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1. La Costa d’Oro
«Lì c’è oro, Wayne, polvere d’oro ovunque! Svegliati! Le strade d’America sono lastricate d’oro!»
In seguito, quando affiancarono l’ Apollo al molo derelitto della Cunard, alla punta inferiore di Manhattan, Wayne doveva ricordare, alquanto divertito, la frenesia con la quale McNair aveva fatto irruzione nella veleria.
L’ufficiale di macchina gesticolava come un matto, la sua barba palpitante come una lanterna dallo stoppino troppo lungo.
«Wayne, è tutto come avevamo sognato! Dacci un’occhiata, anche se rischia di accecarti!»
Per poco non aveva rovesciato Wayne giù dall’amaca. Wayne, puntellandosi al soffitto di metallo, aveva fissato la barba luminosa di McNair.
Una irreale luminosità ramata riempiva il locale delle vele, avvolgendolo di balle di tappeti dorati, quasi la nave fosse incappata nell’occhio di un ciclone radioattivo.
«McNair, aspetti! Meglio sentire il dottor Ricci, prima! C’è il rischio…»
McNair, però, se n’era già andato, pronto a mettere a soqquadro la nave.
Wayne lo sentì gridare qualcosa ai due stupefatti fuochisti nella carbonaia.
Mentre egli aveva dormito tutto il pomeriggio — reduce da un lungo turno di guardia notturno terminato alle otto di mattina — l’ Apollo aveva gettato l’ancora a mezzo miglio dalla riva di Brooklyn, presumibilmente per dar tempo alla professoressa Summers e ai componenti scientifici della spedizione di controllare l’atmosfera. Adesso erano pronti a riprendere la rotta e a entrare nel porto di New York, loro primo approdo dopo il viaggio iniziato a Plymouth.
I verricelli cigolarono lamentosi, le catene dell’ancora scivolarono lungo le rugginose piastre di prua. Wayne si calò giù dall’amaca e si vestì in fretta, con una sbirciata nello specchio fessurato, sulla porta. Il riflesso gli restituì un viso patinato d’oro, un paio di occhi vividi e ansiosi al di sotto di una zazzera bionda da angelo timido. Quando raggiunse la coperta, una nuvola di fuliggine si riversò dal fumaiolo e coprì la vela di prua di centinaia di lucciole morenti. Equipaggio e passeggeri affollavano l’orlo di murata, nell’attesa impaziente, mentre le vetuste macchine dell’ Apollo, chiaramente sfinite dalle sette settimane di viaggio attraverso l’Atlantico, ansimavano contro la pigra acqua costiera.
Rimproverandosi — già stava tremando d’eccitazione come un bambino
— Wayne scrutò la costa che sembrava attrarlo con una sua forza magnetica. Un’immensa distesa lucente e dorata inguainava la linea costiera di Brooklyn, riflessa dai moli e dai magazzini silenziosi. Il sole pomeridiano premeva sulle vie di una Manhattan deserta, aggiungendo il suo splendore alla distesa luminosa lì sotto. Wayne ebbe quasi l’impressione che quelle strade e le serpentine di scorrimento veloce si fossero pavimentate, in preparazione del loro arrivo, con i più rari tesori.
A poppa dell’ Apollo, si stagliava in lontananza l’arco poderoso del ponte sospeso di Verrazzano al di sopra dello Stretto, una visione da lungo tempo familiare a Wayne dalle vecchie diapositive della Biblioteca della Società Geografica di Dublino. Aveva guardato per ore e ore le fotografie e del ponte e di mille altre immagini dell’America, ma era impreparato alla grandezza spettacolosa e alla forma misteriosa di quell’artefatto. Che — in certo qual modo — era riuscito a esagerare la propria mole durante il lungo secolo di oblìo generale. Molti dei cavi verticali avevano ceduto, e l’immensa struttura dalle tonalità di rame, coperta ora di ruggine e verderame, assomigliava a un’arpa inoperosa che avesse vibrato la sua ultima musica per il mare indifferente.
Wayne contemplava la metropoli sempre più vicina, di nuovo incapace di riconciliare lo spettacolo che aveva davanti con l’immagine di Manhattan profilata all’orizzonte, quale aveva sognata a occhi aperti nel buio della sala di proiezione della biblioteca. Dozzine di torri a cercare il cielo, soffuse di luce pomeridiana. Anche a tre miglia di distanza, le pareti di vetro di quei colossali edifici brillavano come specchi di bronzo, quasi che le vie ai loro piedi fossero lastricate di lingotti. Wayne poteva individuare il vecchio Empire State Building, venerabile patriarca della city, le due colonne gemelle del World Trade Center, i 200 piani della Torre OPEC che dominava Wall Street, con l’insegna al neon che puntava verso la Mecca. Insieme, disegnavano il familiare profilo a sfondo di cielo, i cui vertici e canyon Wayne conosceva ormai a memoria, e che ora parevano trasformati da questo sogno d’oro.
Sentì di nuovo McNair vociare ai fuochisti attraverso i boccaporti della sala macchine.
«Dio buono, avrete bisogno di qualcosa di più delle vostre pale! Deve essere uno strato alto quindici centimetri, soffiato fin qui pari pari dagli Appalachi!»
