Heliopolis (1949), di Ernst Jünger
INTRODUZIONE
L’incontro di due culture straniere l’una all’altra – straniere per lingua, se non per tradizione – non è immune dal pericolo di deformare i contorni e le fisionomie degli scrittori la cui conoscenza è legata a una traduzione e, spesso, a una frettolosa presentazione; il male minore che possa accadere è il tradimento dei legittimi rapporti esistenti tra scrittori poco noti e difficilmente leggibili nel testo originale. Ciò avverrebbe anche dove non esistesse la tendenza sfrenata a tradurre dalle lingue straniere il più possibile, dai presunti capolavori alle cose palesemente banali; avviene tanto più dove tale tendenza esiste, e il costume della cultura italiana non è, a questo proposito, fra i migliori. Di qui, le fame usurpate, o, più raramente, le vere grandezze misconosciute; di qui, gli scrittori indebitamente giudicati «maggiori» o «minori» perché più o meno estesa e frequente è la loro presenza.
Fino al principio degli anni Settanta, ossia, se vogliamo essere franchi, fino al salutare sommovimento prodotto dagli scritti jungeriani che Rusconi proprio allora cominciò a pubblicare, il pubblico italiano possedeva, generalmente, poche notizie e poche idee, e ulteriori ostacoli nascevano dai contatti non agevoli tra la nostra cultura e quella tedesca. Non mancavano saggisti di prestigio, fiancheggiati da occasionali e alquanto disorientati recensori, i quali attribuivano a Jünger il ruolo di scrittore medio o men che medio, se non minore: più una curiosità che non l’esponente di uno stile, di una concezione della letteratura, di una visione del mondo. D’altra parte, fervidi e fedeli cultori, attratti anche ex converso dalle dure denunce mosse contro Jünger (bersaglio scelto fra molti, e quindi consacrato e privilegiato dal flusso ostile) da gran parte degli scrittori «democratici» di lingua tedesca, lo giudicavano un maestro inimitabile.
Oggi gli equilibri sono mutati. La morte di Jünger, avvenuta nel 1998, quando lo scrittore era prossimo ai centotré anni d’età, ha dissolto quasi interamente il velo di ostilità, lasciandone rare ma persistenti tracce. Le circostanze di quella morte furono tali da suscitare simpatia e ammirazione in chi era stato distante e freddo, e da accentuare la venerazione degli strenui cultori di sempre. Negando recisamente che Jünger sia una mera curiosità nella fitta selva della letteratura tedesca del Novecento, dichiariamo di non credere che egli possa essere mai maestro in un’aula affollata. Ci duole deludere o frustrare tanti lettori entusiasti, ma sarà sempre esiguo il numero di coloro che sapranno comprendere il vero significato di ciò che Jünger ha voluto dire, e che si compendia nell’intento di farci vedere in trasparenza, attraverso il mondo divenuto diafano grazie all’azione della prosa jüngeriana, una scala illimitata di qualità ordinate secondo superiorità e inferiorità individuali, inevitabili e non offensive: semmai, confortanti. Si può ancora parlare di Jünger maestro? O di Jünger destino? La sua figura è piuttosto quella di uno che, aristotelicamente, si nasconde dietro la propria opera (ho plàsas efànisen), e nello stesso tempo la sua opera è un ritratto in cui tutta una parte della cultura europea, delimitata ma ben qualificata, potrebbe riconoscersi. Il giovane Jünger partì da una reazione negativa contro la borghesia, classe rivoluzionaria per eccellenza se si guarda alla diffusione e all’estensione dei fenomeni che essa, nella storia, ha prodotto, mutato e influenzato, ma pavidamente rivoluzionaria se si guarda alla sua scarsa consequenzialità, al suo fermarsi a mezza strada, al suo farsi, da rivoluzionaria, conservatrice. Jünger si avvide presto che la borghesia possiede un’incredibile capacità di distruzione, e in questo senso va intesa la sua nota asserzione che «è meglio essere un delinquente che un borghese». Infatti il delinquente non riesce a scansare, in quanto individuo, i rischi e gli addebiti, mentre il vivere borghese tende innanzitutto alla distruzione di un concetto prezioso, la responsabilità, e mira a creare intorno a ciascun uomo e a ciascun gruppo o istituzione un muro protettivo di assicurazioni, di cautele, di puntelli. Jünger odiò le mediazioni offerte dalla civiltà borghese, e cercò la via del rischio e del confronto immediato. Come è noto, questa scelta ebbe sbocchi rapidi e netti: la fuga dalla sicura tranquillità quotidiana, la Legione Straniera, la partenza volontaria per il fronte. Sarebbe un errore considerare questi atti come manifestazioni di irrequietezza poco consapevole o di vitalismo romantico: chi conosca il primo Jünger, chi abbia letto Nelle tempeste d’acciaio o Der Kampf als inneres Erlebnis, sa che essi derivano dal desiderio di sottoporre se stessi a quella