I Pirati in Epoca Classica
Dioniso e Cesare: due rapimenti illustri
Inno VII, 1-59 (VII secolo a.C. (?))
Testo tratto da: Omero, Inni omerici,
a cura di F. Cassola, Fondazione Lorenzo Valla, Milano 1975.
Dioniso, figlio di Semele gloriosa
Io ricorderò: come egli apparve lungo la riva del limpido mare,
su di un promontorio sporgente, simile a un giovanetto
nella prima adolescenza; gli ondeggiavano intorno le belle chiome
scure; sulle spalle vigorose aveva un mantello
purpureo. E presto, nella solida nave,
apparvero veloci, sul cupo mare, pirati
tirreni: li portava la sorte funesta. Essi, al vederlo,
si scambiavano segni fra loro: rapidamente balzarono fuori, e subito
afferrandolo, lo deposero nella loro nave, pieni di gioia nel cuore.
Ovidio, Metamorfosi, III, 572-700 (I secolo d.C.)
Testo tratto da: Publio Ovidio Nasone, Metamorfosi,
traduzione a cura di P. Bernardini Marzolla, Einaudi, Torino, 1994
…Quand’ecco che alla fine Bacco (Bacco era infatti), come se il chiasso l’avesse ridestato dal suo sopore e sfumata l’ebbrezza ritornasse in sé: “Che fate? Che chiasso è questo? – dice. – Ditemi, marinai, com’è che mi ritrovo qui? Dove volete portarmi?”
“Non aver paura, – risponde Proreo, – e di’ a che porto desideri arrivare. Sarai sbarcato nel posto che vorrai”.
“Puntate su Nasso, – dice allora Bacco. – Là è la mia dimora, quella terra sarà ospitale con voi”. Quei manigoldi giurano per il mare e per tutti gli dèi che così sarà fatto, e mi ordinano di sciogliere le vele al dipinto naviglio. Nasso era a destra, e io metto le vele per andare a destra. “Che fai, scemo? Quale pazzia…” mi dice Ofelte. Ognuno è in ansia per sé. “ Vai a sinistra”…
Il mito ci trasmette un episodio interessante, il rapimento di Dioniso (Bacco per i Romani) da parte di pirati tirreni, facendo affiorare due importanti questioni. Da un lato il fatto che si parli di Tirreni ci introduce nell’annoso problema dell’origine, della provenienza e dell’area d’espansione di questa misteriosa popolazione; dall’altro ci si chiede quanto fosse giustificata la loro fama di pirati efferati.
I “Tirreni occidentali” o etruschi:un popolo dalle origini misteriose
La parola “Tirreni” è indissolubilmente legata agli Etruschi per merito del racconto di Erodoto (I, 94) nel quale lo storico greco tramanda la migrazione di alcuni Lidi, guidati appunto da Tirreno, figlio di Atys, re del regno anatolico.
Molti studiosi hanno visto in questo mito e nelle note propensioni marittime degli Etruschi un indizio della loro affiliazione ai famigerati “Popoli del Mare”, che attorno al XII secolo a.C. misero a ferro e fuoco il Medio Oriente.
All’epoca di Ramses III (1197-1165 a.C.), infatti, gli Egiziani subirono una vera e propria invasione da parte di un coacervo di popolazioni, alcune di identificazione sicura (come gli Achei o i Filistei), altre discussa ma non improbabile (come i Siculi e i Sardi), e altre ancora solo ipotetica; tra quest’ultime vi sono i Trš.w. nei quali molti hanno individuato i Tyrsenòi, cioè appunto i Tirreni delle fonti greche.
L’identificazione di questi popoli, resa ancor più difficile dalla forma che i singoli nomi hanno assunto nella lingua egiziana, è stata ed è tutt’oggi incerta: per i Trš.w., ad esempio, in luogo del collegamento con i Tyrsenòi si è preferito instaurare una relazione con i toponimi – sempre anatolici – di Tarso o di Torrebo.
Se i Tirreni facevano parte dei Popoli del Mare ed erano di origine anatolica, come la tradizione erodotea ci porterebbe a pensare, come arrivarono in Etruria?
