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CAPITOLO 1
«Ti spaccherò la faccia, Al,» disse Gurlick. «Ti romperò la schiena. Farò saltare in aria la tua tana, e con te dentro, e con tutto il torcibudella che spacci per liquore, tanto, chi lo vuole? Mi hai sentito, Al?»
Al non lo sentiva. Al era dietro il banco del suo saloon, a tre isolati di distanza, e probabilmente era ancora paonazzo per l’indignazione, e agitava la lunga testa calva in direzione della porta da cui Gurlick era fuggito, ripetendo ancora quello che tutti i suoi clienti avevano appena visto: Gurlick che entrava rabbrividendo, in una notte fredda, e cercava di ingraziarsi Al, stiracchiando la barba ispida in un sogghigno di denti brunastri e irregolari, inclinando la testa e socchiudendo gli occhi verdognoli, dalla sclerotica ingiallita. «È entrato qui,» stava riferendo Al per la quarta volta in nove minuti, «tutto buon vecchio Al di qua e amicone di là, e tu-mi-co-nosci-Al, e cosa ne diresti di un goccio, sai bene; e io gli faccio solo, certo che ti conosco, Gurlick, squagliati e in fretta, non ti darei neanche un po’ di sabbia se ti incontrassi sulla spiaggia, e lui, alé, ha sputato proprio sul banco, ed è scappato fuori, e poi ha infilato di nuovo la testa qui dentro, e mi ha detto…» Santimoniosamente, Al non volle sporcarsi le labbra con quella parola. E il tipo che beveva rye-and-ginger accanto alla porta annuì con aria saggia e disse: «Non bisogna mica tirare in ballo le madri, eh,» mentre il tale con la birra stringeva il suo boccale, caldo come una pappetta e senza schiuma, e intonava: «Hai avuto ragione, Al, tutte le ragioni.»
Gurlick, che ormai era arrivato a quattro isolati di distanza, si guardò indietro e vide che nessuno l’inseguiva. Rallentò l’andatura precipitosa ad un trotto, poi a un passo strascicato e barcollante, aggobbendo le spalle per proteggersi dal turbinare della nebbia. Continuò a maledire Al, e il tale che beveva la birra, e quello che beveva il rye-and-ginger, dichiarando che avrebbe potuto sistemarli con una mano sola, uno alla volta o anche tutti insieme.
Naturalmente, non ne sarebbe stato capace. Non era il suo genere. Sarebbe stato un successo, ed era troppo tardi perché Gurlick, senza un aiuto, potesse cominciare ad ottenere qualcosa di nuovo e di diverso come il successo. Anche il suo primo respiro era stato intempestivo e mal eseguito, e da allora in poi non aveva fatto niente di azzeccato. Mendicava malamente e rubava quando non c’era assolutamente rischio, il che capitava di rado, e derubava gli ubriachi purché fossero veramente cotti, soli e in un angolo nascosto. Dormiva nei magazzeni, nei carri merci, nei camion fermi. Lavorava solo in casi estremi, e doveva capitargli ancora di resistere per più di una settimana. «Li farò a pezzi,» borbottò. «Gli spaccherò la faccia, gli…»
S’infilò in un vicolo e, tastando il muro, arrivò a un bidone dell’immondizia che conosceva bene. Era il bidone di un ristorante e qualche volta… Alzò il coperchio, e in quell’istante vide qualcosa di pallido che scivolava e cadeva al suolo. Sembrava un panino: cercò di afferrarlo e non riuscì. Si chinò per prenderlo, e parte del muro annebbiato che gli stava accanto parve staccarsi, diventare solido e peloso. Gli passò vicino, strusciandogli contro le gambe. Con un gemito di terrore, Gurlick sferrò un calcio, in uno scatto rabbioso, uno spasmo isterico.
Il piede centrò in pieno il bersaglio, e l’essere si sollevò in aria, cadde pesantemente alla base della staccionata, nella luce scialba ed umida della strada. Era un cagnolino bianco, mezzo morto di fame. Guaì due volte, debolmente, tentò di rialzarsi e non riuscì.
