo se creato col metodo di Hampson, ne tiene comunque conto. Più in generale, non impone un clima draconiano nelle redazioni delle quattro riviste, dove il cambiamento di proprietà passa quasi inosservato. Ma alla Fleetway Publications che nel 1961 assorbe l’Odhams – sono anni di grande turbolenza e accentramenti per l’editoria inglese – importa poco o nulla del personaggio: la Eagle adesso è solo un tassello di un impero che comprende più di 200 tra periodici, giornali e riviste per ragazzi. E anche il mondo sta cambiando in fretta: Londra è sul punto di scoprire la minigonna e diventare swinging, i Beatles stanno imparando il mestiere ad Amburgo e di lì a poco scoppierà al cinema il fenomeno James Bond. Nel tentativo di rincorrere i gusti dei lettori (mentre la Hulton, secondo le idee di Hampson e Morris, li creava) la Fleetway accumula errori su errori, aggravati da una liberistica ossessione per il risparmio realizzato sulle spalle dei dipendenti; i compensi risicati e l’arroganza dei nuovi dirigenti fanno scappare i migliori collaboratori, e così peggiora anche la qualità delle parti redazionali, mentre ai personaggi che hanno fatto la gloria della Eagle ne subentrano altri via via più scadenti. Arrivano migliaia di lettere di lettori che reclamano la Eagle di una volta: invano. Crollate le vendite, il 26 aprile 1969 appare il 992° e ultimo numero del settimanale (le tre riviste gemelle hanno chiuso da anni), ormai ridotto a un’ombra di ciò che era stato.
Tra tutti i personaggi delle origini, Dan Dare è il solo a resistere sino alla fine, sia pure tra mille travagli e servito da sceneggiature inadeguate. Nel marzo del ’62 viene spostato nelle pagine interne e stampato in bianco e nero. Poi riguadagna i colori e la prima pagina nel marzo del ’63, prima di essere nuovamente retrocesso nel luglio del ’65. Nel giugno del ’66 si riduce a una tavola, e agli inizi dell’anno seguente subentrano le ristampe dei lavori di Hampson (un tempo disprezzati in quanto obsoleti), sino alla chiusura, a quel punto pietosa eutanasia di una pubblicazione divenuta inguardabile la cui tiratura è ridotta al 5% di quella degli esordi.
Quando ciò accade, Marcus Morris se n’è andato da tempo: nell’ottobre del 1959 l’Odhams l’aveva in pratica costretto a lasciare la direzione della rivista. È un epilogo amaro; tuttavia la Eagle e la Hulton sono destinate a rappresentare solo un capitolo della sua vita. Morris ha ormai deciso che il lavoro editoriale è la sua vera vocazione: il suo sacerdozio si è ridotto alla recita di qualche sermone, e con gli anni pure la sua fede diventerà tiepida sino a sfiorare l’agnosticismo. Il 31 dicembre 1959 la National Magazine Company lo assume come editorial director e managing director designate, con l’incarico di promuovere in Inghilterra le riviste del gruppo Hearst. Per l’ex parroco seguiranno anni di gratificazioni professionali ed economiche.
