Marte, pianeta decadente e in agonia: facile immaginarlo, a cavallo fra XIX e XX secolo, quando le teorie scientifiche dominanti parlavano di un Sistema Solare aggregatosi per stadi, dall’esterno verso l’interno, con un Marte quindi più antico della Terra e un Venere più giovane. Venere coperto di foreste lussureggianti nelle quali scorrazzavano liberi dinosauri di tutte le taglie; Marte antico e stracco, con le sue acque sempre più scarse disperatamente incanalate nelle strutture identificate da Schiaparelli, la sua atmosfera rarefatta, la sua civiltà morente e imbarbarita.
Sono perciò “vaste, antiche e spietate” le menti che ne La Guerra dei Mondi di HERBERT GEORGE WELLS (The War of the Worlds, 1897) osservano la terra dal Pianeta Rosso; creature parassite, adattate a vivere succhiando il sangue delle forme di vita inferiori, intrappolate in un vicolo cieco evolutivo e ambientale dal quale solo con la conquista interplanetaria si può sperare di uscire.
Meno sopraffatto dall’angoscia è invece Barsoom, il Marte immaginato dall’ex rappresentante di temperamatite EDGAR RICE BURROUGHS, narratore straordinario che sulle tundre spugnose del Pianeta Rosso trasporta, insieme al battagliero John Carter, gran parte dell’immaginario avventuroso ottocentesco, dal quale nascerà la narrativa pulp delle riviste degli anni Venti.
Barsoom è un meraviglioso luogo da visitare, non un granché come posto in cui vivere.
Tutte le donne sono fiere, avvenenti, seminude e ovipare; tutti gli uomini sono eroici, leali e testosteronici; tutti i malvagi sono di una turpitudine e di una meschinità senza uguali.
L’arma bianca è lo strumento di comunicazione sociale d’elezione; la tecnologia è strana e ormai perduta – l’atmosfera è rarefatta e viene mantenuta artificialmente da impianti dei quali si è dimenticato il funzionamento; l’acqua è un bene prezioso. Sebbene le loro navi volanti solchino ancora i cieli, la civiltà degli uomini rossi sta lentamente ma inesorabilmente perdendo terreno davanti all’avanzata dei barbari Thark, che sono verdi, zannuti, con sei arti polivalenti, e gioiscono solo nell’infliggere dolore al prossimo.
D’altra parte su Barsoom tutte le creature sono zannute e crudeli, dall’ulsio, colossale ratto a sei zampe, al calot, l’equivalente locale del volpino di Pomerania, un quintale di rettile-cane che può tuttavia dimostrarsi molto affettuoso, fino ai brutali thoat che gran parte degli indigeni usano come cavalcatura.
E crudeli e zannuti (per lo meno moralmente) sono gran parte degli abitanti senzienti del pianeta, come scoprirà il terrestre John Carter, eroe titolare della serie, ex ufficiale confederato giunto su Marte attraverso uno strano meccanismo di proiezione astrale, e protagonista del primo volume del ciclo, Under the Moons of Mars, noto anche come A Princess of Mars (1912, “Sotto le Lune di Marte” in Italia, nella raccolta John Carter di Marte).
Nel successivo The Gods of Mars (1914, “Gli Dei di Marte” ancora in John Carter di Marte) la struttura concentrica delle razze marziane viene ampiamente disvelata.
In questo secondo romanzo, il protagonista incontra i Pirati Neri, ne viene catturato, viene introdotto alla loro civiltà annidata sulle sponde del mare sotterraneo di Omean, fugge, ritorna in forze, perde la sua bella; poi nel terzo volume, Warlord of Mars (1918, “Il Signore della Guerra di Marte” in John Carter di Marte) la riconquista, sconfigge i malvagi, trionfa.
Ma chi sono i Pirati Neri di Barsoom?
“I Primi Nati di Barsoom”, ci viene spiegato in un lungo monologo dal personaggio di Xodar, “sono la razza di uomini neri dei quali io sono Dator, o, come direbbero i barsoomiani inferiori, Principe. La mia razza è la più antica del pianeta. Tracciamo la nostra ascendenza, ininterrotta, direttamente all’Albero della Vita che fioriva al centro della Valle di Dor ventitré milioni di anni or sono. Per anni inenarrabili il frutto di questo albero subì i graduali cambiamenti dell’evoluzione…”: dal capitolo 7 di The Gods of Mars, che contiene una lunga, articolata descrizione dell’origine della vita su Barsoom, con un’immagine ingenua ma affascinante dell’evoluzione, acceso argomento di dibattito nell’America di inizio secolo.
Si rincorrono non poche suggestioni pseudo-teosofiche nei romanzi marziani di Edgar Rice Burroughs, dal viaggio astrale del protagonista al succedersi e rimpiazzarsi di razze e civiltà – i rimasugli delle quali si trovano rintanati in località poco battute del pianeta.
Quindi, seguendo a ritroso la storia di Barsoom, dopo i marziani verdi e i marziani rossi, incontriamo gli “Dei” di Marte – una crudele popolazione di pelle bianca precedente la civiltà degli uomini rossi – e i marziani neri, i Primi Nati o Primigeni (First Born), che manipolano crudelmente gli autoproclamati Dei in una beffa crudele.
