Gli Osservatori (Those Who Watch | 1967) di Robert Silverberg

Gli Osservatori

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Gli Osservatori (Those Who Watch | 1967) di Robert Silverberg

Anteprima testo del romanzo “Gli Osservatori”

CAPITOLO PRIMO

L’esplosione fu un bagliore lancinante che si stagliò contro lo sfondo oscuro del cielo illune del Nuovo Messico. Per coloro che in quel preciso momento guardavano in alto — e successe a molti, di guardare in alto —

fu come se fosse momentaneamente sbocciata una nuova stella di una incandescenza bianco-azzurra.

Il bagliore si spostò seguendo un percorso da nordest verso sud ovest.

Balenando aumentò d’intensità sulle montagne sacre ad oriente di Taos, e divenne ancor più vivido mentre tracciava una scia approssimativamente al di sopra della valle del Rio Grande, sorvolando i piccoli villaggi polverosi e la laboriosa città di Santa Fe. Proprio a sud di Santa Fe il bagliore si fece insopportabile, e l’improvviso bruciore alle retine costrinse gli osservatori a distogliere gli occhi. Ma subito la fase acuta scemò. Quella vampata ardente si stava consumando da sola, oppure erano le luci della sottostante Albuquerque ad offuscarne l’intensità? Non ha importanza. L’arco luminoso saettò al di là di Isleta Pueblo ed andò a perdersi chissà dove oltre la Mesa del Oro.

Tornò il buio, invadendo nuovamente il cielo del Nuovo Messico come una marea crescente.

Nella vasta piazza del villaggio di San Miguel, sessanta chilometri a sud di Santa Fe, Charley Estancia si stropicciò un attimo gli occhi, per far passare il dolore, e con una smorfia sollevò lo sguardo verso la nera cappa della notte.

— Una stella cadente! — esclamò con la sua vocetta acuta. — Una stella cadente! Bella! Bella! — Rise. Charley aveva undici anni, era magro e sudicio in volto, ed aveva visto spesso le scie irregolari lasciate dalle meteore nel loro tragitto attraverso il cielo. Sapeva che cos’erano, anche se nessun altro, nel villaggio, lo sapeva. Ma Charley non ne aveva mai vista una simile prima d’allora. Sentiva ancora nella testa quel suo rumore sfrigolante, e quella abbagliante linea bianca rimase anche dopo che ebbe sbattuto più volte gli occhi.

Molti altri nel villaggio avevano visto. La piazza era affollatissima, quella sera, perché la settimana successiva ci sarebbe stata la danza della Società del Fuoco, e molti bianchi sarebbero venuti dalle città per assistere, per scattare fotografie e, forse, per spendere del denaro. Charley Estancia udì le esclamazioni soffocate e vide le braccia puntate dei suoi zii, dei suoi cugini e delle sue sorelle.

— Maiyanyi! — esclamò qualcuno. — Spiriti!

Nella piazza cominciarono ad incrociarsi discorsi sui demoni, bisbigli sulla magia nera, ed angosciate esclamazioni di dubbio e di paura. Charley vide due dei suoi zii materni lanciarsi verso il piccolo e rotondo edificio senza finestre chiamato kiva, dove si svolgevano le cerimonie, ed arrampicarsi rapidamente lungo la scaletta per rifugiarsi all’interno. Vide sua sorella Rosita tirar fuori il crocifisso che pendeva tra i suoi seni e portarselo concitatamente contro la guancia, quasi si trattasse di una specie di amuleto.

Vide Juan, fratello di suo padre, che si faceva il segno della croce, ed altri tre uomini che si precipitavano dentro il kiva. Adesso tutti parlavano di spiriti. Il villaggio brulicava di antenne televisive, ed automobili lucenti erano parcheggiate accanto alle case di mattoni cotti al sole, ma bastava una semplice stella cadente per fare impazzire chiunque di una folle e superstiziosa paura. Charley prese a calci il terreno polveroso. Sua sorella Lupe gli passò accanto di corsa, con l’aria atterrita. Allungò una mano e le strinse il polso sottile.

— Dove stai andando?

— In casa. Nel cielo ci sono i dèmoni!

— Certo. Stanno arrivando i kachinas. Faranno la danza della Società del Fuoco perché noi non siamo più capaci di farla come si deve — disse Charley, e scoppiò a ridere.

