Il Castello Incantato (Castle of Wizardry, 1984) David Eddings

Il Castello Incantato

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INTRODUZIONE

Con questo “Il Castello incantato” giunge al suo quarto capitolo la saga dei Belgariad, scaturita dalla penna di David Eddings. Come abbiamo ribadito più volte (e com’è probabilmente comunque noto alla gran parte dei nostri lettori), questo lungo ciclo fantastico è stato uno dei maggiori successi commerciali degli ultimi anni, tradotto in numerosi Paesi e già gratificato di un seguito che sta sbaragliando ogni precedente record d’incassi nel campo del fantasy.

Ad onta di sentirci tacciare d’intellettualismo dobbiamo però dichiarare con fermezza che non sono le fortune economiche dei Belgariad a farceli considerare uno degli eventi letterariamente più rilevanti, per la letteratura fantastica, dell’ultimo quinquennio. Come accennato nell’introduzione a “La valle di Aldur”, l’elemento davvero ammaliante di questa novella epica del nostro secolo, sta nel suo crescente spessore mitico, nella sua sempre più evidente capacità d’incarnare modi e suggestioni di un narrare non di questo tempo. La trama letteraria in se stessa sembra assumere vieppiù un ruolo quasi da coro dell’antica tragedia greca, lasciando il proscenio all’atavico protagonismo dei simboli e dei sottintesi. Il tempo storico (o forse dovremmo dire “convenzionale”) misurato sulla quotidianità dell’intreccio avventuroso, si va sempre più rarefacendo, a tutto vantaggio di un ‘immobilità cronologica, di un presente astorico ancorato piuttosto al senso dello spazio: insomma, il susseguirsi delle avventure viene ad assumere una sequenza puramente “spaziale” ed a riassumere contemporaneamente in sé l’intera narrazione della “vita”, a tutto scapito del tempo, simbolo della misurabilità e relatività delle “umane cose”. Come ben avevano osservato Horkheimer ed Adorno per esempio a proposito dell’Odissea, l’esperienza del vivere è misurata qui sullo spazio, modello irrevocabile d’ogni tempo mitico.

E proprio questa modalità consente di leggere l’esperienza, organizzata dal narrare in senso escatologico, come un “modello esemplare”. In questo senso la saga dei Belgariad va confermando la propria natura di narrazione fantastica altamente consapevole, rafforzando gli elementi che, al di là della forma, la rendono per caratteristiche ed aspirazioni, molto eterogenea rispetto al romanzo moderno.

A questo proposito, in una sua bella raccolta di saggi edita dalla Jaca Book (“La Chimera ed il terrore – saggi sul gotico, l’avventura e l’enigma”), Roberto Barbolini, studioso e critico letterario del “Giornale Nuovo”, riportava quattro anni fa una celebre frase di Benjamin: “… ciò che separa il romanzo dalla narrazione (e dall’epica in senso stretto) è il suo riferimento strettissimo al libro. La diffusione del romanzo diventa possibile solo con l’invenzione della stampa. Il luogo di nascita del romanzo è l’individuo nel suo isolamento, che non è più in grado di esprimersi in forma esemplare sulle questioni di maggior peso e che lo riguardano più da vicino.”

Per contrasto, questa puntualizzazione di Benjamin evidenzia con grande chiarezza le peculiarità della letteratura dell’immaginario, refrattaria ad accettare i limiti che l’inevitabile ed obbligata “forma romanzo” le imporrebbe e proiettata invece a “schiudere gli abissi del tempo mitico, invitandoci ad un piacevole naufragio nel mare di una non ancor frantumata totalità.” In questa direzione, sulle orme di opere capitali come quelle degli Inklings (a partire da Tolkien e C.S. Lewis), il ciclo fantastico di Eddings eccelle, con disinvolta autocoscienza.