Si potrebbe supporre che essi continuarono le loro peregrinazioni nel Mediterraneo e nell’Egeo (come fecero del resto anche i Sardi, i Siculi e i loro altri compagni di viaggio), colonizzando e occupando nuove terre fino ad arrivare nell’odierna Toscana attorno al X secolo a.C.
La tesi di una provenienza transmarina dei Tirreni pare avvalorata da una stele funebre ritrovata nel 1885 sull’isola di Lemno, nella quale si distinguono la figura di un guerriero e due iscrizioni in caratteri dell’alfabeto greco ma in una lingua molto simile a quella etrusca.
A Lemno, dunque, la popolazione pre-ellenica parlava in tempi storici (VIII-VII secolo a.C.) un idioma simile a quello etrusco.
A questa ipotesi sulla nascita della civiltà etrusca se ne aggiungono altre due: quella dell’origine autoctona e quella della provenienza settentrionale.
Gli “autoctonisti” ritengono che il popolo etrusco sia un frutto originale e spontaneo della penisola, nato dalla fusione tra le popolazioni dell’età del Bronzo che praticavano l’inumazione e Protoitalici apportatori di un diverso sistema di sepoltura, l’incinerazione. I primi avrebbero conservato la loro lingua d’origine acquisendo, tuttavia, questa nuova pratica funeraria.
Nell’antichità, solo Dionigi di Alicarnasso (I, 25 ss.) ha sostenuto, in controtendenza rispetto a quasi tutti gli autori che conosciamo, la tesi dell’origine autoctona, ma per ragioni meramente ideologiche (se Roma, infatti, viene nobilitata da Dionigi che la considera una città greca, occorreva per contrasto che tutti gli altri popoli italici fossero indigeni). In età recente, invece, quest’ipotesi ha riscosso molto successo soprattutto tra i glottologi, che hanno individuato affinità linguistiche tra l’etrusco (una lingua, come sappiamo, non di ceppo indoeuropeo) e la parlata delle popolazioni pre-indoeuropee diffuse nel Mediterraneo, parlata che si conservò anche a Lemno e presso gli antichi abitatori della Rezia.
La tesi autoctona, tuttavia, è definitivamente naufragata di fronte ad alcune difficoltà di carattere archeologico: da una parte, moderne letture dei culti funerari hanno messo in discussione il fatto che siano stati degli Italici o dei Protoitalici a introdurre il rito sepolcrale dell’incinerazione tra gli Etruschi; dall’altra, si deve osservare che solo verso la fine del periodo villanoviano (VII secolo a.C.) la civiltà etrusca si afferma con un’identità sua propria, non prima. E la stessa cultura villanoviana – che, ricordo, non è una civiltà in senso etnico ma una civiltà “materiale” (identificata, dunque, sulla base delle caratteristiche dei resti materiali che ci ha lasciato) – non solo si presenta molto diversa rispetto alla cultura terramaricola che l’ha preceduta, ma ha anche manifestazioni sue proprie in varie parti d’Italia, ed evidenzia un’area di diffusione ben più ampia dello stesso territorio etrusco.
La tesi “settentrionale” deriva, invece, da un fraintendimento di un passo di Livio (V, 33); ma, se anche gli assertori di questa ipotesi concordano nel negare una migrazione in età storica, non si può certo escludere che questa migrazione sia avvenuta in età protostorica. Del resto legami tra la cultura villanoviana, caratterizzata dalla pratica dell’incinerazione, e la cultura dei campi delle urne diffusa nella zona danubiana è innegabile.
Meno rivoluzionaria di quello che sembra è pertanto la tesi di Mario Alinei che ha di recente destato molto scalpore sui giornali. Alinei ha osservato notevoli comunanze tra la lingua etrusca e la lingua ungherese, ipotizzando per gli Etruschi una provenienza simile a quella degli Ungheresi.
Ma come è possibile giustificare storicamente questi indizi offerti dalla linguistica? Sappiamo che i Magiari giunsero in Ungheria nell’alto Medioevo; prima di loro si erano stabiliti lì gli Unni di Attila. Tra questi e i primi Etruschi erano già passati quasi duemila anni di storia. Alinei, tuttavia, sostiene che la migrazione abbia avuto luogo nel III millennio avanti Cristo, con la cosiddetta invasione dei kurgan, genti venute in Europa dalle steppe a nord del Mar Nero. Genti che l’autore definisce turche.