prova definitiva che la società in cui Jünger era nato gli negava. Pure, sentiamo che queste scelte giovanili, e a lungo giustificate dallo scrittore, erano carenti di verità, monche e zoppicanti, perché la vita avventurosa e militare e la stessa guerra, realtà sostanzialmente povere e mediocri, e accidentalmente (e frequentemente) occasioni di infamia, non possono essere la vera prova della nostra qualità. E questo è appunto uno dei misfatti della civiltà borghese e in genere moderna, la quale sembra suggerire e legittimare contro se stessa, come unica arma possibile, l’azione; o almeno, così appare a coloro che, pur ribellandosi, non posseggano proprio una fortissima capacità di ricostruire un’alternativa di civiltà, un altro vivere, ma non solo nelle conseguenze, bensì anche nei principi. Perciò è onesto prendere atto della debolezza di Jünger, che alle suggestioni dell’azione non seppe resistere, così come sarebbe stato doveroso ricordare, a lui e ad altri, che la contemplazione può essere più eroica e più urgente dell’azione, perché la seconda può al massimo cancellare parzialmente il male, mentre la prima può anche tagliarne le radici e impedire per molto tempo che esso si riproduca. E questo può valere anche per il destino di uno scrittore, la cui grandezza si misura spesso non tanto nella ribellione quanto nella rassegnazione al generale dissenso e al silenzio.
Ma non taceremo dei meriti di Jünger, grazie ai quali noi ora stiamo parlando di lui. In primo luogo, la decisione con cui egli usa i giudizi di bene e di male, e la sua tendenza a farne dei modelli viventi, dei personaggi. Di qui deriva una conseguenza importante, e cioè il fatto che probabilmente il meglio di Jünger è nei romanzi e nei racconti, dove il male viene identificato in figure delimitate e riconoscibili, come il Forestaro in Sulle scogliere di marmo o il podestà in Heliopolis. Non sfuggirà la differenza tra i romanzi jüngeriani e i romanzi borghesi dell’Ottocento. Opera della borghesia è anche la distruzione degli stili, soprattutto dello stile epico, e quindi dell’epica come genere, nonché la progressiva distruzione dei segni che additano e distinguono gerarchie di qualità. Inoltre, parole come «stile», «epica», «significato» hanno un senso soltanto se presuppongono un criterio di bene e di male. Nei romanzi di Jünger dobbiamo riconoscere l’esistenza di uno stile, ben diverso dall’indistinto fluire di momenti molteplici tipico della narrativa naturalistica o postnaturalistica; esso si avvicina consapevolmente allo stile epico nella misura in cui assumono forza i significati e svaniscono o si chiariscono le ambiguità.
A Jünger spetta un secondo riconoscimento, che ci offre l’occasione per parlare ormai soprattutto di Heliopolis. In questo romanzo, che è, insieme con Sulle scogliere di marmo e Eumeswil, uno dei tre massimi testi narrativi dell’autore, è descritta non già un’utopia, una società perfetta, bensì una società imperfetta come la nostra, traboccante di male, in cui però c’è qualcosa di diverso, come se il nostro mondo avesse percorso la stessa strada compiuta nella sua storia, ma con qualche lievissima variante, sufficiente a renderlo dissimile in certi aspetti essenziali. In un mondo così immaginato, quale è quello di Heliopolis, esistono forze e tendenze capaci di ricostruire ciò che è stato distrutto e di ricuperare ciò che è stato perduto. Il culto della velocità è in decadenza, e le modernissime navi dalla linea dinamica sono state abbandonate per ritornare a vascelli più lenti e più adatti alle misure dell’uomo; i mezzi di trasporto pubblico rallentano la corsa e fanno soste non comprese nell’orario ufficiale se i viaggiatori non desiderano arrivare troppo presto; il pubblico amante delle belle arti rifiuta recisamente i musei come istituzione, e si oppone a che le chiese vengano trasformate in gallerie d’arte; il proconsole, personaggio che nel romanzo rappresenta una forza benefica, afferma che una politica vera e giusta è possibile soltanto se è preceduta dalla poesia; fra gli alti ufficiali dell’esercito si fanno strada forti tendenze verso la metafisica, peraltro contrastate dai burocrati; la filosofia dominante è contraria all’idea di progressivo sviluppo economico. Nel primo capitolo del romanzo, il consigliere minerario dice al protagonista che l’universo è come un diamante tagliato in un certo modo, secondo uno solo fra gli infiniti tagli possibili; ebbene, il mondo descritto in Heliopolis è come un cristallo con un taglio lievissimamente meno inclinato rispetto al nostro. Merito di Jünger è di avere mostrato il meglio non come utopia, ma come possibile: i mali permangono, nello Stato di Heliopolis, ma le scelte degli uomini sono leggermente più sagge, quanto basta per essere immensamente diverse.