Lupe non era dell’umore adatto per apprezzare l’ironia di Charley. Si divincolò per liberarsi dalla sua stretta. — Lasciami! Lasciami! — Aveva dodici anni, ed era solo una ragazzina, ma era molto più forte di lui. Gli piantò una mano in mezzo al petto ossuto e spinse forte, tirando contemporaneamente il braccio per sottrarlo alla sua presa. Charley cadde all’indietro e giacque nella polvere, fissando il cielo che ormai era ritornato normale. Lupe fuggì di corsa, singhiozzando. Charley scrollò la testa. Pazzi, tutti quanti. Pazzi di paura, pazzi di religione. Ma perché non dovevano usare il cervello? Perché dovevano continuare a comportarsi sempre come degli indiani? Eccoli lì, che correvano dappertutto come matti, sparpagliando la farina, farfugliando preghiere le cui parole erano per loro semplici suoni senza significato, affollando il kiva, precipitandosi verso la chiesa!

— Una stella cadente! — gridò Charley. — Nulla di cui aver paura! Solo una grossa stella cadente!

Come al solito, nessuno gli badò. Lo ritenevano un po’ svitato, un ragazzetto smilzo con la testa piena dei sogni e delle idee dei bianchi. La sua voce andò perduta nel vento notturno. Si rimise in piedi, rabbrividendo, e si passò le mani sui jeans per toglierne la polvere. Tutto quel panico superstizioso sarebbe stato anche divertente, se non fosse stato così triste.

Ah! Ecco il padre! Charley sorrise.

Il prete uscì dalla chiesetta imbiancata e sollevò entrambe le braccia in quello che, secondo Charley, voleva essere un gesto di conforto. Poi gridò in spagnolo: — Non abbiate paura! Va tutto bene! Venite tutti in chiesa, e state tranquilli!

Alcune donne si diressero verso la chiesa. La maggior parte degli uomini era invece dentro il kiva, ormai, e, naturalmente, le donne non potevano accedervi. Charley osservò il prete. Padre Herrera era un ometto calvo che era venuto da El Paso qualche anno prima, dopo la morte del vecchio prete. E qui aveva i suoi problemi. Tutti a San Miguel erano cattolici romani, ma tutti credevano anche nell’antica religione del «pueblo», e in un certo senso nessuno era veramente religioso. Perciò in quel momento di panico la gente correva in tutte le direzioni, e ben pochi verso la chiesa di Padre Herrera, il che a lui non faceva troppo piacere.

Charley si avvicinò al prete. — Che cos’è stato, padre? Una stella cadente, no?

Il prete si illuminò. — Forse un segno del Cielo, Charley.

— Io l’ho vista con questi occhi! Una stella cadente!

Padre Herrera lo gratificò di un sorriso fugace e vacuo, poi si allontanò, dedicandosi al compito di guidare il suo gregge spaventato nella casa del Signore. Charley si rese conto di essere stato congedato. Il prete aveva detto una volta a Rosita Estancia che il suo fratello più giovane era un’anima dannata, e Charley lo era venuto a sapere. In un certo senso, ne era rimasto piuttosto lusingato.

Charley sollevò speranzosamente gli occhi al cielo. Ma non c’erano più stelle cadenti. Ormai la piazza era vuota; le dozzine di indiani che l’avevano affollata solo pochi minuti prima avevano trovato un rifugio. Charley guardò allora davanti a sé, verso il negozio di articoli da regalo. La porta si aprì, e ne uscì Marty Moquino, con in mano una bomboletta di liquore vaporizzato, ed una sigaretta a penzoloni all’angolo della bocca.

— Dove sono andati a finire tutti quanti? — domandò Marty Moquino.

— Sono scappati via. Spaventatissimi. — Charley soffocò una risatina.

— Avresti dovuto vedere come correvano!

Aveva un po’ paura di Marty Moquino, e lo disprezzava alquanto, ma nello stesso tempo Charley lo considerava come un uomo che aveva fatto molte cose e girato molti luoghi. Marty aveva diciannove anni. Due anni prima aveva lasciato il villaggio ed era andato a vivere ad Albuquerque, e si diceva addirittura che fosse giunto fino a Los Angeles. Era un burlone, un rompiscatole, ma aveva vissuto più di chiunque altro della zona nel mondo dei bianchi. Adesso Marty era ritornato perché aveva perso il lavoro. Si vociferava in giro che facesse l’amore con Rosita Estancia, e Charley lo detestava per questo; eppure sentiva di avere molto da imparare da Marty Moquino. Anche Charley sperava di potersene andare, un giorno, da San Miguel.

