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PARTE PRIMA – LA CADUTA DEGLI ANGELI
1
Benny Imura pensò: sono morto
Il centinaio di zombie che lo circondava in quel momento pareva essere d’accordo con lui.
2
Fino a quindici minuti prima Benny Imura era lontanissimo da qualsiasi pericolo.
Se ne era rimasto seduto su una roccia, affilando la spada, rimuginando tra sé e sé. Seguiva il flusso dei suoi pensieri, assorto, e per un po’ aveva persino messo su la faccia pensosa che faceva quando aveva gli altri intorno. Ora che era solo, lasciò cadere la maschera. Quando non c’era nessuno riusciva a ragionare meglio, ma la malinconia lo prendeva in maniera profonda, più costruttiva forse, ma di certo meno divertente. Quando sei da solo, non puoi fare una battuta per tirarti su.
Ed era da un bel po’ che Benny si sentiva giù, da quando aveva lasciato casa.
Si trovava a circa un chilometro e mezzo da dove, con i suoi amici, si era accampato in una foresta di alberi spogli nel sud del Nevada. Ogni volta che Benny faceva un passo lungo la strada che doveva portarli nei pressi dell’aereo che aveva visto insieme a Nix, ogni singolo metro che faceva, lo portava lontano da casa come non era mai stato.
Aveva sempre odiato l’idea di lasciare la sua terra. Mountainside era casa sua, in cima alle montagne della Sierra Nevada della California Centrale. Là c’erano il suo letto, la fontana del giardino e la torta di mele sul tavolo del portico. C’erano una città intera, suo fratello Tom, Nix e sua madre.
Ora la mamma di Nix era morta, e così anche Tom.
E casa non era più la stessa.
A mano a mano che la strada davanti a loro si districava, Benny, Nix, Chong e Lilah procedevano confusi come i ricordi che si lasciavano alle spalle, e il mondo immenso che avevano davanti non sembrava più tanto brutto e terribile, qualcosa da temere. Stava cominciando a diventare la loro nuova casa.
Non che la cosa gli piacesse, ma Benny cominciava a sentire che aveva bisogno di questo, come qualcosa che doveva affrontare per forza. Nessuna comodità. Nessun paradiso sicuro. Era un posto duro, la desolazione era terribile. Benny sapeva che se fosse riuscito a sopravvivere a quel mondo, sarebbe diventato molto più forte, anche più di Tom. Perché Tom, in fondo, non ce l’aveva fatta.
Ragionava su questi pensieri mentre se ne stava seduto sulla roccia ad affilare la lunga lama della spada, la kami katana che era stata di Tom.
Molare la lama è un lavoro che aiuta il ragionamento. Dev’essere fatto con cura, e la mente di solito è più vigile quando è costretta a superare ostacoli come i pensieri e i ricordi. Nonostante la tristezza nel cuore, Benny provò una certa soddisfazione nella strada impervia che aveva davanti e nella dovizia necessaria per la cura di quella spada mortale.
Mentre lavorava, ogni tanto alzava gli occhi per guardarsi intorno. Non aveva mai visto un posto così deserto, prima d’ora, e ne ammirò la sua semplicità. Una terra vasta e vuota, incredibilmente affascinante. Così tanti alberi e uccelli di cui aveva letto nei libri. E non c’era anima viva, cosa buona e cattiva allo stesso tempo. Cattiva perché non c’era nessuno a cui chiedere dell’aereo. Buona perché nessuno aveva provato a sparargli addosso, a torturarlo, a rapirlo o a mangiarselo da circa un mese. Benny mise questo punto nella categoria delle “vittorie”.
Quella mattina aveva lasciato l’accampamento per avventurarsi da solo nei boschi, in parte per allenarsi come gli aveva insegnato Tom, seguendo piste, nascondendosi, osservando; e in parte per starsene da solo con i suoi pensieri.
Non riusciva ad affrontare quello che continuava a tormentargli la mente. L’accettazione della morte di Tom avrebbe dovuto essere semplice, o almeno naturale. Dopotutto nella vita di Benny erano morti tutti. Più di sette miliardi di persone erano cadute dopo la Prima Notte. Alcune per mano degli zombie, i morti che tornavano in vita per attaccare gli uomini di cui si nutrivano. Altri a causa del panico e dei comportamenti brutali che l’uomo aveva messo in atto dopo la caduta dei governi, delle forze militari e della società stessa. Alcuni erano morti nelle battaglie, uccisi dalle bombe radioattive che avevano lanciato nel disperato tentativo di fermare l’esercito di morti che si avvicinava alle città. E molti altri erano caduti nei giorni seguenti, per le malattie, le ferite, la fame e le innumerevoli infezioni che si diffondevano per via della morte e della putrefazione, che erano dappertutto. Colera, stafilococco, influenza, tubercolosi, HIV e altre ancora. Tutte infezioni che si propagavano senza controllo, senza infrastrutture ospedaliere e senza nessun modo per fermarle.
Considerato tutto ciò, visto che tutti coloro che Benny aveva conosciuto erano stati colpiti in qualche modo dalla morte, avrebbe dovuto accettare la fine di Tom con più facilità.
Avrebbe dovuto.
Ma… c’era anche un altro fatto.
Nonostante Tom fosse caduto durante la battaglia a Gameland, non era tornato in vita come zombie. E questo caso stranissimo avrebbe dovuto essere un pensiero meraviglioso per Benny, quasi una benedizione di cui essere grati, ma non lo era. Benny era confuso. E spaventato, perché non aveva idea di cosa volesse dire.