Tutt’altro sviluppo avrà la vita di Hampson. La Odhams, discutibile nei metodi ma non irragionevole, non ha intenzione di perdere l’artista. Morris ha ancora un impegno con quell’editore, la sceneggiatura della biografia di Cristo, e Hampson, che vuole levarsi dalla testa Dan Dare, accetta di disegnarla, purché possa farlo a modo suo; la Odhams acconsente allora a mandarlo a documentarsi in Palestina. Ne esce The Road of Courage, dove l’autore propone nell’arco di 56 puntate una vita di Cristo di abbacinante bellezza, avvalendosi dell’aiuto di Joan Porter, coloratrice e sua assistente già con Dan Dare (l’unica del disperso team alla quale sia ancora concesso aiutarlo). Com’è sua abitudine, non c’è dettaglio, riferimento storico o luogo che non sia frutto di infinite ricerche. Ma è nella rappresentazione dei volti che l’artista dà una prova di un’inimitabile capacità introspettiva. Semmai ce ne fosse ancora bisogno, The Road of Courage attesta in modo definitivo la grandezza del suo genio. Purtroppo questo è anche il suo canto del cigno. Incapace di andare d’accordo con i manager della Fleetway e disperato per il modo in cui trattano Dan Dare, nell’estate del 1961 lascia la Eagle. Più che una scelta è un obbligo: per Hampson è difficile lavorare su soggetti altrui, e le idee che per qualche tempo propone alla Fleetway e ad altri editori non trovano riscontro o, se lo trovano, muoiono sul nascere perché l’autore non può più reggere l’assillo di quelle che considera solo spietate logiche di mercato. Qualcosa si è spezzato per sempre nel suo animo, ed è un uomo stanco, deluso e abbattuto quello che, a soli 43 anni e nel pieno della propria maturità artistica, si lascia alle spalle il mondo del fumetto.
Dopodiché, il genio che ha deliziato milioni di lettori svanisce nel nulla.
Ammiratori ed eredi
Nel 1964 gli autori della fanzine Astral, emanazione del Dan Dare Club fondato da un gruppo di appassionati, iniziano a scrivere a Hampson, ragguagliandolo sulle loro attività. Dalla sua unica sofferta risposta trapela l’eco di una tragedia personale, le cui vere proporzioni si sapranno solo in seguito. Avvinto da una spirale di depressione, aggravata dal fatto che le sue tavole originali, frutto di tanto lavoro e ora proprietà della International Publishing Corporation (subentrata alla Fleetway), sono conservate malamente, e che su di lui pare sia calato l’oblio, l’autore tenta il suicidio e si salva solo per l’anticipato rientro a casa di Dorothy. La meschineria della I.P.C. giunge al punto di negargli la minima disponibilità sulla sua creazione, gli è persino proibito regalare schizzi di Dan Dare ai fan.
Per vivere, Hampson inizia a illustrare libri per la Ladybird Books. Ne realizza sette al ritmo di uno all’anno. Nel 1970, mentre sta ultimando le ricerche per l’ottavo – una biografia di Churchill – gli viene diagnosticato un tumore alla gola. Guarisce, ma non è più in grado di dedicarsi continuativamente al disegno. Si impiega allora prima come perito grafico presso l’Ewell Technical College e poi come insegnate di disegno alla Epsom School of Art. Riprende anche gli studi presso la Open University per conseguire il titolo di Master of Art. Ma sono anni di ristrettezze e gli Hampson sono costretti a vendere parti della loro casa.
Al risentimento che l’artista prova nei riguardi degli editori, si aggiunge quello per Morris, accusato di non essersi adoperato per salvare la Eagle né per difendere Dan Dare. Per quanto se ne sa, sono accuse immotivate: nessuno avrebbe potuto opporsi alle manovre dei colossi di Fleet Street. È più verosimile che la vera colpa di Morris, agli occhi di Hampson, sia l’essersi lasciato alle spalle ciò che per il disegnatore resta invece un tormento. C’entra in questo anche la differenza di carattere: Hampson è rimasto un uomo rigoroso e incapace di rinunciare ai propri principi (un esempio è la sua fedeltà alla moglie, laddove Morris al contrario non si fa scrupolo di collezionare svariate avventure extraconiugali), mentre l’ex parroco, un tempo così severo nei riguardi di ciò che giudicava robaccia americana, è poi finito, per un lucroso stipendio, a promuovere riviste quali She e Cosmopolitan.
Il rancore dell’artista per le ingiustizie subite aumenta nel 1975, quando una nuova legge sui diritti d’autore gli consentirebbe di riappropriarsi dei suoi lavori ma la I.P.C. gli comunica di non sapere dove sia finito il materiale originale.