In effetti la lingua ungherese ha moltissimi elementi turchi che la distinguono da tutte le altre del ceppo ugro-finnico a cui appartiene. L’ungherese è diverso dalle lingue vicine così come l’etrusco da quelle italiche. Per Alinei sono entrambe lingue di popoli non autoctoni ma invasori. A questa ipotesi, come all’ipotesi “settentrionale” in generale, possiamo opporre le solite argomentazioni di matrice archeologica: se escludiamo una migrazione in età storica, non potremmo in altro modo giustificare le enormi differenze che separano la cultura villanoviana da quelle precedenti dell’età del Rame e del Bronzo. Oltretutto il legame tra la cultura kurgan e l’etnia turca pare non sia così assodato.
Poiché non possiamo pensare che lo sviluppo di una civiltà sia avulso da influenze esterne, personalmente sono propenso ancora a dare credito a Pallottino quando metteva in guardia dalle eccessive schematizzazioni. Lo studioso italiano riteneva sì che gli Etruschi fossero nati in Italia ma che avessero comunque ricevuto numerose influenze dall’Oriente e forse anche dal centro Europa. Questa specie di contaminazione dall’esterno avrebbe portato alla nascita della civiltà etrusca, che già agli occhi dei contemporanei si presentava come una vera peculiarità in ambito italico.
Non deve necessariamente essersi trattato di una migrazione in grande stile: un gruppo di Tirreni provenienti da Oriente potrebbe semplicemente essersi stabilito in Etruria e, a fronte della propria maggiore organizzazione politica ed economica, aver assimilato – non senza forti influenze da parte loro – i precedenti abitanti.
I Tirreni “Orientali” o Pelasgi
La presenza di Tirreni a Lemno, confermata, oltre che da fonti archeologiche, anche da numerose testimonianze negli autori antichi come Tucidide (IV, 109) ed Erodoto, che li chiama Pelasgi (V, 26), dimostra che essi avevano un’importante area di espansione anche a Oriente. L’etnico “Tyrsenòi” è attestato per la prima volta nella Teogonia di Esiodo e fa riferimento a un popolo proveniente da Occidente, forse gli Etruschi d’Italia. L’etnico “Pelasgi” invece viene localizzato nel Peloponneso, in Arcadia, regione menzionata anche da Ecateo di Mileto il quale, oltre a conoscere la tradizione della cacciata dei Pelasgi da Atene, cita pure la Tessaglia come sede di questa popolazione.
I Tirreni vengono, poi, menzionati da Sofocle e da Ellanico.
Il primo, nel dramma perduto Inachos, scrive: “Fluttuante Inaco, figlio del padre delle fonti, dell’Oceano, grandemente signoreggi le terre d’Argo e i colli di Hera e i Tirreni Pelasgi” (in Dionisio di Alicarnasso, Antichità romane, I, 25).
Dal canto suo Ellanico, nel V secolo a.C., sembra ormai accettare l’identificazione tra i due etnici: “i Tirreni (Etruschi) prima si chiamavano Pelasgi, e presero il nome che ora hanno dopo essersi stanziati in Italia (…) dove occuparono quella che noi oggi chiamiamo Tirrenia” (Dionisio di Alicarnasso, Antichità romane, I, 28).
L’Attidografo Filocoro, vissuto tra il IV e il III secolo a.C., mostra di avere ormai del tutto recepito l’identificazione Pelasgi-Tirreni riportando un episodio noto come “mito Pelasgico” in questi termini: “Molti Tirreni (non Pelasgi, dunque, ndr) che avevano abitato per breve tempo ad Atene furono uccisi dagli Ateniesi. Altri fuggirono ed andarono ad abitare a Lemno e ad Imbro. Dopo un po’ di tempo, essi, che per questa ragione si sentivano disposti ostilmente verso gli Ateniesi, partirono dalle loro isole con le navi e, giunti a Brauron nell’Attica, rapirono le fanciulle che celebravano la Festa dell’Orso in onore di Artemide, e con queste si accoppiarono” (F.H.G., I, pag. 384-5 Schol. Lucian. Catapl., I).