Wayne si mise a ridere forte: la riva ricolma di oro. La frenesia di McNair era contagiosa. Sebbene solo venticinquenne, appena quattro anni più di Wayne, l’ufficiale di macchina si compiaceva di esibire un’aria distaccata e annoiata dal mondo, specie quando doveva fare da cicerone a visitatori della sua detestata sala macchine, dalle caldaie alimentate a carbone, dagli strani pistoni e aleatorie bielle, la cui nascita risaliva al diciannovesimo secolo. Tuttavia, McNair conosceva il mestiere, e riusciva a far marciare ogni cosa. A dargli una leva, avrebbe mosso il mondo, se non l’SS Apollo. Edison e Henry Ford sarebbero stati fieri di McNair.
Con tutto il suo umore mutevole, l’ufficiale di macchina era stato il primo a dimostrarsi amico nei confronti di Wayne, dopo che il giovane clandestino era stato scoperto, dal dottor Ricci, tremante sotto l’incerata della iole del comandante, a due giorni dalla partenza da Plymouth. Era stato McNair a intercedere presso il capitano Steiner, e a far trasferire l’amaca di Wayne dall’umido acquaio dietro la cambusa al più accogliente tepore della piccola veleria. Forse McNair aveva visto nella determinazione di Wayne di raggiungere gli Stati Uniti qualcosa della propria intensa esigenza di evadere dalla spossata Europa a luce di candela, con le interminabili fasi di razionamento al limite della sopravvivenza, con la sua totale mancanza di incentivi e opportunità.
Né in questo McNair era l’unico — l’ Apollo trasportava un invisibile carico di sogni e motivazioni private. Mentre il fumaiolo scaricava fuliggine sulle loro teste, i passeggeri in fitta linea al parapetto, a destra e a sinistra di Wayne, erano lì, adesso, indicando silenziosi le coste dorate di Manhattan, Brooklyn e la riva di Jersey, in reverenziale timore del benvenuto dato da un continente a lungo ignorato.
Poi Wayne udì il piccolo Orlowski, capo e responsabile della spedizione, sollecitare con impazienza il capitano Steiner perché si aumentasse la pressione di macchina. La voce di Orlowski aveva perso, per il momento, l’accento americano che aveva inquinato le sue vocali di Kiev durante il viaggio. Attraverso un minuscolo megafono da tasca, il russo stava gridando:
«Avanti tutta, capitano! Stiamo tutti aspettando lei! Non cambi idea proprio adesso…».
Ma Steiner, come sempre, non faceva una piega. In piedi sul suo ponte, di fianco al timoniere, le gambe ben divaricate, stava rimirando placido la riva dorata, come uno sperimentato viaggiatore che valutasse un miraggio.
Muscoloso e compatto, dalle mani stranamente delicate, era tra i quaranta e i cinquanta, e aveva prestato servizio per quasi vent’anni nella Marina israeliana. Abile giocatore di scacchi, mai disposto a sprecare una mossa, matematico dilettante e navigatore provetto, Steiner aveva reso perplesso Wayne sin dal primo incontro-scontro, allorché, da sotto l’incerata della scialuppa, s’era sentito soppesare dagli occhi severi del capitano.
Wayne era sicuro che Steiner, come ogni altro a bordo dell’ Apollo, accarezzava segrete ambizioni tutte sue. Dopo averlo scoperto nascosto nella scialuppa, il capitano si era fatto condurre Wayne in cabina. Mentre Steiner richiudeva in cassaforte la pistola sequestrata al dottor Ricci, Wayne aveva intravisto, sul ripiano inferiore della cassaforte stessa, un pacco —
accuratamente legato da un nastro — di vecchie riviste Time e Look, le cui pagine ingiallite eran compresse come lamine di rame, fossili di un’America svanita cento anni prima. Poi, quando ormai erano salpati da Plymouth da due settimane, Steiner, durante uno dei lunghi periodi di calma, aveva richiamato in cabina il giovane clandestino che gli aveva portato la cena dalla cambusa.
«Tutto a posto, Wayne…» Steiner aveva sorriso, alquanto divertito di quel Tom Sawyer marinaro, col ciuffo di capelli biondi, le gambe come trampoli, gli occhi animati da ogni sorta di strani sogni. Ogni volta che si trovava davanti al capitano, Wayne tremava di eccitazione e di paura —
sia Ricci sia la professoressa Summers avevano insistito con Orlowski perché si rettificasse la rotta dell’ Apollo per un approdo alle Azzorre dove scaricare Wayne.
«Wayne, non ti agitare. Hai l’aria di uno che voglia impadronirsi della nave.» Già riusciva a vedere l’aggressività di Wayne nelle spalle ampie, nell’irrigidirsi delle ossa frontali e della mascella? «Sarai lieto di sentire che lasceremo da parte le Azzorre. Ma voglio mostrarti qualcosa d’altro.»
Lasciando intatta la cena, Steiner aveva aperto la cassaforte, ne aveva tirato fuori il pacco dei Time e dei Look, sciogliendo con calma il nastro.
Aveva cominciato a sfogliare le pagine scolorite, mostrando a Wayne le immagini del centro spaziale di Cape Kennedy, la navetta spaziale in atterraggio alla base dell’Aeronautica militare di Edwards, dopo un volo di prova, e il recupero di una capsula dell’Apollo nel Pacifico. Tra le riviste non mancava un supplemento in occasione del bicentenario a ricordare aspetti di…
Tit. originale: Hello America
Anno: 1981
Autore: James Graham Ballard
Edizione: Rizzoli (anno 1989), collana “Mistral” #1
Traduttore: Andrea Terzi
Pagine: 260
ISBN: 8817695017
ISBN-13: 9788817695015