Caratteristica fondamentale della produzione cinematografica di HAYAO MIYAZAKI – l’ormai universalmente riconosciuto maestro dell’animazione nipponica – è certamente la levità.
I film dell’autore giapponese sono caratterizzati da una leggerezza inarrivabile, leggerezza intesa non come superficialità o mancanza di contenuti, ma come stato etereo.
Lievissime sono le storie, che rimangono meravigliosamente delicate anche quando virano al melodrammatico; lievissima è l’azione, coreografata come un balletto o un’esibizione di nuoto sincronizzato; lievissima è l’animazione, fluida, senza strappi, senza forzature.
Questi elementi stilistici compaiono in Doubutsu Takarajima (letteralmente “L’isola del tesoro degli animali”, in italiano Gli allegri pirati dell’Isola del Tesoro), il film del 1971 diretto da HIROSHI IKEDA e prodotto da HIROSHI OKAWA in occasione del ventesimo anniversario della TOEI ANIMATION; la cosa non deve sorprendere, dal momento che l’allora trentenne Miyazaki figura come designer principale di personaggi e scenari, storyboarder e animatore. Alcune fonti lo segnalano pure come consulente per la sceneggiatura, probabilmente nel ruolo di “script doctor” già rivestito in casa Toei fin dal 1965.
La storia è molto liberamente ispirata al romanzo di ROBERT LOUIS STEVENSON: in un mondo nel quale esseri umani e animali antropomorfi coesistono, il giovane Jim lavora nella locanda Bembo. Venuto in possesso di una mappa del tesoro appartenuta al pirata Flint, il ragazzo, in compagnia del suo amico Gran (un topo miope), rimane invischiato in un’avventura che lo vedrà in rotta verso l’Isola del Tesoro, al fianco della nipote dello stesso Flint, a bordo della nave del pirata Capitan Uncino (un maiale).
Dopo una buona dose di avventure, inseguimenti, naufragi, doppi giochi e duelli, l’equipaggio pirata di Uncino si ravvede, il bieco Capitano viene punito e i ragazzi recuperano il tesoro.
I nomi dei personaggi e dei luoghi, oltre alla famosa scena del barile di mele, sono in effetti gli unici riferimenti diretti al romanzo originale. Il resto è intrattenimento puro, calibrato per un pubblico dai cinque ai dieci anni, per quanto la pellicola sia comunque abbastanza breve (settantotto minuti) e incisiva da non tediare un pubblico più “adulto” e sofisticato.
Se i richiami a Stevenson scarseggiano, molti sono invece, come si accennava, gli elementi distintivi del “tocco” di Miyazaki che compaiono nel film, sebbene in forma embrionale.
A parte la levità stilistica – appena smussata dalla regia di Ikeda – è impossibile non riconoscere nella volitiva Kathy Flint, coi suoi corti capelli rosso-castani e la sua tunichetta blu, il prototipo di tutte le protagoniste femminili di Miyazaki per trent’anni a venire; così come, dal canto suo, Uncino richiama per morfologia e colori il molto più tardo Porco Rosso. Il sorcio miope Gran è certamente un parente benestante del più smagrito topastro che accompagna il protagonista in Alì Baba e i 40 Ladroni, sempre del 1971, e il meccanismo finale che elimina il cattivo e disvela il nascondiglio del tesoro verrà riproposto ne Il Castello di Cagliostro.
La sequenza dei titoli di testa, con gli animali che ballano, sarà ripresa – su un ritmo di marcetta quasi identico – per i titoli di testa di Tonari no Totoro.
Pur non mancando di utilizzare tutti i trucchi del mestiere per rendere la storia avvincente impiegando il minimo di risorse, Gli allegri pirati dell’Isola del Tesoro resta una pellicola di alto profilo; Miyazaki comunica all’intero progetto un carattere vagamente onirico, e la produzione non può che assecondare questa suggestione, a partire dagli sfondi, curati maniacalmente ma vagamente surreali proprio per sottolineare il carattere di “confine tra fantasia e realtà” dei luoghi in cui l’azione prende vita.
La musica è sapientemente intonata ai ritmi delle vicende.
Di particolare interesse è infine l’uso che viene fatto degli animali antropomorfi. Oltre all’ovvio appeal esercitato sul pubblico giovanile, un cast composto in larga parte da animali ha permesso a sceneggiatore e regista di comunicare, in maniera quasi stenografica, i caratteri dei personaggi secondari (il lupo col monocolo, il cuoco-tricheco e così via), rendendo la miscela più ricca ed efficace senza dover “telefonare” certe caratteristiche tramite dialoghi o scene superflui. Una splendida dimostrazione di quanto Walt Disney abbia fatto scuola nel mondo.
Discutibile forse il doppiaggio in italiano, che appiccica sui personaggi secondari delle voci con inflessioni dialettali “umoristiche” – in base alla vecchia e mai provata teoria che un personaggio comico sia più comico se ridicolizzato.
Avventura ingenua ma non infantile ambientata in un mondo di buoni, Gli allegri pirati dell’Isola del Tesoro merita il titolo di classico per la maestria tecnica che dimostra, per la serietà e il rispetto con cui tratta il suo giovane pubblico, e per il puro divertimento che è in grado di offrire.