Quando Gurlick vide che non poteva fuggire né difendersi, rise forte, si avvicinò di corsa, e lo prese a calci e lo calpestò fino a quando fu morto; e ad ogni colpo la sua vendetta era più soddisfacente. Ecco, per Al, e per i due avventori, e uno per i poliziotti, e uno per tutti i giudici e i secondini, e uno per tutti quelli che, al mondo, avevano qualcosa, e infine uno per la pioggia. Quando ebbe finito si sentì un grand’uomo.
Ormai sfiatato, tornò soffiando al bidone della spazzatura, e cercò a tentoni, fino a quando trovò il panino. Era fradicio e viscido, ma era un mezzo hamburger che qualche sprecone aveva gettato nel vicolo, e quello era l’importante. Lo ripulì sulla manica, il che non cambiò molto le cose né per la manica né per il panino, e si cacciò in bocca quella massa pastosa ed untuosa.
Uscì fuori nella luce, alzò gli occhi e, attraverso la nebbia, scrutò le spalle massicce degli edifici schierati tutto intorno per sorvegliarlo. Era un uomo che aveva combattuto e ucciso per quel che gli spettava di diritto. «Non azzardarti a pestarmi i piedi,» ringhiò, rivolto alla città.
Fu invaso da una sorta d’ebbrezza. Si sentiva come gli capitava all’inizio
di quel sogno che faceva sempre, quando camminava lungo un sentiero sterrato in riva a un lago, e si sentiva bene, forte e sicuro, sapendo che stava per arrivare al mucchio di vestiti sulla riva. Adesso, sapeva, non stava facendo il sogno: aveva troppo freddo ed era troppo fradicio. Ma raddrizzò le spalle. Si incamminò, alzando la testa. Disse al mondo di stare in guardia. Disse che gli avrebbe dato uno scrollone, e l’avrebbe buttato a terra, e gli avrebbe pestato i piedi sulla faccia grassa. «Te ne accorgerai, che è passato Dan Gurlick,» disse.
Questa volta aveva tutte le ragioni, perché adesso era dentro di lui. Era stato nell’hamburger, e prima ancora nel cavallo con la cui carne era fatto quasi tutto l’hamburger, e prima ancora in due uccelli, uno dopo l’altro, che l’avevano scambiato per una bacca. Prima… è difficile dirlo. Era caduto in un campo, ecco tutto. Era paziente, e contento di attendere. Quando il primo uccello l’aveva ingerito, aveva sentito di essere nel posto sbagliato, e non aveva fatto nulla; con il secondo era accaduto lo stesso. Quando la lingua tozza del cavallo l’aveva raccolto insieme ad un ciuffo d’erba del prato, per un po’ aveva sperato. Si era raddrizzato dopo che i denti del cavallo l’avevano appiattito, e aveva lasciato presto l’apparato digerente, per farsi strada tra le cellule e le fibre, sino a finire in un ganglio. Là aveva avuto un’altra delusione, e anche qualche difficoltà… quando fosse penetrato nella catena dei neuroni, la sua natura sarebbe cambiata irreversibilmente, e sarebbe rimasto con il cavallo per il resto della sua vita. E infatti era andata così. Ma dopo che la lama del macellaio l’aveva mancato, e il tritacarne l’aveva pressato, schiacciato, stiracchiato (ma senza separarne le parti), avrebbe potuto svolgere il suo compito, al momento opportuno. Otto mesi di congelamento non avevano influito affatto, e neppure il grasso bollente. Era stato venduto da un carretto, insieme ad un sacchetto di altri hamburger, ed era finito in fondo a quel sacchetto. Il ragazzo che aveva dato un morso a quel particolare hamburger era…

Tit. originale: The Cosmic Rape (aka To Marry Medusa)
Anno: 1958
Autore: Theodore Sturgeon
Edizione: Mondadori (anno 2004), collana “Urania Collezione” #18
Traduttore: Marzio Tosello
Pagine: 176
Dalla copertina | Dallo spazio profondo arriva Medusa, creatura di cui nessuno conosce gli scopi. Nata su altri mondi, avida di vita, capace di nutrirsi di interi pianeti e di intere razze, si avvicina alla Terra… Ma Sturgeon non è un autore catastrofico: al contrario, è un romanziere sottile e imprevedibile. Quello che prende vita nei Figli di Medusa è dunque il dramma di un rinnovamento, una “prova del fuoco” per tutta l’umanità che sta per diventare, a sua volta, figlia di Medusa.