Hulk

Hulk

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Siamo nel 1966: David Banner, scienziato alle dipendenze del governo degli Stati Uniti, vive con la moglie presso una base militare in mezzo al deserto, occupandosi di studi sul sistema immunitario. Un giorno decide imprudentemente di testare su di sé alcune sostanze destinate ad alterare il corredo genetico; l’esperimento produce delle mutazioni e, quando sua moglie rimane incinta, gli effetti si trasmettono al nascituro, il piccolo Bruce.

Alcuni anni dopo, le sperimentazioni illecite, che David nel frattempo ha proseguito usando campioni di sangue del figlio, ­vengono scoperte e lo studioso finisce licenziato. A quel punto la situazione precipita, Banner torna a casa e scoppia un dramma…

Traumatizzato dall’accaduto, di cui non ricorda più nulla, Bruce viene dato in adozione, cresce e diviene a sua volta un ricercatore. La sua vita scorre tranquilla fino al giorno in cui rimane coinvolto in un incidente di laboratorio con  fuga di raggi gamma; il giovane sopravvive, ma qualcosa di terribile capita al suo corpo e alla sua mente: ogni qualvolta, colto dall’ira, perde l’autocontrollo, si trasforma in un enorme mostro verde dalla forza spropositata e potenzialmente pericoloso.

Braccato dai militari, perseguitato dalla parte più oscura di sé stesso, Bruce dovrà fare i conti anche col suo passato, che torna nei panni del padre. Le verità nascoste e dimenticate poco a poco si sveleranno…

UN EROE SUI GENERIS

Che gli eroi fumettistici abbiano sovente una doppia identità è cosa nota, e, se la loro vita da uomini comuni è segnata da drammi e problemi, le strabilianti avventure in calzamaglia riscattano mediocrità e frustrazioni. Gli eroi possono essere ciechi, storpi, imbranati… ma, quando si calano nei panni dei loro super alter ego, diventano affascinanti e potenti, oggetto di ammirazione, invidia e timore.

Qualcuno di loro, come la Cosa dei Fantastici Quattro, può sì patire di un aspetto mostruoso che condiziona la sua vita di relazione, ma gode ugualmente dell’appoggio di una squadra, può contare su amici leali, può amare ed essere amato, e mantiene in ogni caso la sua personalità; i suoi poteri non gli sottraggono la coscienza di sé.

Hulk è del tutto diverso, e scardina ogni cliché del supereroe: Bruce Banner è completamente preda dell’incontrollabile potere che lo trasforma in una furia cieca. Anche Achille nell’Iliade ha i suoi momenti di ‘ira funesta’, ma conserva tutti i tratti di un eroe così come lo concepiva la cultura greca; Hulk è invece un enorme cavernicolo dai tratti primordiali, una massa di muscoli verdi sgradevole perfino ai più irriducibili appassionati di culturismo. Guidato soltanto dall’istinto, lotta per sopravvivere, non è malvagio ma la sua indole selvaggia lo porta ad abbattere senza troppo pensarci qualsiasi ostacolo gli si pari davanti. Difficile comunicare con lui: la sua cultura è azzerata, le sue facoltà intellettive ridotte a livelli elementari, e si esprime ringhiando senza articolare parola. Insomma, è quanto di più lontano da un idolo si possa immaginare.

I supereroi inoltre hanno facoltà di decidere il momento opportuno di entrare in azione, mentre Hulk al contrario appare senza preavviso, e quando scompare lascia sul campo un Bruce nudo, sfinito e inconsapevole.

Come si può amare un simile eroe? E come si può voler essere un simile eroe? Ammesso che di eroe si possa parlare.

Nel 2003 il regista Ang Lee, con il suo Hulk, dirige al cinema le vicende del popolare personaggio dei fumetti Marvel, creato nel 1962 dal premiato duo Stan Lee e Jack Kirby. Iniziando prima della nascita di Bruce, e concedendosi alcune licenze rispetto all’originale, la storia presenta il pacifico professore come una vittima dell’ambizione paterna, un bimbo che viene al mondo ereditando dal padre un corredo genetico predisposto all’aggressività, e con un trauma (la tragica morte della madre) radicato nel suo inconscio, capace di condizionarlo fino all’età adulta.