Sempre nel 1975, si apre anche uno sprazzo di luce: Rinaldo Traini, in qualità di direttore della mostra del fumetto di Lucca, invita in Italia l’esperto inglese di fumetto Denis Gifford, e quest’ultimo chiede a Hampson di accompagnarlo. Nella città toscana c’è una persona che, avendo lavorato in Inghilterra e apprezzando particolarmente il vero Dan Dare, è ansiosa di conoscere l’artista: Hugo Pratt. Quando il fumettista italiano apprende da Gifford l’amara vicenda di Hampson ne rimane inorridito e si dà da fare perché all’artista venga assegnato il premio Yellow Kid come migliore disegnatore e sceneggiatore del dopoguerra. È una soddisfazione inattesa, ma Hampson non ne trae grandi giovamenti, se non un breve interesse da parte della stampa inglese. Due anni più tardi, il Science Museum di South Kensington gli commissiona due pannelli murali con i suoi personaggi da collocare in una nuova ala dedicata ai bambini. Al solito, l’artista dà il meglio di sé.
Nel frattempo qualcosa accade pure a Dan Dare. Nel 1973 la I.P.C. ha pubblicato Dan Dare Annual 1974, un volume cartonato con la ristampa delle avventure ‘The Red Moon Mistery’ e ‘Safari in Space’ mutilate di molte tavole ma splendidamente riprodotte (in Italia il volume è tradotto dall’editore Dami). Nel 1977 appare il testo celebrativo The Best of Eagle, curato da Morris, che nella prefazione, pur diffondendosi con mille dettagli sulla storia del settimanale, non pare troppo ansioso di mettere in luce l’apporto fondamentale di Hampson; comunque, il volume propone alcune tavole da ‘Voyage to Venus’. Nel febbraio del 1977 la I.P.C. lancia il settimanale a fumetti 2000 A.D. infarcito di personaggi debordanti brutalità e cinismo, almeno uno dei quali, il beffardo Judge Dredd, diventerà poi celebre; il periodico contiene anche un sedicente Dare Dare, in realtà il violento clone degenere di quello vero, che il rigetto dei lettori condanna a una rapida fine. Nel 1979 la Dragon’s Dream, fondata dall’illustratore Roger Dean, pubblica il primo di tre volumi con la ristampa della trilogia ‘The man from Nowhere’. Il formato è ridotto rispetto a quello usato nella Eagle, ma offre tavole riprodotte al meglio; nel primo volume addirittura le vignette iniziali degli episodi sono ridisegnate da Harley su abbozzi di Hampson per cancellare il logo con l’aquila e rendere la narrazione più fluida; è un esperimento riuscito, che però non prosegue nei 2 volumi successivi, nei quali la rimozione del logo è ottenuta spostando o allargando arbitrariamente le vignette. La ristampa in verità non riscuote successo e un annunciato quarto volume con ‘Safari in Space’ non vedrà mai la luce; ma la Dragon’s Dream fa in tempo a pubblicare anche una meravigliosa edizione di ‘The Road of Courage’.
Qualcosa sta insomma cambiando nei riguardi del vero Dan Dare e di Hampson. Non però nelle teste dei dirigenti della I.P.C., che in varie occasioni esprimono giudizi sarcastici sulla Eagle e sull’opera dell’artista, definiti moralistici e ingenui. A riprova della loro ottusità, quando il produttore Lew Grade rende noto di volere dedicare una serie televisiva al personaggio (poi mai realizzata), si affrettano a mettere in cantiere una nuova Eagle, che esce nel 1982 proponendo oltre a orridi fotoromanzi a puntate pure le avventure di un bis-bis-bis-nipote di Dan Dare. Sebbene disegnate decentemente da Gerry Emberton, lasciano giustamente indifferenti i lettori, e la nuova rivista tira avanti alla meno peggio.