Date queste premesse appare evidente come l’intrinseca freschezza e gradevolezza della narrazione nulla abbia a soffrire dal reiterarsi di moduli narrativi ben noti, autentici “topoi” dell’epica e della letteratura cavalleresca: la cerca vittoriosa, il matrimonio con la bella principessa, la sconfitta del mago malvagio, pur rivestiti dei panni sgargianti di nuove geografie e di folklori bizzarri e immaginati, ben difficilmente sfuggirebbero al tedio dello stereotipo romanzesco, se in esse non s’avvertisse il palpito, l’anelito di una dialettica per simboli che parla direttamente al cuore prima ancora che all’intelletto.

Tutto ciò dimostra come la fantasy – la grande fantasy, la fantasy autentica – abbia realizzato una spettacolosa sintesi, unendo il “tempo dell’avventura” (che resta l’aspetto più stimolante e universalmente valido del romanzo moderno, dalla letteratura gotica ad Emilio Salgari), al “mondo prodigioso” tipico del romanzo cavalleresco: il mondo magico, cioè sede delle ierofanie e luogo per eccellenza del sacro, in cui si muovono Artù e Lancillotto, Parsifal e Beowulf, Erik il Rosso e gli eroi -umani e divini – dell’Edda.

In questo senso assume scala cosmica anche il diagramma di lettura delle emozioni: laddove nel romanzo l’analisi psicologica delle emozioni si fa operazione illuministica, tesa a spiegare il momento estetico sul piano del piacere sensibile che esso procura nell’epica moderna di cui la fantasy è portatrice, l’individualità stessa dell’emozione e del sentimento assume un senso solo se rapportata ad un “disegno”; solo se ricondotto entro le righe di un narrato il cui senso è proprio e solo quello di ridisegnare l’esperienza vitale come esperienza “d’ordine”, di opporre l’esplicitazione di un “cosmos” alla vittoriosa, il matrimonio con la bella principessa, la sconfitta del mago malvagio, pur rivestiti dei panni sgargianti di nuove geografie e di folklori bizzarri e immaginati, ben difficilmente sfuggirebbero al tedio dello stereotipo romanzesco, se in esse non s’avvertisse il palpito, l’anelito di una dialettica per simboli che parla direttamente al cuore prima ancora che all’intelletto.

Tutto ciò dimostra come la fantasy – la grande fantasy, la fantasy autentica – abbia realizzato una spettacolosa sintesi, unendo il “tempo dell’avventura” (che resta l’aspetto più stimolante e universalmente valido del romanzo moderno, dalla letteratura gotica ad Emilio Salgari), al “mondo prodigioso” tipico del romanzo cavalleresco: il mondo magico, cioè sede delle ierofanie e luogo per eccellenza del sacro, in cui si muovono Artù e Lancillotto, Parsifal e Beowulf, Erik il Rosso e gli eroi -umani e divini – dell’Edda.

In questo senso assume scala cosmica anche il diagramma di lettura delle emozioni: laddove nel romanzo l’analisi psicologica delle emozioni si fa operazione illuministica, tesa a spiegare il momento estetico sul piano del piacere sensibile che esso procura{4} nell’epica moderna di cui la fantasy è portatrice, l’individualità stessa dell’emozione e del sentimento assume un senso solo se rapportata ad un “disegno”; solo se ricondotto entro le righe di un narrato il cui senso è proprio e solo quello di ridisegnare l’esperienza vitale come esperienza “d’ordine”, di opporre l’esplicitazione di un “cosmos” alla percezione empirica del “caos”.

Ecco allora che anche il senso complessivo del ciclo dei Belgariad si afferma con prepotente esuberanza, travalicando la pura sequenza avventurosa, o meglio confermandola nella totalità di un mito ridisegnato. Garion riconquisterà l’Orb, la gemma miracolosa che difende l’Occidente, e la riporterà nel palazzo dei Re di Riva; completerà altresì il suo cammino iniziatico, portando a compimento la definizione della sua personalità e, ciò che è più importante, del suo ruolo. Intorno a lui personaggi ed eventi andranno a completarsi, eliminando le apparenti aporie, inserendosi nei rispettivi luoghi di questo favoloso universo “ordinato”, come i pezzi di un puzzle complesso, ma di cui è in fondo sempre stata presente, come un presentimento, l’immagine d’assieme. Può sembrare paradossale, ma in fondo, alla luce di tutto questo, il fatto che alla fine il romanzo sia anche appassionante, divertente, originale e ben scritto sembra divenir marginale. Magia della narrazione autentica, come quella orale che riportavano di generazione in generazione saggi anonimi ed oscuri, che insegnava agli uomini il “dover essere” del mondo ed era anche contemporaneamente, quasi per caso, letterariamente un capolavoro.