Un terzo merito di Jünger riguarda più da vicino il tema centrale di Heliopolis. La saggezza ha come condizione la rinuncia, la rinuncia ha come regola la disciplina. Ma il mondo moderno, svigorito dalla tabe liberale, è un mondo che da tempo ha incominciato a sostituire la disciplina con la produzione, e la lealtà con l’efficienza, col risultato di essere dominato sempre meno dall’autorità e sempre più dalla forza spiccia e brutale. Jünger ravvisa un possibile modello superstite di disciplina e di lealtà nella vita militare, che continua a essere per lui, anche per i suoi anni maturi, un esempio di virtù esercitata con rigore. Tuttavia, egli sa distinguere bene tra disciplina e cieca obbedienza, tema scottante, questo, per la storia recente della Germania. Tra i due termini non c’è opposizione, ché la disciplina esige anche che si sia pronti all’obbedienza: sempre però dopo avere accettato dei fini comuni, che possono anche essere né scritti né pronunciati, ma che devono essere proposti da un’etica e non da una politica. Senza l’accettazione di tali fini l’obbedienza è, appunto, cieca. Si leggano in proposito i discorsi rivolti dal generale e da Lucius, il protagonista, agli allievi della Scuola di Guerra, in un capitolo tutto dominato dal severo tema della servitù e grandezza militare. Alfred de Vigny, nel pieno trionfo della borghesia liberale, aveva visto nell’esercito l’unica istituzione che conservasse in sé qualcosa di aristocratico; senza dubbio Jünger, in Heliopolis, continua a vedere nell’esercito l’unica istituzione moderna che conservi ancora qualche traccia di religiosità.
Ma proprio qui ci troviamo di fronte a un nodo difficile a sciogliersi, che può essere insieme il limite decisivo o il chiuso segreto di Jünger, e nello stesso tempo ci offre due modi alternativi di leggere i suoi scritti. Potremmo osservare, per esempio, che il carattere religioso dell’istituzione militare è presunto e apparente, e che Jünger si è lasciato affascinare dall’ordine, quasi del tutto assente da un mondo in preda al disordine organizzato, e presente, ancora e nonostante tutto, nell’esercito, al quale l’ordine garantirebbe il mantenimento di una gerarchia, di uno stile di vita, di un sistema di segni e di significati. E allora dovremmo dichiarare che ciò è falso, perché nell’istituzione militare le gerarchie, lo stile di vita, i segni sono mere convenzioni prive di valore etico, e non derivano direttamente da alcuna filosofia: anche Tacito lo sapeva bene. Secondo questa interpretazione, che è certo riduttiva ma è anche letterale, Jünger mirerebbe a scoprire e a restaurare un ordine, nella convinzione che l’ordine possa e debba essere sempre visibile; e questo sarebbe un atteggiamento condannato a scontrarsi con la propria nemesi, perché il suo destino più frequente consiste non tanto nel riconoscere l’ordine, quanto nel privilegiare ciò che potrebbe rendere visibile l’ordine. La convinzione di Jünger, se fosse tale, sarebbe incompatibile con un atteggiamento veramente religioso, e con il primato di quell’invisibile la cui conoscenza è data soltanto per approssimazione.