Nel 1989 l’editore lascia finalmente perdere cloni aggressivi e remoti discendenti. Uno strillo in prima pagina annuncia infatti il ritorno di ‘The Original Dan Dare’. È una storia di 18 tavole in 6 puntate che finalmente si rifà senza vergognarsene al vero personaggio. Ben scritta e, soprattutto, ottimamente disegnata da Keith Watson, non sfigura con i lavori di Hampson. Purtroppo è solo una parentesi, perché poi riprendono le storie illeggibili. Quando quella Eagle chiude, nel 1994, nessuno rimpiange il bis-bis-bis-nipote. Per fortuna è anche l’ultimo tentativo di ‘modernizzare’ il personaggio, perpetrato dagli editori che l’hanno affossato.
Intanto, nel 1988, altra testimonianza del crescente interesse per il lavoro di Hampson e per il magazine che lo aveva ospitato, era nata la fanzine Eagle Times, pubblicata ancor oggi, un’imperdibile fonte di informazioni per gli appassionati.
Nel 1990 la rivista Revolver pubblica Dare – The Controversial Memoir of Dan Dare, Pilot of the Future, miniserie in 8 puntate, poi raccolta in volume unico, scritta da Grant Morrison e disegnata da Rian Hughes. Narra di un Dan Dare in pensione che scopre cose orribili sul proprio governo, colluso col Mekon. Sebbene sia un’ottima storia, ben fatta e rispettosa dell’autore e del personaggio, vale più come pamphlet contro il liberismo di Margaret Tatcher.
Nel 2007-2008 è Garth Ennis a proporci una sua ipotesi su ciò che potrebbe essere accaduto al vero Dan Dare e all’Inghilterra dopo le avventure raccontate da Hampson. L’iconoclasta propensione all’eccesso dello sceneggiatore fa temere il peggio, ma la miniserie in 7 episodi Dan Dare è invece un ottimo lavoro, coinvolgente ed epico (notevoli le battaglie spaziali disegnate da Gary Erskine), che analizza la natura dell’eroe, descritto come la sintesi delle migliori aspirazioni etiche britanniche, quasi mai avveratesi nel corso della per lo più cupa storia dell’isola: un ritorno alle origini consapevole delle miserie dell’oggi. Oltre al Mekon, infatti, il nemico da battere è anche qui il capo del governo. C’è da augurarsi che l’opera di Ennis, pubblicata anche in Italia da Magic Press Edizioni, costituisca la riflessione definitiva, in termini di arte sequenziale, sul personaggio. Sarebbe infatti difficile dire di più e meglio.
Un omaggio che mira alla mimesi è invece quello proposto a partire dal 2003 da Rod Barzilay con la fanzine Spaceship Away, una pubblicazione in splendidi colori spedita tre volte all’anno solo agli abbonati. Agli inizi imperniata su storie di Dan Dare, disegnate da Keith Watson e, dopo la sua morte, da Don Harley, oggi propone anche altri personaggi, tra cui Hal Starr del veterano Sydney Jordan. Lo scopo, raggiunto, è ricreare la Eagle degli anni migliori. All’inizio di ogni episodio appare quindi il logo con l’aquila, e la continuity e i dettagli contestuali della saga sono rispettati scrupolosamente.
Hampson l’avrebbe di certo apprezzata… ma purtroppo la sua vita è giunta da molti anni a un penoso epilogo. Nel 1982 un colpo apoplettico lo priva dell’uso della parola e degli arti. In seguito recupera la parola, ma resta confinato su una sedia a rotelle. Prosegue gli studi, deciso a diventare finalmente Master of Art, l’ennesima toccante dimostrazione di una indefettibile dedizione all’arte. L’8 luglio 1985, all’età di 67 anni, muore per un attacco cardiaco. Dorothy si trasferisce in un’altra casa e tutto l’archivio dei riferimenti finisce nell’immondizia!
