La strana storia di questo film e del suo regista è la dimostrazione pratica di quanto il cinema sia un bastardo senza cuore, spietato e anche un po’ infame. Alex Proyas, Australiano ma nato in Egitto da genitori greci, gira nel 1989 un interessante postapocalittico che gli attira addosso l’attenzione di Hollywood. Se ne va in America pieno di belle speranze ed ecco l’uragano Il Corvo (1994), cult generazionale segnato dalla tragica dipartita dell’attore principale durante le riprese. Un incasso da capogiro, un fenomeno di massa, un mito ancora prima di uscire nelle sale. Carriera lanciata verso le stelle e oltre. Passano ben quattro anni e Proyas ha l’occasione della vita servita su un piatto d’argento: budget di 27 milioni di dollari per un film di fantascienza che parla di controllo mentale, di ricordi innestati artificialmente e di un’umanità resa schiava inconsapevole, costretta a vivere in un mondo che non è reale. E che ti combina il box office? Niente. Fiasco. Disastro. Ecatombe. Il buon Proyas se ne torna in Australia, con la coda tra le gambe, salvo rifarsi vivo girando brutti thriller millenaristici con Nicolas Cage (Segnali dal Futuro, 2009), che è come finire dritto dritto dentro una fogna a cielo aperto. In mezzo c’è la parentesi Io, Robot (2004) che vorrei aver tanto rimosso dalla memoria – giusto per restare in tema.
L’anno dopo Dark City, arriva nei cinema Matrix. Solo che questa volta, al posto di un film cupo, riflessivo, volutamente retrò e dall’atmosfera cinica come quella di un noir, abbiamo Laurence Fishburne che fa gli spiegoni pseudofilosofici pubblicizzando le duracell e tutti vanno in visibilio. Ah che figata quegli occhiali da sole e Neo che schiva i proiettili in pose plastiche, mentre la sceneggiatura frulla mezzo secolo di fantascienza nella sua versione bignami for dummies e la condisce anche con ettolitri di velleità messianiche da spaccare la faccia ai Wachowski, tanto per passare un pomeriggio in allegria. Anche i due fratellini di Chicago, però, hanno ricevuto la loro punizione dal karma, e speriamo che restino puniti a vita, per i danni che hanno causato all’immaginario collettivo tutto.
Dark City non ha un’ambientazione: la città del titolo potrebbe trovarsi in qualunque momento storico e in ogni luogo imprecisato degli Stati Uniti. I personaggi si muovono tra diroccati musei del mare, squallidi alberghetti abitati da prostitute, stazioni di polizia che sembrano usciti da un romanzo di Chandler e fumosi locali dove Jennifer Connelly canta davanti a un vecchio microfono con la voce di un angelo. A questi interni decadenti e polverosi, Proyas alterna mastodontiche scenografie mosse da effetti speciali all’avanguardia, che si spostano ogni volta che scocca la mezzanotte (ma potrebbe anche essere mezzogiorno) e deformano e ricostruiscono la città, dandole un volto nuovo. Un enorme orologio in un sotterraneo scandisce l’attimo in cui ogni cosa si ferma, tutti si addormentano e la loro vita cambia.
La Città è una visione: un sogno, o un incubo, in cui la nostra memoria coincide con la nostra anima, in cui una razza antica, dotata di una sola mente collettiva, cerca alla disperata di comprendere ciò che ci rende unici, e costruisce intorno a noi un universo finto per poter carpire indisturbati la nostra individualità. Uno zoo dove non sorge mai il sole, dove ti vengono imposti sentimenti mai provati, dove il tuo passato, quello vero, è cancellato per sempre, perduto chissà dove. E chissà se esiste la Terra, chissà se c’è qualcosa oltre quel canale, chissà se l’Oceano non è che la pallida e sbiadita memoria di un qualcosa che non è mai stato e mai sarà. Nella Città puoi addormentarti comune cittadino e risvegliarti assassino, se loro decidono che così deve essere. Nella Città puoi amare qualcuno conosciuto pochi minuti prima, ché quell’amore ti è stato innestato nel cervello, puoi essere convinto di fare lo stesso lavoro da 25 anni mentre ti hanno messo lì da pochi secondi. E ti può capitare di svegliarti mentre la città dorme il suo sonno indotto, e impazzire… oppure diventare l’unico in grado di spezzare questa illusione.