Questa concatenazione di razze che si susseguono è tipicamente di stampo blavatskyiano: nella dottrina teosofica sviluppata nella seconda metà dell’Ottocento da ELENA PETROVNA GAN (meglio conosciuta come Madame Blavatsky), riciclando la fantascienza razziale di EDWARD BULWER-LYTTON, si ritrova infatti quasi invariata l’ipotesi che l’evoluzione sul nostro pianeta sia stata il prodotto di un susseguirsi, in un continuo ciclo di dominanza-decadenza-sostituzione, di diverse “razze” (“root races”, descritte come vere e proprie specie differenti), inclusa una razza umanoide ovipara come i marziani rossi di Burroughs, e una primigenia razza di origine vegetale la cui storia è emulata dai pirati neri.
Come i resti delle civiltà perdute di Barsoom, anche gli antichi della Blavatsky sopravvivrebbero in piccoli gruppi in località isolate e misteriose (il Tibet, il deserto del Gobi, il centro della Terra).
E se il cliché razziale che anima i Pirati Neri di Barsoom – la popolazione più antica e più brutale, erede di oscure meraviglie magico-tecnologiche, ridotta però, per carenza di mezzi di sostentamento, a depredare le razze che considera inferiori – dimostra quali incubi possa generare la cattiva digestione delle teorie di Darwin da parte dei teosofi, sul piano dell’avventura i pirati neri di Barsoom rappresentano comunque un solido appiglio per la narrativa di Burroughs, un ingrediente che l’autore sfrutta e dosa con una certa maestria.
Burroughs concede infatti ai Pirati Neri solo un’altra uscita, nella novella “Black Pirates of Barsoom”, parte del breve ciclo di quattro storie normalmente riunite sotto il titolo di Llana of Gathol (1948, Lhana di Gathol del Pianeta Marte), decimo volume della serie marziana, a detta di molti il migliore dell’intera saga dal punto di vista strettamente stilistico.
La trama è abituale (eroi in fuga, malvagi in agguato, bellezze in pericolo), ma John Carter si sposta dal centro della scena per lasciare spazio al suo compagno d’avventure, lo spadaccino Pan Dan Chee, solitamente un comprimario .
Sperduti su Barsoom, i due soccorrono la fascinosa Llana di Gathol. Quando il povero Pan Dan Chee, innamoratosene, le rivelerà di aver posto il proprio cuore ai suoi piedi, lei da perfetta donna marziana gli risponderà: “Raccoglilo, perché sono stanca e voglio dormire”.
Nel corso delle loro disavventure – fra catacombe, città perdute e uomini invisibili – i tre protagonisti avranno anche il tempo di finire catturati dai Pirati Neri di Barsoom, essere venduti come schiavi, partecipare a ludi gladiatorii, sfuggire (nel caso di Llana) a un tentativo di stupro, e infine compilare una ideale lista di personaggi coi quali regolare i conti.
Edgar Rice Burroughs, indubbiamente uno dei grandi narratori istintivi del secolo scorso, sviluppò fin dal suo primo lavoro (proprio Under the Moons of Mars) una formula affidabile e moderatamente elastica, che non abbandonò per il resto della propria carriera, e della quale esplorò ogni possibile variante.
Sullo sfondo di un ambiente esotico, un eroe forte, affiancato da un amico leale, affronta un malvagio per soccorrere una donna fiera e bellissima, e ripristinare infine lo status quo.
L’azione si sposta capitolo dopo capitolo da un personaggio all’altro, creando così una catena di cliffhanger che catturano il lettore e lo trascinano avanti.
Il linguaggio alieno, da quello degli animali parlato da Tarzan – altro personaggio celeberrimo partorito dall’immaginazione di Burroughs – al barsoomiano, è complemento essenziale dell’ambientazione, che attraverso le vicende dei personaggi viene esplorata ed ampliata.
Ogni avventura seriale getta luce su un nuovo settore della mappa, aggiunge un elemento al mosaico della cultura aliena o dell’ambiente esotico, rinforza la statura dell’eroe.
Di fatto, Burroughs racconta sempre la stessa storia, ma con una tale abilità di affabulazione da non lasciare al lettore il tempo di accorgersene, prima che l’ottovolante si sia fermato.
Dopo aver terminato di leggere le opere di questo autore ci si sente sempre un po’ in imbarazzo. Ma fintanto che l’azione scorre sulla pagina, si ha altro a cui pensare, troppo presi dal divertimento.
Mentre si approssima la versione cinematografica targata PIXAR del primo episodio della saga di John Carter, prevista per il 2009, i fan che finora hanno trascurato i deserti e le città in rovina di Barsoom farebbero bene a colmare la loro lacuna.
L’importanza delle avventure marziane di Burroughs è molteplice, in parte per motivi storici, in parte per motivi filologici: si tratta di romanzi vecchi di un secolo ma ancora freschi e coinvolgenti, e Barsoom non fu solo l’incubatrice della narrativa pulp, ma esercitò una influenza diretta su autori imprescindibili per la storia della narrativa fantastica e fantascientifica, quali ROBERT ERWIN HOWARD, LEIGH BRACKETT, EDMOND HAMILTON.
Più importante ancora è la qualità della narrativa di Burroughs, il quale dimostrò sempre un grande rispetto per il lettore e una grande cura per il linguaggio e le descrizioni, ciò che più tardi sarebbe stato chiamato il sense of wonder. Da questo punto di vista, l’autore resta essenziale nella formazione del gusto del pubblico, che difficilmente, letto John Carter o le altre sue saghe, si accontenterà poi della prosa sciatta e delle atmosfere di seconda mano di tanto Fantastico di dozzina.