Rimasero insieme in mezzo alla piazza vuota, Charley piccolo e magro, Marty alto e magro. Marty gli offrì una

sigaretta. Charley la prese e ne fece scattare abilmente il cappuccio d’accensione. Si sorrisero l’un l’altro come due fratelli.

— L’hai vista? — domandò Charley. — La stella cadente?

Marty annuì, e si spruzzò in bocca un po’ di whisky dalla bomboletta spray. — Ero fuori, sul retro — disse dopo un attimo. — L’ho vista. Ma non era una stella cadente.

— Erano i kachinas che ci venivano a trovare, eh?

Ridendo, Marty disse: — Ragazzo, non sai cos’era quell’affare? Non si è mai vista una stella cadente come quella. Era un disco volante che è esploso sopra Taos!

Kathryn Mason vide la luce nel cielo solo per caso. Di solito, in quelle buie notti invernali, dopo il tramonto se ne stava dentro casa. La casa era calda e luminosa, con tutte le apparecchiature elettroniche che ronzavano sommessamente, ed a lei piaceva starci. Al di fuori poteva nascondersi qualsiasi cosa. Qualsiasi. Ma erano ormai tre giorni che il gattino di sua figlia mancava da casa, e si trattava della più grossa crisi familiare dei Mason da un bel po’ di tempo a questa parte. A Kathryn era sembrato di udire dei flebili miagolii provenire dall’esterno. Ritrovare il gattino era più importante, per lei, che restarsene chiusa dentro, nell’accogliente protezione della sua casa automatica.

Uscì di corsa, sperando contro ogni logica di vedere quel batuffolo bianco e nero che grattava contro lo stuoino. Invece non c’era alcun gattino, là fuori; poi, ad un tratto, una striscia di luce saettò attraverso il cielo.

Lei non aveva modo di sapere che aveva già incominciato a scemare d’intensità. Era la cosa più luminosa che avesse mai visto in cielo, così luminosa che istintivamente si tappò gli occhi con le mani. Un attimo dopo, tuttavia, le tolse e si costrinse ad osservare mentre l’oggetto completava la sua traiettoria infuocata.

Che cosa poteva essere?

La mente di Kathryn fornì una risposta immediata: era la scia di un jet dell’Aeronautica che era esploso, uno dei giovanotti della base di Kirtland, presso Albuquerque, destinato a morte certa nel suo volo di addestramento.

Naturalmente. Naturalmente. E stanotte ci sarebbe stata una nuova vedova da qualche parte, ed un nuovo gruppo di familiari in lutto. Kathryn fu scossa da un brivido. Con sua stessa sorpresa, stavolta le lacrime non vollero venire.

Seguì il tracciato luminoso. Lo guardò curvare verso sud, verso il centro di Albuquerque, e poi lo vide scomparire, perdersi nella diffusa luminosità che si levava dalla città. Istantaneamente Kathryn ipotizzò una nuova catastrofe, poiché nel suo mondo privato c’era sempre qualche catastrofe a portata di mano. Vide il jet fiammeggiante che piombava a mach-tre nella Central Avenue, sconquassando una dozzina di strade, mietendo un migliaio di vittime, facendo esplodere le tubature del gas con violenza vulcanica. Ululati di sirene, grida di donne, ambulanze, carri funebri…

Reprimendo l’attacco isterico — che sapeva essere una cosa stupida —

cercò con più calma di ricostruire ciò che aveva appena visto. Adesso la luce era sparita, ed il mondo era tornato ad essere il solito mondo sempre uguale della sua improvvisa, virginale vedovanza. Le sembrò di udire in distanza un’esplosione soffocata, come di qualcosa che fosse precipitato al suolo. Ma la sua esperienza in fatto di Aeronautica Militare le disse che quella gigantesca scia di luce nel cielo non poteva essere un jet esploso, a meno che non si trattasse di modelli sperimentali con caratteristiche ancora ignote al pubblico. Aveva visto un paio di volte dei jet che esplodevano, e facevano solo una enorme fiammata, ma nulla di simile a quella scia.

E allora di che si trattava? Un razzo intercontinentale, magari, con un carico di cinquecento passeggeri destinati ad una morte tra le fiamme?

