Gli Avventurieri del Pianeta Terra

Gli Avventurieri del Pianeta Terra

New York, anno 2012: in uno scenario postatomico, la Comune guidata dal “Barone” (Max Von Sydow) sopravvive cercando di difendere una minima forma di organizzazione sociale. La condizione è di estrema ristrettezza, il cibo e l’acqua vengono razionati, contese e incomprensioni non mancano, ma s’intravedono anche segnali di rinascita: Melinda (Joanna Miles), figlia del Barone, aspetta un bambino, e le colture pazientemente accudite dal genio della botanica Cal (Richard Kelton) cominciano a dare frutti. Nuovi “semi” sono dunque pronti a offrire prospettive di vita migliore.

Di natura opposta sono le bande violente che si aggirano al di fuori della Comune, capeggiate dallo spietato Carrot (William Smith). Sono uomini e donne abbruttiti dall’indigenza, sopraffatti da un clima di caos in cui dominano solo violenza e barbarie. Agguati, omicidi facili e sequenze di lotta tratteggiano una società sull’orlo del baratro: la guerra nucleare e le epidemie hanno cancellato leggi, ordine e rispetto per il prossimo.

Per difendere la sua gente dall’aggressività degli esterni, il Barone ingaggia Carson (Yul Brynner), un laconico mercenario, abile nel combattere, avvezzo alla vita di strada eppure in possesso di saldi principi morali in nome dei quali vivere e morire.

Intanto, la scarsità di cibo continua a logorare la Comune conducendo inesorabilmente a comportamenti irrazionali: sintomatici sono la fuga all’esterno di una madre alla disperata ricerca di latte in polvere per il figlio, oppure la condanna a morte comminata per il furto di qualche pomodoro. È necessario rispondere con fermezza, ricorrere alla violenza per dissuadere chi minaccia il futuro della collettività.

Un brutto giorno, durante l’ennesimo assalto alla Comune da parte del gruppo di Carrot, Cal perde la vita; sconvolto, il Barone predispone un piano di fuga affidando a Carson la figlia, ormai prossima al parto, e i semi ottenuti dal botanico, in cui risiedono le poche speranze di alimentare un futuro altrimenti sterile.

Mentre il guerriero scappa attraverso la rete fognaria e i tunnel della metropolitana, recando con sé la ragazza e i preziosi semi, la gente della Comune, disperata e ottusa, insorge contro il Barone uccidendolo selvaggiamente. È la definitiva caduta di quell’ordine a cui così tenacemente si era rimasti aggrappati tra privazioni e difficoltà.

Carrot e i suoi intravedono nella fuga di Carson e Melinda l’opportunità di impadronirsi dei semi; poco ragionano sull’insensata uccisione del botanico, la persona che sarebbe stata in grado di far germogliare nuove piante: tutto ciò a cui essi pensano è il recupero del tesoro vegetale.

Gli inseguitori avranno però vita dura contro il letale Carson, impegnato a difendere Melinda che, nel frattempo, darà alla luce il suo bimbo.

Commento

Realizzato nel 1975, diretto da Robert Clouse e interpretato da un cast di tutto rispetto, Gli Avventurieri del Pianeta Terra (stravagante traduzione del titolo originale, The Ultimate Warrior) possiede il fascino tipico dei classici, proponendo una visione ricca di spunti – sebbene a tratti semplicistica –, con un finale aperto, magari poco curato ma velatamente poetico; un epilogo che lascia lo spettatore a interrogarsi sul destino dell’umanità, mentre le onde dell’oceano sullo sfondo richiamano alla mente il brodo primordiale da cui ha avuto origine la vita.

In Italia il film non ha riscosso molti consensi; del resto non è esente da difetti. S’indaga poco sui motivi che hanno generato lo scenario postatomico: si accenna a un disastro nucleare, a epidemie e carestie, ma l’argomento viene liquidato in poche battute. E vaghi rimangono anche i riferimenti all’umanità superstite al di fuori di New York: Carson e Melinda devono dirigersi verso un’imprecisata isola in cui sembra siano insediati altri sopravvissuti, ma nulla di più viene detto.