Se fosse vissuto poche altre settimane, l’artista avrebbe avuto almeno la gioia di vedere pubblicata la sua biografia The Man who Drew Tomorrow scritta con competenza e affetto da Alastair Crompton, che costituisce l’inizio della riscoperta della sua opera. È infatti del 1987 l’uscita di Dan Dare, Pilot of the Future per la Hawk Books, il primo volume di una deluxe edition che propone nel formato originale tutto il Dan Dare di Hampson, Bellamy e Harley e buona parte di quello di Watson. Trascurando l’assenza di apparati critici e il fatto che alcune tavole degli inizi sono riprodotte in modo insoddisfacente, data l’indisponibilità degli originali, i 12 volumi della serie, completata nel 1995, sono quanto di meglio si è visto in relazione a Dan Dare. La Hawk stampa anche un prezioso The Dan Dare Dossier ricco di dati e materiale altrimenti introvabile.
Nel nuovo secolo è la Titan Books a riproporre, dal 2004, la ristampa della saga. Il formato è ridotto e le prime tavole conservano i difetti dell’edizione Hawk, ma gli apparati critici sono notevoli (tra l’altro, possiamo leggere una lunga intervista concessa da Hampson ad Alan Vince nel 1974 mai pubblicata prima). Nel complesso, sono volumi raccomandabili.
Restano infine da ricordare i tre giochi per computer ispirati a Dan Dare apparsi alla fine degli anni ’80, e una serie televisiva di animazione in CG del 2002, dignitosa ma priva di qualunque fascino. Del resto, trasporre sullo schermo l’eroe e il suo mondo è impresa che solo un regista di grande talento e versatilità potrebbe tentare. Non dispiace troppo quindi che le voci su un film interpretato dal Sam Worthington di Avatar circolate nel 2010 non abbiano per ora avuto seguito.
Forse Hampson si stupirebbe nel vedere quanta importanza si dà oggi al suo lavoro. Le sue 1000 e più tavole originali – opportunamente svanite dagli archivi dell’I.P.C. per poi riapparire in vendita nelle aste di Christie’s – valgono migliaia di sterline e sono oggetto di studio nelle scuole d’arte. E noti architetti e designer inglesi ammettono di ispirarsi ai suoi disegni.
Ma sono tanti i personaggi celebri che dichiarano un debito di riconoscenza verso Dan Dare. Per tutti, valga la risposta che Stephen Hawking ha dato a chi gli ha chiesto in che modo lo ha influenzato il personaggio: “Why am I in cosmology?”.
A proposito di influenze, ce n’è una, curiosa, che risale al 1964, quando Stanley Kubrick inizia le riprese di 2001: Odissea nello Spazio. Al suo fianco, in qualità di sceneggiatore, c’è Arthur C. Clarke. Il regista, perfezionista maniacale, legge e consulta tutto ciò che può servirgli per il film. In una delle scene più celebri, vediamo l’hostess della navetta PanAm camminare in assenza di gravità lungo i 360° di una parete circolare: una scena simile si vede anche nella prima vignetta della puntata di Dan Dare del 19 maggio 1950. E c’è un’altra, più sorprendente, somiglianza: la sequenza più nota e celebrata del film è quella in cui la scimmia assassina getta in alto l’osso che poi diventa un’astronave. Clarke scrive che nessuno sa come sia venuta l’idea a Kubrick. Ebbene, nell’Eagle Annual 1963 è presente una breve storia di Dare (‘The Robocrabs’) disegnata quasi certamente da Harley e forse sceneggiata da David Motton, in cui, nella quarta vignetta della prima tavola, c’è il disegno di un selce scheggiata sovrapposta a un satellite artificiale, sullo sfondo dello spazio. La didascalia dice: “…mentre sulla Terra l’umanità progredisce dagli strumenti di pietra alla tecnologia spaziale”. Difficile credere che si tratti solo di una coincidenza.
Frank Hampson non è stato solo l’autore di un fumetto di straordinaria bellezza e non è per un capriccio del caso che la sua fama, lungi dallo svanire, sia anzi aumentata nel tempo, alimentata dall’entusiasmo di coloro che sono cresciuti leggendo le sue opere, molti dei quali sono oggi artisti, ingegneri, architetti, scienziati…
I suoi intenti – promuovere speranza, amore per il bello, comprensione, curiosità – si sono pienamente realizzati.