Anteprima testo
I Doni (Gifts, 2004) Ursula K. Le Guin
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Si era perduto, quando arrivò da noi, e temo che neppure i cucchiai d’argento rubati in casa nostra siano riusciti a salvarlo, quando fuggì per salire ai dominion più alti. Eppure, alla fine, fu proprio l’uomo perduto, il fuggiasco, a farci da guida.
Era stata Gry a chiamarlo il fuggiasco. Quando lo aveva visto comparire presso di noi, era stata certa che avesse commesso qualche azione terribile, un omicidio o un tradimento, e che intendesse sfuggire alla vendetta. Che altro poteva portare fino a noi un uomo delle Terre Basse?
«L’ignoranza», le avevo risposto. «Non sa nulla di noi. E per questo non ha paura.»
«Ha detto che è stato avvertito di non venire quassù tra gli stregoni.»
«Ma non sa nulla dei nostri doni», avevo osservato. «Per lui sono soltanto chiacchiere. Leggende, menzogne.»
Avevamo ragione tutti e due, senza dubbio. Certo Emmon era in fuga, anche se forse solo dalla fama di ladro – ben meritata – o magari dalla noia; era inquieto, impavido, indiscreto e inconcludente come un cagnolino che trotterella dovunque lo portino le zampe. Ripensando al suo accento e alle sue frasi preferite, adesso so che veniva dal profondo Sud, da ben più in là di Algalanda, dove le storie dei Monti sono solo leggende: vecchie chiacchiere sulle lontane terre del Nord, dove scellerati stregoni abitavano tra montagne di ghiaccio e compivano prodigi incredibili.
Se avesse prestato fede a quel che gli avevano detto a Danner, non sarebbe mai salito a Caspromant. E se avesse prestato fede a noi, non sarebbe mai salito ai dominion più alti. Amava ascoltare le storie – e perciò ascoltava le nostre – ma non credeva a esse. Era un uomo di città, aveva una certa istruzione, aveva viaggiato per tutte le Terre Basse. Conosceva il mondo.
Invece, chi eravamo Gry e io? Che cosa potevamo sapere, una ragazzina triste e un ragazzo cieco, due sedicenni prigionieri della superstizione e dello squallore di quelle desolate fattorie di montagna che noi, presuntuosamente, chiamavamo «dominion»?
Era lui a spingerci, con la sua pigrizia e la sua gentilezza, a raccontare dei grandi poteri da noi posseduti, ma, mentre noi parlavamo, Emmon aveva sott’occhio il nostro modo di vivere, duro e spoglio, la povertà crudele, la gente arretrata e invalida delle fattorie, e constatava la nostra ignoranza di tutto, fuorché della penombra di quei monti, e diceva tra sé:
«Oh, ma certo, che grandi poteri posseggono, poveri mocciosi!»
Gry e io temevamo che, una volta lasciati noi, fosse finito a Geremant. È
difficile pensare che possa ancora essere là, vivo ma schiavo, con le gambe contorte come cavaturaccioli, o con la faccia resa mostruosa per il divertimento di Erroy, o con gli occhi davvero ciechi, diversamente dai miei. Erroy, infatti, non avrebbe sopportato neppure per un’ora la sua superiorità negligente, la sua insolenza.
Quando Emmon cominciava a parlare a vanvera, io mi sforzavo di tenerlo lontano da mio padre, ma solo perché la pazienza di Canoc era corta e il suo umore era cupo, non perché temessi di vedergli usare il suo dono senza una buona ragione. Dalla morte di mia madre, la sua mente era tutta presa dal lutto, dalla rabbia e dal rancore. Si raggomitolava attorno alla sua sofferenza, al suo desiderio di vendetta.
Gry, che conosceva tutti i nidi nel raggio di parecchie miglia, sia quelli sugli alberi sia quelli sulle rocce, una volta aveva visto un’aquila-avvoltoio piangere i suoi due aquilotti argentei e grotteschi, in un nido dell’Alto Massiccio, dopo che un pastore aveva ucciso la madre che cacciava per tutti. Mio padre piangeva e languiva allo stesso modo.
Per Gry e per me, Emmon era un tesoro, una creatura luminosa penetrata nella nostra penombra. Riusciva a sfamarci. Perché anche noi languivamo, lassù.