Le tornò alla mente la voce di suo marito che diceva: — Ragionaci bene, Kate. Ragiona. — Glielo aveva ripetuto molte volte, prima di rimanere ucciso. Kathryn cercò di ragionare. Il bagliore era venuto dal nord, da Santa Fe o da Taos, e si era mosso verso sud. I razzi intercontinentali seguivano rotte est-ovest. A meno che uno di essi non fosse stato nettamente fuori rotta, la sua teoria crollava. E poi non era pensabile che i razzi potessero andare fuori rotta. I sistemi di guida erano infallibili.

Ragiona, Kate, ragiona. Forse un missile cinese? Era dunque scoppiata la guerra, infine? Ma in tal caso avrebbe dovuto vedere la notte trasformata nel giorno. Avrebbe dovuto sentire la terribile esplosione della bomba a fusione che disintegrava il Nuovo Messico. Ragiona… una specie di meteora, magari? E perché non un disco volante, giunto per atterrare a Kirtland? In quei giorni si parlava tanto dei dischi volanti. Creature dallo spazio, si diceva, che ci osservano, che ci spiano e si interessano di noi. Uomini verdi con tentacoli fibrosi ed occhi a palla? Kathryn scrollò il capo. Forse diranno qualcosa alla televisione, pensò.

Adesso il cielo sembrava tranquillo, come se non fosse accaduto assolutamente nulla.

Si strinse lo scialle attorno al corpo. Di notte, sul limitare del deserto, il vento soffiava forte, come se provenisse direttamente dal Polo. Kathryn viveva nella casa più settentrionale della sua circoscrizione; poteva guardare fuori e vedere a perdita d’occhio soltanto l’arida distesa di assenzio e di sabbia.

Quando lei e Ted avevano comperato la casa, due anni prima, l’agente le aveva detto solennemente che di lì a poco sarebbero state costruite delle altre case più a nord della loro. Non era stato così. Problemi finanziari, mancanza di denaro, qualcosa del genere, e così Kathryn viveva ancora sul confine tra il qualcosa ed il nulla. A sud c’era la città di Bernalillo, un sobborgo di Albuquerque, e la civiltà si stava estendendo in una striscia sempre più ampia lungo la Superstrada 25 da Albuquerque fino a lì. Ma verso nord non c’era nulla: solo terra sconfinata piena di coyotes e di Dio solo sapeva che altro. Con tutta probabilità i coyotes avevano divorato il gattino di sua figlia. Al ricordo del gattino, Kathryn strinse i pugni e tese ancora una volta l’orecchio, per udire i deboli suoni che l’avevano inizialmente fatta uscire di casa.

Nulla. Udì soltanto il frusciare del vento, o forse l’ironico cantilenare dei coyotes. Sollevò cautamente lo sguardo al cielo, poi, di scatto, si voltò e rientrò in casa, chiuse la porta, girò la chiave, premette il pollice sull’interruttore del sistema di allarme ed attese che…

Gli osservatori - Copertina

Tit. originale: Those Who Watch

Anno: 1967

Autore: Robert Silverberg

Edizione: Editrice Nord (anno 1980), collana “Cosmo Argento” #99

Traduttore: Maurizio Nati

Pagine: 170

Dalla copertina | Gli osservatori è la versione di una storia sugli UFO fatta da uno scrittore di talento come Robert Silverberg: una vicenda in apparenza trita e banale diventa nelle sue mani un racconto avvincente i cui protagonisti spiccano con figure vive e reali dalla carta stampata. In una notte illune del 1982 il cielo del Nuovo Messico viene vivacemente illuminato da un’improvvisa esplosione: una stella lucente fiorita in un lampo biancazzurro che si muove da nordest verso sudovest, sopra la valle del Rio Grande ed i polverosi piccoli puebli, va a spegnersi dopo l’ultima accecante vampata nei pressi di Albuquerque.
Ma soltanto tre esseri umani scopriranno che la stella cadente apparsa in cielo è in realtà un disco volante precipitato sulla Terra per un’avaria ai motori, soltanto Charley Estancia, il giovane messicano del pueblo di San Miguel dalla sveglia intelligenza, Kathryn Mason, la vedova melanconica e solitaria di Albuquerque, e Tom Falkner, colonnello delle forze aereeamericane, vedranno con i loro occhi gli alieni venuti dalle stelle, gli osservatori extraterrestri che studiano e controllano lo sviluppo della civiltà umana. Soltanto loro sapranno del pericolo che corre la Terra e potranno impedire lo scoppio di un conflitto galattico. Una storia umana e affascinante che solo un maestro come Silverberg poteva.