L’utilizzo di effetti speciali è limitato e le sequenze di lotta spesso si concludono molto rapidamente, con improbabili colpi mortali e pose troppo composte; sequenze che appaiono poco “realistiche” e poco spettacolari, specialmente se confrontate con le coreografie e i ritmi vertiginosi ai quali il cinema moderno ci ha abituato (si pensi a pellicole come Matrix o La Tigre e il Dragone).

Ad ogni modo, adeguato agli anni in cui la minaccia nucleare era molto sentita, lo scenario violento e disperato descrive bene i timori della guerra fredda: la cancellazione della società, delle istituzioni, della giustizia, dell’arte, della cultura… un’umanità allo sbando, egoista, brutale, apatica, mossa solo alla ricerca di cibo.

Proprio il cibo, in più di un’occasione, diviene metafora di ricchezza e cupidigia, ben simboleggiata nella scena del furto del “pomodoro”, sostituto della mela che causò la cacciata di Adamo ed Eva dall’Eden. Qui il “frutto” mantiene un significato di tentazione che determina il delitto e il castigo, ma al contempo di speranza per una vita migliore, un richiamo a quel Paradiso perduto che l’uomo tenta vanamente di ricostruire.

In un contesto così cupo non rimane spazio per forme di coesistenza pacifiche e civili. Anche all’interno della Comune, nonostante il ripristino di un minimo ordine, si assiste al processo di imbarbarimento, allo sfoggio di rabbia irrazionale nel momento in cui l’individuo si sente minacciato o tradito. Una lettura pessimistica che purtroppo continua a trovare riscontri ancor oggi nei fatti di cronaca vera.

La desolazione materiale viene presentata per mezzo di lunghe riprese statiche che indugiano sulla condizione di abbandono in cui versa New York: edifici deserti e semi distrutti, polverosi e invivibili; veicoli immobili, abbandonati, carcasse di auto e treni privi di carburante ed energia elettrica con cui alimentarli. Nessuno si sforza di sgomberare, pulire, ripristinare, dimostrando così un’ormai totale perdita di interesse verso il futuro.

Ci si accontenta di usare fiaccole, di indossare vesti semplici, a tratti “medievali” al pari delle armi: coltelli, spranghe, catene e balestre. Non ci sono fucili o pistole come invece gli spettatori degli anni Settanta – cresciuti a suon di western e polizieschi – si sarebbero aspettati.

La scelta di non mostrare armi da fuoco non ha condizionato le successive pellicole del filone postapocalittico metropolitano – di cui questo film rappresenta certamente uno dei capostipiti –, basti ricordarne l’ampio uso in Interceptor.

Forte è l’analogia con quel che accade nel futuro postatomico proposto nei manga e negli anime della serie Ken il Guerriero; anche il titolo originale del film, letteralmente “il guerriero finale”, e la fisicità del personaggio interpretato da Yul Brynner richiamano alla mente l’opera di Tetsuo Hara e Buronson.

In ultima analisi, il film rappresenta un prodotto di buona fattura – senza pretesa di essere un capolavoro – di cui si consiglia la visione. Tematiche come il nucleare e la crisi economica sono attuali, mentre lo scenario di un’umanità in decadimento e a corto di risorse si sposa con certe scoraggiate previsioni sul futuro del pianeta. Difficile rimanere indifferenti alla vista di un’umanità priva di fonti d’energia, impossibilitata a godere di quei benefici e di quelle comodità che la vita moderna ha reso oggi indispensabili.

The ultimate warrior - Poster

Tit. originale: The Ultimate Warrior

Anno: 1975

Nazionalità: USA

Regia: Robert Clouse

Autore: Robert Clouse (scritto da)

Cast: Yul Brynner (Carson), Max von Sydow (Barone), Joanna Miles (Melinda), William Smith (Carrot), Richard Kelton (Cal), Stephen McHattie (Robert), Darrell Zwerling (Silas), Lane Bradbury (Barie), Nate Esformes (Garon)

Fotografia: Gerald Hirschfeld

Montaggio: Michael Kahn

Musiche: Gil Mellé

Rep. scenografico: Walter M. Simonds (art direction) | William F. Calvert (set decoration)

Costumi: Ann McCarthy

Produttore: Paul M. Heller, Fred Weintraub

Produzione: Warner Bros.