La situazione che ci si prospetta è la seguente: Esiodo sarebbe stato forse ignaro dell’identificazione delle due popolazioni attorno al VII secolo a.C., Erodoto stesso parla di Pelasgi e di Tirreni senza mettere in alcun rapporto queste due popolazioni. Lo storico greco ci racconta, infatti, da un lato la mitica migrazione dalla Lidia di alcuni uomini guidati da “Tirreno”, dall’altro il così detto mito Pelasgico, che avrebbe coinvolto i Pelasgi in alcune complesse vicende con gli Ateniesi di cui si è già brevemente riferito in una testimonianza. Dunque solo dopo il V secolo tale identificazione sarebbe considerata assodata (con l’eccezione di Erodoto che aveva forse necessità di distinguere le due genti).
Possiamo supporre, altresì, che Esiodo ignorasse l’esistenza dei Tirreni orientali o Pelasgi e forse, nel VII secolo, i Tirreni si trovavano solo a occidente e tornarono in Grecia e nell’Egeo con una sorta di migrazione di ritorno (è possibile leggere questa tesi sul sito di Alberto Palmucci nella sua “Diaspora etrusca”, oltre a trovare questa ipotesi espressa in più riprese da De Simone).
Più credibilmente, a mio parere, il legame tra Etruschi e Lemni è giustificabile per l’appartenenza di entrambe le popolazioni a un substrato comune, che potremmo definire pre-ellenico o forse pre-indoeuropeo: non potremmo, infatti, giustificare in altro modo i Reti etruscoidi.
Oltretutto l’archeologia non ci documenta alcun legame significativo tra Etruschi della penisola e Lemni, se non, appunto, uno linguistico.
I pirati tirreni
Sappiamo che c’erano dei Tirreni in Oriente e che i due etnici, quello di Pelasgi e di Tirreni, tendono a sovrapporsi in questa zona, ma non esistono prove che i pirati del mito fossero appunto, dei “Tirreni Orientali”. È stato ipotizzato, infatti, che essi possano essere stati degli Etruschi impegnati in commerci ed azioni piratesche in Oriente.
Il mito omerico non ci offre alcuna indicazione di tipo geografico, ma nella narrazione ovidiana è chiara l’identificazione tra pirati Tirreni ed Etruschi: il più violento dei pirati, Licabante, viene descritto come un esiliato da una città dell’Etruria.
Questa, a mio parere, rimane però una prova non conclusiva. I Romani avevano, come ovvio, maggiore familiarità con gli Etruschi e non si ponevano gli stessi problemi etnografici dei moderni, tutt’altro.
Possiamo, comunque, ragionevolmente supporre che l’episodio, se pur mitico, testimoni una situazione storica, cioè l’attività commerciale e piratesca dei Tirreni nell’Egeo. Se essi fossero, poi, Etruschi o Tirreni orientali non sembra possibile determinarlo con certezza anche se propenderei per la seconda ipotesi.
La studiosa Giuffrida Ientile ha esaminato con accuratezza il fenomeno della pirateria tirrenica ripercorrendo i periodi che potrebbero essere stati caratterizzati da frizioni tra i Greci e questa popolazione.
Il primo periodo corrisponderebbe all’epoca arcaica e avrebbe il suo culmine alla fine del VI secolo a.C., periodo in cui gli Ateniesi guidati da Milziade condussero una spedizione marittima che portò alla cacciata dei Tirreni da Lemno. La spedizione venne giustificata con il mito “Pelasgico” della cacciata da Atene dei Pelasgi/Tirreni, protagonisti di violenze nei confronti delle donne Ateniesi presso Brauron.
Il secondo momento di tensione dove i miti anti tirrenici sulla pirateria ripresero piede è da farsi risalire al V secolo a.C. con il contrasto tra Siracusani ed Etruschi, contrasto che non coinvolge l’intero mondo greco e che gli stessi Siracusani, dopo la battaglia di Cuma (474-473 a.C.), si sforzano di riappianare (la cosa paradossale è che è probabile che gli stessi Siracusani attuassero azioni di pirateria nei confronti delle città etrusche essendo simili pratiche una consuetudine consolidata nel mondo antico).