La Città è un mondo a parte: non si parla di realtà virtuale, ma di una costruzione reale e concreta, che galleggia nello spazio e da cui non si può fare ritorno. I creatori di questo mondo sono degli esseri a metà tra cenobiti e vampiri alla Nosferatu: gli Stranieri, osservatori e torturatori che ci considerano alla stregua di topi da laboratorio. Uno scenario davvero originale che si pone al confine tra la fantascienza più visionaria e il noir più disilluso. Proyas offre una creatività sfrenata e uno stile di regia svuotato dalle tentazioni da videoclip presenti ne Il Corvo, al servizio di una storia di ricerca e riscatto di un’umanità perduta. È comprensibile che Dark City non abbia avuto successo, all’epoca. Troppo poco consolatorie le conclusioni, e con un finale che è lieto solo in apparenza. Dalla gigantesca prigione sospesa nell’infinito non si evade; si può cercare di modificarla, renderla più vivibile, ma la consapevolezza di cosa sia davvero quella città resta appannaggio di un solo individuo, gli altri continueranno a vivere di ricordi che non appartengono loro.
Ed è questa riflessione sul concetto di memoria che rende Dark City un prodotto unico nel suo genere, un film che suscita una serie di domande, senza avere la pretesa di fornirci risposte rassicuranti, o la salvezza a opera di un eletto che diventa una specie di prete volante. La massa indistinta di individui che abita la città buia non ha un passato reale ma ricreato a tavolino. Lo stesso protagonista John Murdock (Rufus Sewell) ha subito la cancellazione totale dei ricordi. Lo vediamo vagare, disorientato e confuso, alla ricerca di un qualcosa che possa aiutarlo a ricostruire la propria vita, prima di rendersi progressivamente conto che la sua vita non esiste. Ma se quello che crediamo essere il nostro substrato sociale, culturale e affettivo è falso, cosa resta da salvare dell’essere umano? Dov’è quel nucleo centrale, quel marchio unico che ci rende uomini?
Non si tratta quindi della contrapposizione manichea alla Matrix (appunto) tra uomo e macchina. Quello narrato da Dark City è un conflitto più sottile, tra personalità imposte e personalità reali, che però sono obbligate e sfumare l’una nell’altra e a compenetrarsi. Nel momento in cui a uno degli Stranieri (Mr. Hand, interpretato da Richard O’Brien) vengono impiantati i ricordi artificiali di Murdock, l’alieno assume delle caratteristiche proprie e inconciliabili con la mente collettiva di cui fa parte. È la memoria, quindi, il corrispettivo dell’anima? Se è così, gli abitanti della città ne sono privi.
Proyas cerca comunque di concludere il suo film all’insegna della speranza: un’esplosione luminosa, dopo un’ora e mezza di film girata tutta in notturna, dove forse la salvezza può trovarsi in una traccia flebile di affetto che resta attaccata addosso anche dopo che il ricordo del sentimento è stato spazzato via. Un’impronta lasciata da un vissuto breve e dimenticato, ma che diventa la sola cosa a cui aggrapparsi, nel momento in cui si è soli, con un mondo da ricostruire e una vita che comincia da zero.
Dopo Segnali dal Futuro, Proyas è rimasto di nuovo fermo. La carriera di questo regista dalla visione così particolare e dalla fervida immaginazione procede da sempre a balzi.
Come detto, il cinema è cattivo, bastardo senza cuore e infame. O forse lo è il pubblico, che all’epoca di Dark City voleva un altro Corvo, salvo poi precipitarsi in massa a farsi anestetizzare da Matrix. Strana, triste storia.
Si ringrazia Il Giorno degli Zombi
Tit. originale: Dark City
Anno: 1998
Nazionalità: Australia | USA
Regia: Alex Proyas
Autore: Alex Proyas (storia e sceneggiatura) | Lem Dobbs, David S. Goyer (sceneggiatura)
Cast: Rufus Sewell (John Murdoch), William Hurt (Ispettore Frank Bumstead), Kiefer Sutherland (Dr. Daniel P. Schreber), Jennifer Connelly (Emma Murdoch), Richard O’Brien (Mr. Hand), Ian Richardson (Mr. Book), Bruce Spence (Mr. Wall), Colin Friels (Walenski), John Bluthal (Karl Harris), Mitchell Butel (Husselbeck), Melissa George (May)
Fotografia: Dariusz Wolski
Montaggio: Dov Hoenig
Musiche: Trevor Jones
Rep. Scenografico: George Liddle, Patrick Tatopoulos (production design) | Richard Hobbs, Michelle McGahey (art director)
Costumi: Liz Keogh
Produttore: Andrew Mason, Alex Proyas | Michael De Luca, Brian Witten (esecutivi) | Barbara Gibbs (line producer)
Produzione: Mystery Clock Cinema, New Line Cinema