Alex Voglino

Anteprima testo

PROLOGO

Resoconto di come Riva Morsa di Ferro divenne Custode dell’Occhio di Aldur e del male a lui recato da Nyissa.
…Basato sul Libro di Alorn e versioni successive.

Giunse un tempo in cui Cherek ed i suoi tre figli si recarono in Mallorea con Belgarath il Mago. Insieme, essi tentarono di riconquistare l’Occhio di Aldur, che era stato rubato dal mutilato Dio Torak; quando giunsero nel luogo in cui l’Occhio era nascosto, all’interno della torre di ferro di Torak, soltanto Riva Morsa di Ferro, il più giovane dei tre figli, osò afferrare il grande gioiello per portarlo via, perché soltanto Riva aveva un cuore privo di qualsiasi intento malvagio.

E quando essi furono tornati di nuovo nell’Occidente, Belgarath affidò a Riva ed ai suoi discendenti l’eterno compito di proteggere l’Occhio, dicendo:

«Finché l’Occhio rimane nelle tue mani ed in quelle dei tuoi discendenti, l’Occidente è salvo.»

Allora Riva prese l’Occhio e fece vela con il suo popolo alla volta dell’Isola dei Venti. Là, nell’unico punto in cui le navi potevano attraccare, Riva ordinò di edificare una Cittadella, ed una città fortificata da mura tutt’intorno ad essa, che gli uomini chiamarono Riva: una città che era una fortezza, eretta per la guerra.

All’interno della Cittadella venne costruita una grande sala, con un trono scolpito in un blocco di roccia nera e sistemato contro la parete, e gli uomini chiamarono quella stanza del trono la Sala del Re Rivano.

Poi Riva fu assalito da un sonno profondo, e Belar, il Dio-Orso degli Alorn, gli apparve in sogno, dicendo:

«Mira, Custode dell’Occhio, io farò cadere dal cielo due stelle, e tu le raccoglierai, le metterai nel fuoco e le forgerai: da una di esse ricaverai una lama, dall’altra un’elsa, ed insieme esse formeranno una spada con cui proteggere l’Occhio di mio fratello Aldur.»

Al suo risveglio, Riva vide due stelle cadere, le andò a cercare e le trovò fra le alte montagne. Con esse, fece come Belar gli aveva detto ma, quando ebbe finito, non ci fu modo di congiungere l’elsa con la lama.

«Guarda» gridò allora Riva, «ho sbagliato tutto, perché la spada non vuole diventare una cosa sola!»

«Il tuo lavoro non è sbagliato, Riva» gli rispose allora una volpe, che se ne stava seduta poco lontano ad osservarlo. «Prendi l’elsa e colloca su di essa l’Occhio come pomo.»

E quando Riva ebbe seguito le istruzioni della volpe, l’Occhio divenne una cosa sola con l’elsa, ma elsa e lama continuarono a rimanere separate. Di nuovo, la volpe gli diede consiglio.

«Prendi la lama con la sinistra e l’elsa con la destra e congiungile.»

«Non si uniranno. Non è possibile» protestò Riva.

«Sei davvero saggio» commentò la volpe, «se sai che una cosa non è possibile prima ancora di aver fatto un tentativo.»

Allora Riva fu assalito dalla vergogna. Accostò la lama all’elsa e la lama penetrò nell’elsa come un bastone scivola nell’acqua: la spada fu unita per sempre.