Vi è, infine, un’ultima coda nel III secolo a.C. dove, straordinariamente, troviamo nell’Egeo ancora pirati tirreni i quali, se originari dell’Etruria, appaiono, nonostante la sottomissione della loro patria, ancora attivi. Contro di essi combattono i Rodiesi che rappresentano l’unica vera potenza marittima dell’Egeo in età Ellenistica. Questa ultima propaggine di pirateria tirrenica lascerà poi spazio, a quella cilicia.
Plutarco, Vita Caesaris, 1-5 2-8
Dopo che venne tenuto questo discorso contro di lui, a lungo Cesare si nascose errando nelle Sabine; in un secondo tempo, sceso in direzione della costa, tornò in barca in Bitinia presso il re Nicomede. E, trascorso non molto tempo presso quest’ultimo, fu catturato dai pirati presso Farmacomisi, sulla strada del ritorno per mare. I pirati, infatti, già allora controllavano il mare con grandi equipaggi ed enormi navi. All’inizio, dunque, quando venne chiesto da parte loro un riscatto di 20 talenti, ne rise, poiché non capivano chi avessero catturato, ed egli promise che ne avrebbe dati 50; in seguito, inviati gli uomini del suo seguito chi in una città chi in un’altra per procurarsi le ricchezze, rimasto tra le rozzissime genti cilicie con un amico e due consiglieri, si comportava tanto altezzosamente che, ogni qual volta andava a riposare, ordinava loro di tacere inviando un servo. Poi, trascorsi i 40 giorni mancanti, quasi non fosse sorvegliato ma piuttosto protetto da loro, con molta sfrontatezza faceva ginnastica e scherzava con loro; scrivendo poi poesie e discorsi, li faceva loro ascoltare e definiva barbari ed incolti quelli che non li apprezzavano, e spesso mettendosi a ridere minacciò di impiccarli; i pirati, poi, erano contenti di avere questo tipo di conversazione franca, con semplicità ed educazione. Quando dunque giunsero da Mileto i soldi del riscatto e poté ripartire dopo averli consegnati, una volta compiuto il viaggio per mare, immediatamente tornò verso i pirati dal porto di Mileto; assalite le barche di guardia tutt’attorno all’isola, ne catturò la maggior parte. Fece razzia delle loro ricchezze e impalò tutti gli uomini, come aveva preannunciato loro sull’isola, quando sembrava che scherzasse.
Le guerre piratiche
Molti anni separano le prime apparizioni dei Tirreni in Mediterraneo dal secondo rapimento “illustre”, cioè quello di Cesare, ma prima è bene fare una piccola premessa riguardante la pirateria nel suo complesso. Il fenomeno, che, come abbiamo detto, era connaturato al commercio in età antica, si affievolì quando si affermarono forti potenze marittime che avevano interesse a contrastarlo: Atene già nel V secolo a.C., Cartagine a occidente e Rodi in età ellenistica. Roma con la sua spregiudicata attività di conquista infranse questa sorta di ordine, distruggendo Cartagine nel 146 a.C. e cancellando di fatto la potenza marittima di Rodi, fortemente penalizzata nei suoi commerci con la creazione del porto franco di Delo (atto di ritorsione per la mancata partecipazione Rodiese alla III guerra macedonica del 171-168 a.C.). Il vuoto di potere che ne seguì favorì una decisa ripresa del fenomeno piratesco, che prese piede prevalentemente nelle coste della Cilicia, a sud dell’Asia Minore e a Creta.
I pirati cilici e cretesi, con somma arroganza e sicurezza, non si limitavano a depredare le navi che passavano vicino alle loro coste, ma audacemente attaccavano tutti i porti del Mediterraneo impiegando piccole navi a vela e a remi chiamate hemiolia o myoparones.