Non ci descriveva mai a sufficienza le Terre Basse. A ogni tipo di domanda che gli rivolgevo dava una risposta di qualche tipo, ma spesso era una frase scherzosa, evasiva o semplicemente vaga. Probabilmente c’erano molti avvenimenti, nella sua vita precedente, che non voleva farci conoscere, e a ogni modo non era un osservatore acuto, un chiaro testimone come Gry quando era i miei occhi.
Gry era in grado di descrivermi perfettamente l’aspetto del nuovo vitello, il suo mantello bluastro e le gambe ossute e i piccoli germi delle corna, coperti di una fine peluria, talmente bene che mi pareva di vederlo. Ma se chiedevo a Emmon di parlarmi della città delle Acque di Derris, mi sapeva soltanto dire che non era una grande città e che nel suo mercato non c’era niente di interessante. Eppure io sapevo, perché me l’aveva detto mia madre, che alle Acque di Derris c’erano alte case rosse e strade profonde come canyon, che da una scalinata di pietra grigia si scendeva ai moli e ai magazzini dove arrivava e partiva tutto il traffico del fiume, che c’erano un mercato degli uccelli e uno del pesce, uno per le spezie, l’incenso e il miele, uno per i vestiti usati e uno per quelli nuovi, e che vi si tenevano grandi fiere del vasellame che richiamavano gente da tutto il Fiume Trond e persino dall’altra riva dell’oceano.
Forse Emmon non aveva avuto fortuna, nelle sue ruberie alle Acque di Derris.
Qualunque fosse la ragione, preferiva rivolgere a noi le domande e sedere tranquillo ad ascoltarci: soprattutto ad ascoltare me. Io ero sempre stato un chiacchierone, se c’era qualcuno ad ascoltarmi. Quanto a Gry, lei aveva da molto tempo l’abitudine al silenzio e all’attenzione, ma Emmon riusciva a farla uscire da quella disposizione di spirito.
Non credo si rendesse conto della fortuna da lui avuta nell’incontrare noi due, ma apprezzava il benvenuto che gli avevamo dato e il fatto di averlo tenuto al riparo durante un inverno particolarmente freddo e piovoso. Però gli dispiaceva per noi, senza dubbio lo annoiavamo, e soprattutto era esageratamente curioso.
«Allora, cosa fa quel tizio di Geremant, che è tanto spaventoso?» ci chiedeva, con un tono di leggero scetticismo che mi spingeva, ogni volta, a fare tutto il possibile per convincerlo della verità delle mie parole. Del resto erano argomenti di cui non si parlava molto, neppure tra le persone col dono. Mi pareva innaturale parlarne a voce alta.
«Il dono di quel lignaggio si chiama la torsione.»
«Torsione? Come una sorta di ginnastica?»
«No.» Le parole erano difficili da trovare, difficili da pronunciare.
«Storcere le persone.»
«Le fa girare su se stesse?»
«No. Gli gira le braccia. Le gambe. Il collo. Il corpo.»
Mi torcevo anch’io su me stesso, leggermente, perché l’argomento mi metteva a disagio. Alla fine dissi: «Hai visto il vecchio Gonnen, il boscaiolo, sul Colle Ginocchio. L’abbiamo incontrato ieri per la strada.
Gry ti ha detto il suo nome».
«Piegato su se stesso come uno schiaccianoci.»
«Il brantor Erroy l’ha ridotto così», spiegai.
«L’ha piegato in quel modo? E perché?»
«Per punizione. Il brantor ha detto di averlo trovato a rubare legna nella Foresta di Gere.»
Dopo qualche tempo, Emmon commentò: «Anche i reumatismi possono ridurre un uomo in quel modo».
«All’epoca, Gonnen era un giovanotto.»
«Allora, non è una cosa di cui ti ricordi, di cui hai saputo quand’è successa.»
«No», dissi io, infastidito dalla sua incredulità e dalla sua superbia. «Ma lui se ne ricorda. E se ne ricorda mio padre. Gliene ha parlato Gonnen. Ha detto che non si trovava nel territorio di Gere, ma solo in prossimità del confine, nei boschi nostri. Il brantor Erroy l’ha visto e ha gridato. Lui si è spaventato e ha cercato di fuggire, con la legna sulle spalle. E caduto.
Quando ha cercato di rialzarsi, aveva la schiena piegata e la gobba, esattamente come oggi. Se cercava di raddrizzarsi, ha detto la moglie, urlava di dolore.»