La volpe rise e disse:

«Prendi la spada e colpisci la roccia che c’è davanti a te.»

Riva temette di poter frantumare la lama, ma la calò comunque sulla roccia, ed essa si spezzò in due, lasciando scaturire un fiume d’acqua che prese a scorrere verso la città sottostante. E nel lontano est, nell’oscurità di Mallorea, il mutilato Torak si destò di soprassalto nel suo letto, mentre un brivido gelido gli attraversava il cuore.

La volpe rise ancora, quindi corse via, soffermandosi però a guardarsi alle spalle: Riva si accorse che non si trattava più di una volpe, ma del grande lupo argentato di cui Belgarath era solito assumere le sembianze.

Riva fece collocare la spada sulla parete di roccia nera che si levava alle spalle del suo trono, con la lama rivolta verso il basso in modo che l’elsa, sormontata dall’Occhio, si trovasse nel punto più alto. E la spada pentirò nella roccia così che nessuno, tranne Riva, poté più estrarla.

Con il trascorrere degli anni, gli uomini si accorsero che l’Occhio ardeva di un fuoco freddo quando Riva sedeva sul trono e che quando lui prendeva la spada e l’impugnava, essa si trasformava in una grande lingua di fuoco azzurro.

All’inizio della primavera dell’anno successivo a quello in cui la spada venne forgiata, una piccola imbarcazione solcò le oscure acque del Mare dei Venti, procedendo senza l’ausilio dei remi o delle vele: sola, su di essa, c’era la fanciulla più bella che ci fosse in tutto il mondo, ed il suo nome era Beldaran, amata figlia di Belgarath, venuta per diventare la sposa di Riva. Ed il cuore di Riva si colmò d’amore per lei, com’era stato prestabilito dall’inizio dei tempi.

Nell’anno che seguì il matrimonio di Beldaran e di Riva, alla coppia nacque un figlio nel giorno di Erastide, e sulla mano destra di questo figlio di Riva c’era il marchio dell’Occhio. Immediatamente, Riva condusse il neonato nella Sala del Re Rivano ed accostò la minuscola mano all’Occhio. Esso riconobbe il piccino e risplendette d’amore per lui. Da allora, la destra di ogni discendente di Riva portò il segno dell’Occhio, in modo che esso lo riconoscesse e non lo distruggesse quando lui lo avesse toccato, perché soltanto un discendente di Riva poteva posare la mano sull’Occhio senza correre rischi. Ogni volta che il neonato sfiorava l’Occhio, il vincolo fra esso e la casa di Riva si rinforzava, e ad ogni contatto aumentava anche la luminosità dell’Occhio.

Così fu nella città di Riva per un migliaio di anni. Alcune volte, c’erano stranieri che solcavano il Mare dei Venti, per instaurare traffici commerciali, ma le navi di Cherek, votate a difendere l’Isola dei Venti, piombavano su di essi e li annientavano. Con il tempo, tuttavia, i re alorn s’incontrarono e decisero in consiglio che quegli sconosciuti non erano servitori di Torak, ma adoravano invece il Dio Nedra; acconsentirono quindi che le loro navi solcassero il Mare dei Venti senza subire molestie.

«Perché» disse il Re Rivano agli altri monarchi, «potrebbe venire il momento in cui i figli di Nedra si uniranno a noi nella lotta contro gli Angarak di Torak Occhio-Solo. Non offendiamo Nedra affondando le navi dei suoi figli.»

Il sovrano di Riva parlò con saggezza, ed i re alorn si dissero d’accordo con lui, consapevoli che il mondo stava cambiando.

Vennero dunque firmati alcuni trattati con i figli di Nedra, che traevano una gioia infantile dall’apporre la loro firma su un pezzo di pergamena, ma quando essi giunsero nel porto di Riva, con le navi cariche di sgargianti ed inutili oggetti a cui essi attribuivano un grande valore, il re Rivano rise della loro follia e chiuse loro le porte della città.