Cesare, stando a Svetonio, partecipò alla campagna piratica tra il 78 e il 75 a.C. – a fianco di un ex luogotenente di Silla, Servilio Vatia, che aveva il ruolo di proconsole di Panfilia – ma rimase per poco tempo in Oriente, tornando a Roma dopo aver saputo della morte di Silla. La campagna fu, dunque, per Cesare solo una brevissima parentesi, ma questo bastò al malizioso Svetonio per attribuirgli una relazione omosessuale con il re Nicomede di Bitinia.
La campagna contro i Pirati, caratterizzata anche da operazioni terrestri, fu invece una guerra dura e furono necessari molti sforzi per ripulire le coste dalla proliferazione di basi che questi banditi vi avevano costruito.
Servilio Vatia condusse le truppe romane all’interno del territorio Isaurico, non molto distante dalla Panfilia, dove i pirati avevano i loro covi, e uccise Zanicete, uno dei capi di questi bucanieri. Ma l’inutilità della sua campagna emerse in tutta la sua drammaticità con lo scoppio della terza guerra mitridatica (74-63 a.C.), quando i pirati riemersero dall’ombra offrendo aiuto navale al re del Ponto, nemico di Roma.
Il mare era una strada aperta per questi predoni che crearono una fitta rete di alleanze con i principali nemici di Roma, come il mariano Sertorio in Spagna e il gladiatore fuggiasco Spartaco, minacciando seriamente il predominio romano nel Mediterraneo.
Importante, all’interno del conflitto mitridatico, il successo ottenuto sulla flotta romana a Calcedonia nel 74 a.C. che fruttò ai pirati una momentanea egemonia marittima nel bacino orientale.
Per far fronte a questi intrepidi e sfuggevoli nemici venne affidato a Marco Antonio Cretico, padre del futuro antagonista di Ottaviano, un comando tutto particolare, con una autorità pari a quella dei vari proconsoli delle regioni rivierasche coinvolte nel conflitto.
Non conosciamo molto delle operazioni condotte da Antonio: sappiamo che intraprese la sua azione prima a Occidente, svolgendo campagne militari in Liguria e Sicilia (dove, per procurarsi le risorse di cui aveva bisogno, dovette ricorrere alle maniere forti con le comunità locali), poi nel 72 a.C. a Oriente, dove dovette far fronte agli altrettanto feroci pirati cretesi mentre il generale Lucullo era all’opera contro quelli cilici. Tuttavia, dopo qualche successo, nelle acque di Cidonia, Antonio venne sconfitto e catturato e fu costretto, attorno al 71 a.C., a firmare una pace umiliante.
L’immobilismo romano nel settore anatolico favorì la ripresa della pirateria cilicia e cretese e il Senato dovette attivare persino il console Metello per ripulire l’isola egea una volta per tutte. La campagna ebbe successo, nonostante molte difficoltà, ma chi pose definitivamente fine al problema costituito da questi corsari fu Pompeo Magno, dopo che i pirati cilici avevano addirittura attaccato le coste italiane minacciando il rifornimento granario della capitale.
Pompeo, come il suo predecessore Antonio, ricevette poteri straordinari per mezzo della lex Gabinia de piratis persequendis (67 a.C.) che, in pratica, gli concedeva autorità sull’intero bacino del Mediterraneo sotto il controllo di Roma. Al suo fianco operarono ben tredici legati, tutti senatori, ai quali vennero affidati diversi settori secondari.
Le operazioni portarono innanzitutto all’apertura del Tirreno: la Sardegna e la Sicilia erano importanti fonti granarie per Roma, e tale rifornimento doveva a tutti i costi essere difeso. In seguito la campagna venne condotta a Oriente, con toni assai aspri, lasciando astutamente la Cilicia priva di controllo per dar modo alle ultime forze avversarie di riunirsi in quella sorta di enclave.
La battaglia finale che venne condotta in questa regione fu molto dura, ma la fama di generosità che Pompeo si era conquistato permise al generale romano di ottenere, tutto sommato facilmente, la vittoria finale.
Fu dunque Pompeo e non Cesare il vero artefice della sconfitta dei pirati in Oriente, come di altri importanti successi in quell’ambito, anche se nella loro lotta personale per l’ascesa al potere fu il secondo a prevalere alla fine, aprendo una nuova era del governo romano.
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