Cresciuto in una famiglia adottiva, Bruce si dedica alle biotecnologie, proprio come lo sciagurato genitore, e come questi è ossessionato dai meccanismi della rigenerazione cellulare. L’incidente con i raggi gamma scatena quanto in lui era latente, e lo condanna a una vita in fuga da tutto, a partire da sé stesso.

FUMETTO POPOLARE, D’ESSAI

Con grande coraggio, il regista taiwanese sceglie di trasporre il fumetto usando toni adulti. Hulk non è soltanto il facile simbolo della natura offesa che si ribella, è la concretizzazione della rabbia dell’individuo manipolato da autorità superiori o supposte tali, è la parte più istintiva dell’animo, pronta a liberarsi dai vincoli e dalle sovrastrutture che la civiltà gli ha inculcato.

I richiami psicoanalitici sono ben evidenti e, anche se oggi Freud è messo in dubbio da correnti di pensiero più attuali, la pellicola non disdegna alcune sue teorie. Il rapporto con il padre/autorità assume grande importanza, una relazione che diventa conflittuale e da cui nessuno esce illeso: non si salva il geniale e folle David Banner, né il figlio Bruce predestinato o condannato; neppure la dolce e ambigua Betty (ex fidanzata di Bruce), né suo padre, il colonnello Ross (l’ufficiale che comanda la caccia a Hulk), il quale obbedisce alla ferrea disciplina militare senza porsi dubbio alcuno.

Ang Lee racconta la vicenda sfiorando l’argomento del libero arbitrio, ma trattandolo in termini laici: la predestinazione è affidata a dati registrati nelle molecole del DNA, non a una volontà superiore. La scelta di privilegiare la riflessione, il dramma umano, la ricerca di introspezione e sentimento, rende Hulk una pellicola molto interessante, poco commerciale ma qualitativamente superiore rispetto agli stereotipi del cinefumetto. Purtroppo tanta attenzione per i vissuti dei personaggi fa sì che l’azione stenti a decollare.

Nonostante l’utilizzo dello split-screen, che imita le tavole dei fumetti, la vicenda più volte rallenta. Passano quasi tre quarti d’ora prima di assistere alla trasformazione di Bruce, e per far luce sul suo terribile passato occorre arrivare a due terzi della vicenda. Le scene che vedono protagonista il gigante verde, sebbene molto spettacolari, hanno meno rilievo di quanto lo spettatore potrebbe attendersi. In alcuni momenti si ha quasi l’impressione di vedere le schermate di un variopinto videogioco irrompere in una vicenda tragica, che di infantile o giocoso ha poco o nulla.

I dialoghi sono a volte un po’ troppo ridondanti, ma la recitazione è all’altezza delle aspettative: Jennifer Connelly è un’intensa Betty Ross, Sam Elliot convince come inflessibile Colonnello Ross. Il protagonista è interpretato da un Eric Bana un po’ sottotono, sovrastato dalla mole del suo ingombrante alter ego: la bravura di Nick Nolte nei panni di David Banner risalta infatti su tutti.

La colonna sonora di Danny Elfman è un tocco di classe.

Quello che può spiacere davvero in questo film è la disomogeneità che si crea tra le parti più riflessive, e quelle di puro intrattenimento. Ang Lee inserisce le trasformazioni, le sparatorie, gli inseguimenti, come parentesi nel dramma umano del protagonista. È come se avesse realizzato due film, anzi un buon film e un modesto cartoon: il primo è assai partecipato e mette in scena la tragedia di Bruce Banner, l’altro racconta le sovrumane imprese di Hulk e sembra girato per obbligo contrattuale.

Come l’animo di Bruce Banner, la pellicola e all’insegna di un forte dualismo; le diverse possibilità di lettura sono senza dubbio un pregio, riconosciuto dalla critica ma digerito male dai fan.