Partendo da questa interpretazione si potrebbero spiegare altri indirizzi devianti e altre zone oscure del pensiero di Jünger. Leggendo i suoi scritti, ci sembra talvolta che egli suggerisca come la libertà dell’uomo possa essere tutta la libertà 2, secondo una formula schiettamente umanistica (e Jünger, è probabile, respingerebbe con forza la taccia di umanista). Diciamo questo nel senso che possedere tutta la libertà significa anche disporre di tutti i mezzi atti a rivelare le connessioni tra le cose più diverse e segrete, e questo è un disegno che è sempre stato ricco di fascino per Jünger.
Ma è veramente, quella che abbiamo dato, la giusta chiave di lettura? In realtà, nel momento stesso in cui lo scrittore si sforza di rivelare, esercitando il suo stile freddamente preciso, l’ordine più segreto presente nel microcosmo, si ha l’impressione che nelle sue pagine ingigantisca un altro segreto, che una sorta di freno o di pudore gli impedisce di nominare. Chi ha letto Sulle scogliere di marmo può ritenere che i discorsi di fratello Ottone all’eremo della Ruta siano un alto e saggio esercizio di vita per questo mondo, e null’altro; ogni riferimento alla trascendenza sembra, più che assente, sospeso. Un giardino in cui si china con pazienza il capo a terra, per guardare i fiori, e dove, per discrezione o per riverente timore, nessuno osa levare gli occhi al cielo; monasteri senza preghiere; confraternite senza voti pronunciati.
Eppure l’equilibrio immanente non si regge, perché c’è anche il male, c’è anche il Forestaro; e questo è ben visibile, e le forze benefiche sono troppo deboli per fronteggiarlo. Jünger sembra lasciare la risposta al lettore, perché sia lui a concludere. Ma già un’altra risposta più forte viene da altri scritti: per esempio dal Diario, ma soprattutto da Heliopolis. Forse proprio in questo romanzo esiste ciò che può confortare a un altro modo di leggere Jünger, e indicheremo come pagine decisive quelle del capitolo «L’apiario», dove padre Felix, spiegando a Lucius le leggi a cui uno sciame d’api si assoggetta, definisce con linguaggio non velato una teologia a lungo attesa. Nella vita delle api c’è qualcosa di atroce e di iniquo, osserva Lucius. Ma, replica padre Felix, le api non sono gli uomini, che riconoscono in sé il bene e il male; pure, anche nella vita degli uomini c’è molto di atroce e di iniquo. Come si accorda questo con i piani divini? In questa domanda e nelle risposte successive si smorza una tensione a lungo accumulata: gli assassinii, le guerre, le notti di San Bartolomeo rientrano nei disegni divini, ma sono al di fuori della legge divina. Chi colmerà questo squilibrio? Qualcuno deve pagare, qualcuno deve essere sconfitto. Ed ecco il consiglio; sii tu a essere sconfitto, accetta di subire tu il tuo sacrificio.
Non possiamo garantire che sia questo il modo giusto di leggere Jünger, e chi leggerà Heliopolis dovrà rassegnarsi ancora una volta all’ambiguità presente in lui. E’ un’ambiguità che tollera, in un corpo di opere costruite con rigore, alcune maglie troppo larghe, attraverso cui riesce a passare qualcosa di spurio; per esempio, la sedazione estetica, la quale fa sospettare che il ricupero e la riscoperta progettati da Jünger mirino forse all’oggetto giusto, che è l’oggetto della tradizione, ma non attraverso le vie più giuste, che sarebbero anche le più brevi e dirette 3. È probabile, comunque, che la conoscenza di Heliopolis riesca, se non a togliere tutti gli equivoci, almeno a dire qualche parola in più, e nel senso che riteniamo il migliore. E i lettori italiani che conoscano doverosamente Sulle scogliere di marmo e magari abbiano superato con fatica quel terreno irto d’ostacoli che è Eumeswil, aggirando così la seconda stazione della trilogia narrativa, troveranno in Heliopolis enigmi meglio decifrabili e vie più nettamente tracciate.
Quirino Principe
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PRIMA PARTE
Il ritorno dalle Esperidi
Nella cabina, cullata da un dolce rollio e scossa da un lieve fremito, era buio. Su in alto un gioco di linee luminose si agitava ruotando. Scintille d’argento si disseminavano lucenti e tremule, si incontravano di nuovo liberamente e si univano trasformandosi in onde. Generavano forme ovali e raggiere che impallidivano verso l’esterno, riconfluivano al centro, crescevano in lucentezza e rapidamente scomparivano come lampi verdi inghiottiti dall’oscurità. Le onde riapparivano sempre e si allineavano leggere e veloci. Formavano un tessuto a disegni che ora si facevano più netti ora si cancellavano, a seconda che la nave si alzava o si abbassava. E il movimento produceva sempre nuove forme.