«E come ha fatto, il brantor, a ridurlo così?»
Emmon aveva imparato la parola da noi; diceva di non averla mai sentita, nelle Terre Basse. Il brantor è il padrone o la padrona di un dominion, ossia il capo del lignaggio e il più dotato della famiglia. Mio padre era il brantor di Caspromant. La madre di Gry era il brantor dei Barre di Roddmant e suo padre il brantor dei Rodd dello stesso dominion.
Noi due eravamo i loro eredi, i loro aquilotti nel nido.
Io esitai a rispondere alla domanda di Emmon. Non si era rivolto a me in tono di derisione, ma non sapevo se fosse corretto rivelargli i poteri del dono.
Gli rispose Gry. «Ha fissato l’uomo», gli disse, nel suo tranquillo tono di voce. Nella mia cecità, la sua voce mi faceva sempre pensare a un leggero soffio di vento tra le foglie degli alberi. «E lo ha indicato con la mano sinistra, o anche con un solo dito, e forse ha detto una parola, o due, o più.
Tutto fatto.»
«Che tipo di parole?»
Gry non rispose subito; forse si strinse nelle spalle. «Il dono dei Gere non è il mio», disse infine. «Non conosciamo il suo modo.»
«Modo?»
«Il modo in cui agisce un dono.»
«Bene, allora come agisce il tuo dono, che cosa compie?» le chiese Emmon, non in tono polemico, ma spinto dalla curiosità. «È qualcosa che riguarda la caccia?»
«Il dono dei Barre è il chiamare», spiegò Gry.
«Chiamare? Che cosa chiami?»
«Gli animali.»
«Cervi?» A ciascuna domanda faceva seguito un breve silenzio, lungo a sufficienza per un cenno d’assenso. M’immaginai la faccia attenta di Gry, la sua bocca chiusa, mentre annuiva. «Lepri?… Maiali selvatici?… Orsi?…
Se chiami un orso e poi quello arriva, che cosa fai?»
«I cacciatori lo uccidono.» Lei s’interruppe, poi aggiunse: «Io non chiamo per la caccia».
Nel dirlo, la sua voce non era più la brezza tra gli alberi, ma il vento che spazza la roccia.
Il nostro amico non capì certamente quel che intendeva dire, ma forse il tono di Gry lo raggelò per un momento. Non proseguì con lei ma si rivolse a me. «E tu, Orrec, il tuo dono è…?»
«Quello di mio padre», risposi. «il dono dei Caspro è chiamato il disfare.
E non ti dirò nulla al riguardo, Emmon. Scusa.»
«Sei tu che devi scusare la mia goffaggine, Orrec», disse Emmon, dopo un breve silenzio dovuto alla sorpresa, e la sua voce era così calda, con tutta la cortesia e la delicatezza delle Terre Basse, così simile alla voce di mia madre, che i miei occhi brillarono di lacrime sotto la fascia che li chiudeva.
Qualcuno, o lui o Gry, andò ad attizzare la nostra parte del focolare; il tepore del fuoco mi colpì di nuovo le gambe e fu il benvenuto. Sedevamo nell’ampio focolare della Casa di Pietra di Caspromant, in corrispondenza dell’angolo sud, dove sono state lasciate panche profonde nelle pietre del muro del camino. Era una fredda sera di…
Tit. originale: Gifts
Anno: 2004
Autore: Ursula K. Le Guin
Ciclo: The Annals of the Western Shore #1
Edizione: Editrice Nord (anno 2006) collana: “Narrativa Nord” #249
Traduttore: Riccardo Valla
Pagine: 236
ISBN: 8842914355
ISBN-13: 9788842914358
Dalla copertina | Gli abitanti dei Monti – un territorio aspro e selvaggio – possiedono dei Doni: uno per famiglia, passato ai discendenti per via ereditaria. Doni meravigliosi: la capacità – con un gesto, una parola, un’occhiata – di chiamare gli animali, di accendere il fuoco, di spostare la terra. Doni terribili: la possibilità di spezzare un arto, di ottenebrare la mente, di scatenare una malattia devastante. E gli uomini e le donne dei Monti vivono nel continuo terrore che una famiglia “scateni” il proprio Dono contro le altre, mutilandole, sterminandole o rendendole schiave. Ma, così facendo, non rinunciano forse a ciò che hanno di più prezioso?