I figli di Nedra importunarono il loro re, che essi chiamavano Imperatore, chiedendogli di forzare le porte della città, in modo che essi potessero vendere i loro sgargianti ninnoli nelle sue vie, e così l’Imperatore inviò un esercito sull’Isola. Ora, permettere a questi stranieri, provenienti da un regno che essi chiamavano Tolnedra, di solcare il Mare dei Venti era un conto, ma lasciare che facessero sbarcare indisturbati un esercito davanti alle porte di Riva senza fermarli era tutt’altra cosa. Il Re Rivano ordinò di ripulire la spiaggia antistante la città e di spazzar via dal porto tutte le navi di Tolnedra. E così fu fatto.

Grande fu l’ira dell’Imperatore di Tolnedra, che raccolse i suoi eserciti per attraversare il Mare dei Venti e cominciare una guerra. Allora i pacifici Alorns indissero un consiglio nel tentativo di far intendere la ragione a quell’impulsivo Imperatore, e gli inviarono un messaggio per avvisarlo che, se avesse persistito, avrebbero distrutto sia lui che il suo regno e gettato in mare quanto ne fosse rimasto. L’Imperatore prestò ascolto a quella quieta protesta e rinunciò alla sua disperata impresa.

A mano a mano che trascorsero gli anni e che quei mercanti provenienti da Tolnedra si rivelarono innocui, il Re Rivano permise loro di costruire un villaggio sulla spiaggia antistante la città e di mettere in mostra là le loro inutili mercanzie. Il loro disperato bisogno di vendere o barattare qualcosa lo divertì, ed il sovrano chiese alla sua gente di acquistare qualche oggetto da loro… anche se non si riuscì a capire a cosa servissero le merci dei Tolnedrani.

Poi, quattromila e due anni dopo il giorno in cui il Maledetto Torak aveva impugnato l’Occhio rubato e spaccato la superficie del mondo, altre strane persone giunsero nel villaggio che i figli di Nedra avevano edificato fuori delle mura di Riva, e si scoprì che quegli stranieri erano i figli del Dio Issa: essi si autodefinivano Ny-Issani e sostenevano che il loro sovrano era una donna, il che sembrava innaturale a quanti li ascoltavano. Il nome della loro regina era Salmissra.

Essi giunsero sotto mentite spoglie, affermando di portare ricchi doni da parte della loro regina per il Re Rivano e la sua famiglia. Sentendo questo, Gorek il Saggio, anziano re della discendenza di Riva, ebbe curiosità e volle sapere qualcosa di più sul conto di questi figli di Issa e della loro regina. Insieme a sua moglie, ai suoi due figli, alle loro spose ed a tutti i nipoti, lasciò la fortezza e la città per visitare il padiglione dei Ny-Issani, per accoglierli con cortesia e per ricevere i doni senza valore mandati dalla sovrana di Sthiss Tor. Il Re Rivano e la sua famiglia vennero accolti con molti…

Il castello incantato - Copertina

Tit. originale: Castle of Wizardry

Anno: 1984

Autore: David Eddings

Ciclo: Belgariad (The Belgariad series) #4

Edizione: Editrice Nord (anno 1988), collana “Fantacollana” #79

Traduttore: Annarita Guarnieri

Pagine: 364

Dalla copertina | Finalmente la cerca di Garion e dei suoi compagni sembra essere giunta a termine. La mitica gemma che protegge l’occidente, l’Orb, è nuovamente in mano loro. Ma ora occorre attraversare le terre orientali e riportare la gemma alla reggia di Riva entro breve tempo, oppure ogni fatica sarà stata vana. E Garion non può certo immaginare quali sorprese siano in serbo per lui e per la giovane principessa Ce’Nedra fra le mura di Riva. Continua, con il quarto romanzo, la straordinaria saga fantastica dei Belgariad.

#1 – Il Segno della Profezia

#2 – La Regina della Magia

#3 – La Valle di Aldur

#4 – Il Castello Incantato

#5 – La Fine del Gioco