Non aveva senso. Non secondo le regole di vita e di morte che Benny aveva conosciuto nei suoi quasi sedici anni. Dalla Prima Notte, tutti coloro che morivano, indipendentemente dal modo, tornavano in vita come zombie. Tutti. Nessuna eccezione. Le cose andavano così.
Fino a quando erano cambiate.
Tom non si era rianimato in quel burattino che chiamano “morto vivente”. E la stessa cosa era successa a un uomo assassinato che avevano trovato nei boschi il giorno che avevano lasciato la città. E poi ad alcuni dei cacciatori uccisi nella battaglia di Gameland. Benny non ne capiva il motivo. Nessuno sembrava spiegarselo. Era un mistero che spaventava e apriva speranze nello stesso tempo. Il mondo, già molto strano e terribile, era diventato ancora più misterioso.
Un movimento distolse Benny dai suoi pensieri e vide una figura uscire dagli alberi in cima al pendio, a circa venticinque metri. Rimase immobile, aspettando di vedere se lo zombie l’aveva notato.
Non era uno zombie.
La figura era magra, alta, decisamente una femmina, e certamente ancora viva. Era vestita di nero, con una camicia larga a maniche lunghe e un paio di pantaloni, e aveva dozzine di nastri rossi legati al corpo, alle caviglie, alle gambe, al torso, alle braccia e alla gola. Le corde erano di un rosso vivace e si agitavano nel vento, e per un momento a Benny sembrò che fosse ferita e che il sangue sgorgasse da tutto il suo corpo. Solo quando la figura uscì dall’ombra, Benny realizzò che si trattava di nastri.
Aveva qualcosa di bianco ricamato davanti, sulla camicia, ma Benny non riusciva a capire cosa.
Erano settimane che, con i suoi amici, non incontrava un essere vivente, e sapeva bene che, in quelle terre terribili, era più facile imbattersi in un solitario ostile e violento che in un estraneo gentile. Attese immobile per capire se la donna l’avesse notato.
La ragazza fece qualche passo nel campo e guardò verso una fila di pini. Persino da quella distanza, Benny notò che la donna era molto bella. Aveva un portamento regale, come quei ritratti di regine che aveva visto nei vecchi libri. Aveva la pelle olivastra, e una massa di capelli neri che ondeggiava per la stessa brezza che agitava i nastri vermigli.
Il sole fece brillare qualcosa di argenteo, un oggetto che la ragazza afferrò da una catenella che teneva legata intorno al collo. Era troppo lontano per capire che cosa fosse, ma Benny immaginò si trattasse di un fischietto. Quando la donna se lo portò alle labbra e fischiò, non ne uscì alcun suono, ma all’improvviso gli uccelli e le scimmie sugli alberi cominciarono a rumoreggiare con grande agitazione.
Poi successe qualcos’altro, che fece vibrare di terrore Benny, spazzandogli via tutti i pensieri dalla testa: tre uomini uscirono dalla foresta e si fermarono dietro la donna. Anche i loro vestiti si agitavano nel vento, ma quello che avevano indosso doveva essere stato ridotto a brandelli da battaglie violente, dalle intemperie e dall’inesorabile passare del tempo.
Zom.
Benny si alzò molto lentamente. I movimenti rapidi attiravano gli zombie. I morti erano a circa quattro metri di distanza dalla donna e si avvicinavano ciondolando. La ragazza sembrava totalmente indifferente alla loro presenza, e continuava a soffiare nel fischietto cercando di produrre qualche suono.
Altre figure cominciarono a uscire dall’ombra degli alberi. Morti. Sbucavano nella luce del sole come se la sua stessa paura li richiamasse dagli…
Tit. originale: Flesh & Bone
Anno: 2012
Autore: Jonathan Maberry
Ciclo: Benny Imura #3
Edizione: Delos Books (anno 2013) Collana “Odissea Zombie” #7
Traduzione: Delia Mazzocchi
Pagine: 296
ISBN-13: 9788865304310
Dalla copertina | Benny Imura e i suoi amici si stanno riprendendo dai tragici eventi accaduti a Wawona, nella seconda Gameland. Ma non c’è tempo per fermarsi e piangere i compagni caduti. Sopravvivere nel regno di Rot & Ruin significa non concedersi mai una tregua. Così, con la morte nel cuore, Benny, Nix, Lilah e Chong continuano la ricerca del jet che hanno visto sfrecciare nel cielo; se esiste, la stessa umanità deve essere sopravvissuta… da qualche parte. Trovarlo è l’unico modo per assicurarsi un futuro e una vita degna di essere vissuta. Ma il regno di Ruin è ancora più insidioso di quanto possano immaginare. Sciami di zombie provenienti da est divorano e distruggono tutto ciò che incontrano; e non è tutto, perché gli zom hanno cambiato abitudini: più agili, più intelligenti, più feroci. Le regole di sopravvivenza che fino a questo momento li hanno tenuti in vita tra i morti viventi sono cambiate. La piaga è mutata o… qualcosa di molto più sinistro si nasconde dietro questo nuovo orrore? Intanto, un misterioso culto della morte cresce all’ombra della piaga, raccogliendo ogni giorno nuovi adepti e rendendo il viaggio in Rot & Ruin un soggiorno tra le braccia della morte stessa.