Le figure sfilavano come sopra un tappeto che uno scotimento continuo svolge e riavvolge. Sempre dissimili fra loro non si ripetevano mai, e tuttavia si assomigliavano come le chiavi che aprono stanze segrete o come il motivo conduttore di una sinfonia che descrive o commenta la trama di un’azione. Un lieve brusio le accompagnava scandendo il tempo, un brusio simile al battito di flutti lontani e al ritmo di vortici che si ode su coste rocciose. Scaglie di pesci brillavano, un’ala di gabbiano traversò l’aria pregna di salsedine, le meduse tendevano e allentavano le ombrelle, le foglie di una palma da cocco si dondolavano al vento. Ostriche perlifere si aprivano alla luce. Nei giardini del mare si agitavano i fuchi crespati bruni e verdi e i ciuffi purpurei delle ninfee. La fine sabbia cristallina delle dune si sollevava come polvere.
Ma ecco comparire una vera e propria immagine: una nave scivolava lentamente sul soffitto. Era un clipper dalle vele verdi, ma appariva capovolto e poggiava sull’albero maestro, mentre le onde spumeggiavano intorno alla chiglia arricciandosi come nuvole. Lucius ne seguì con lo sguardo il veleggiare sospeso.
Egli amava questo quarto d’ora di oscurità artificiale, questo modo di prolungare la notte. Già quand’era bambino se ne stava a letto nella sua camera con la finestra velata da una fitta tenda. Questo non piaceva né ai suoi genitori né ai suoi istitutori, che volevano invece spingerlo alla vita attiva che si suole condurre nei Castelli, dove la sveglia viene data a suon di tromba. Si riconobbe però, in seguito, che la tendenza verso una natura chiusa e sognante non gli nuoceva. Lucius era di quelli che si alzano tardi, ma che portano presto le cose a compimento. Gli era più agevole e meno faticoso lavorare alla periferia dei centri abitati dove il movimento era meno intenso. La disposizione alla solitudine, all’ascolto silenzioso e alla tacita contemplazione in boschi profondi, lungo le rive del mare, sulle cime dei monti o sotto la volta stellata del cielo, era una dote che gli infondeva, anzi, un senso di forza, anche se gli procurava un leggero velo di malinconia. Così avvenne fino alla seconda metà della sua vita, fino a quando, cioè, non ebbe compiuto il quarantesimo anno di età.
Il veliero verde scomparve; al suo posto emerse, sempre capovolta, una rossa nave cisterna, un modello antiquato del mondo insulare. Ci si avvicinava al porto, le navi aumentavano di numero. Una breve fessura dell’oblò ne faceva cadere le immagini come in una camera oscura, capovolte. Lucius godeva della loro vista come se, in una sala di proiezione, contemplasse il mondo ridotto a una visione fantomatica, a puro spettacolo.
L’acqua del bagno era stata riscaldata dall’energheìon. Il suo plancton viveva ancora e con la propria fosforescenza ne accresceva il calore. Le piccole onde rilucevano là dove urtavano contro le maioliche; il corpo, poi, appariva avvolto da una tenue luce, da una patina fosforea. Le curve delle articolazioni, le pieghe della pelle e i contorni della persona si stagliavano come tracciati da una matita d’argento; la peluria delle ascelle aveva riflessi di musco verde. A volte Lucius muoveva le membra, e allora esse risplendevano più vividamente. Egli osservava che nelle dita delle mani e dei piedi le unghie si andavano formando, come avviene nel grembo materno; vedeva l’intreccio delle vene, lo stemma dell’anello alla mano sinistra.
Alla fine, il suono di un corno annunciò che si stava preparando la colazione. Lucius si alzò; una lieve luce inondò le pareti. Apparve una piccola stanza da bagno con una vasca incavata nel pavimento e un lavamano di porcellana. Lucius aveva la pelle fortemente arrossata per la salsedine; sotto il getto di acqua dolce della doccia ne rimosse i residui. Poi si avvolse nell’accappatoio e si diresse verso il lavamano.
Fra gli oggetti estratti dal nécessaire c’era il radiotelefono. Lucius lo prese e con il pollice girò la rotellina delle comunicazioni fisse. Dalla cavità a forma di conchiglia del piccolo apparecchio scaturì subito una voce:
«Pronto, sono Costar. Ai suoi ordini».
Seguirono i soliti dati di prammatica nei viaggi di mare: longitudine e latitudine, velocità della nave, temperatura dell’aria e dell’acqua.
«Va bene, Costar. E’ pronta l’uniforme?»
«Sì, comandante; aspetto qui.»
Lucius compose un altro numero. Si udì allora un’altra voce dal timbro più chiaro.
«Pronto, è Mario che parla. Comandi!»
«Buon giorno 1, Mario. E’ pronta la macchina?»
«Pronta. Ho controllato tutto.»
«Mi aspetti alle dieci e mezzo sul molo di Stato. La nave approderà in orario.»
«Certo, comandante. Pare che ci siano disordini in città. I reparti di guardia sono in allarme.»
«E quando mai in città non ci sono disordini? Non si allontani dal Corso e si faccia dare un accompagnatore. Passo.»
Lucius si cosparse il volto con uno strato di bianca schiuma e girò l’interruttore in modo da avere una luce più forte. Poi fece scorrere sulle guance e sul mento il fine reticolato che proteggeva le lame ricurve del rasoio. Come sempre gli accadeva, gli venivano in mente, nel radersi, piacevoli pensieri. Vedeva le bianche ammoniti nella rossa pietra cornea e provava l’antico senso di sicurezza della loro rocca di diaspro. Pensava, inoltre, alle gite fatte con il suo maestro Nigromontanus sulla riva del fiume, e ai fiori che mutavano con le stagioni. A ogni svolta della strada il rosso castello spiccava in una prospettiva sempre nuova. Là, sempre là si doveva rimanere… Perché mai ci si allontana da un luogo simile?
La voce del corno ruppe il silenzio per la seconda volta. Tutti erano già ai loro posti. Lucius era in ritardo. Aveva aperto la porta della cabina nella quale Costar l’attendeva. Costar aveva disposto sul letto i vestiti e aiutò Lucius a indossarli dopo avergli pòrto la biancheria di fine seta verde chiaro. L’uniforme era un po’ più scura, di un verde smorto, simile a quello della brughiera, e bordata di un sottile passamano d’oro. Era il costume dei cacciatori a cavallo. Da poco tempo Lucius aveva ricominciato a portarlo, dopo essersi dedicato per lunghi anni agli studi e ai viaggi. In questa compagnia prestavano servizio, fin dai tempi antichi, i giovani nati nella Terra dei Castelli. Essa era considerata la roccaforte della fedeltà; forniva i corrieri che dovevano consegnare messaggi e scritti segreti. Gli ufficiali della compagnia erano al seguito dei capitani e dei proconsoli; accanto alle uniformi purpuree degli alti gradi comparivano sempre due o tre di questi verdi cacciatori. Essi venivano messi a parte di importanti segreti ed erano spesso messaggeri di ambascerie decisive. In questo periodo di interregno nel quale tutto minacciava di frantumarsi, quel piccolo corpo di soldati era come una morsa che…
Tit. originale: Heliopolis – Rückblick auf eine Stadt
Anno: 1949
Autore: Ernst Jünger
Edizione: Rusconi (anno 1972)
Traduttore: Marola Guarducci
Pagine: 434
Dalla copertina | Heliopolis è una città lontana, proiettata in un futuro che la tecnica domina in modo onnipervasivo. Teatro delle passioni umane in cui confluiscono frammenti del nostro tempo, la città è scossa da uno scontro di potere ai vertici del regime. Tradizioni venerabili e antiche comunità sono spazzate via dalle infallibili armi dell’esercito ma l’apparato tecnologico, che miete le sue vittime in nome del progresso, sa anche preservare la memoria del passato, grazie a potenti apparecchiature che archiviano l’intero scibile umano. Il comandante Lucius, protagonista del romanzo, si dibatte nelle contraddizioni di un’utopia malata. oscillando tra il culto della disciplina e l’attrazione per Budur. donna sfuggente e altera, immagine dell’amore salvifico. Romanzo visionario, sinistra prefigurazione e insieme una delle prove narrative più alte dello scrittore tedesco. Heliopolis fu pubblicato da Jünger nel 1949.