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Vista dall’alto, la foresta aveva l’aspetto di una massa di schiuma gonfia e irregolare: un mondo gigantesco, una spugna porosa che tutto copriva, una sorta di animale che, nascostosi per tendere agguati, si era addormentato ed era stato coperto dal ruvido muschio. Era una maschera senza lineamenti, dietro cui si nascondeva la faccia vera, quella che non si era ancora rivelata a nessuno.
Pepper si sfilò i sandali per sedersi sul ciglio del precipizio, con le gambe che penzolavano nel vuoto, e provò subito un’impressione di umidità sotto i talloni, come se avesse immerso i piedi nella calda nebbia azzurrognola che saliva dall’ombra sotto la rupe. Pescò dalla tasca i sassi raccolti lungo il cammino e li posò in terra in bell’ordine. Poi scelse il più piccolo e lo scagliò nella massa vivente e addormentata, silenziosa e indifferente. Seguì con lo sguardo la macchiolina bianca, ma essa sparì senza che succedesse nulla: non ci fu un solo ramo che tremasse, nessun occhio che si spalancasse per guardare verso l’alto.
Se si gettava una pietra ogni novanta secondi e se era vero ciò che raccontava il cuoco con una gamba sola – quello soprannominato “Violetta” – e che Madame Bardot, capo dell’Assistenza al Gruppo di Popolazione Locale, non aveva smentito, se l’autista Asso aveva detto una menzogna allo sconosciuto del Gruppo Ingegneri Penetratoli, se l’intuito umano valeva ancora qualcosa e se – ma una sola volta nella propria vita! – si poteva realizzare un desiderio, allora, scagliata la settima pietra, i cespugli dietro di lui si sarebbero aperti rumorosamente, e sull’erba ancora bagnata di rugiada della piccola radura sarebbe comparso il direttore: petto nudo e calzoni grigi con la fascia lilla, respiro ansante, pelle lucida e sudata, giallognola e flaccida; senza fissare nulla in particolare, né la foresta sotto di lui né il cielo sovrastante, si sarebbe piegato fino a toccare con le dita l’erba e si sarebbe rialzato di scatto, sferzando l’aria con le sue enormi mani e soffiando dalla bocca, con qualcosa a metà tra un fischio e un rantolo, il fiato greve di nicotina e saturo di anidride carbonica.
Pepper era a questo punto delle sue riflessioni, quando, dietro di lui, con uno schianto, i cespugli si aprirono davvero. Si girò lentamente a guardare, ma, invece di scorgere il direttore, vide una persona che conosceva fin troppo bene: Claudio-Ottaviano Hausbotcher del Gruppo di Eradicazione. L’uomo si avvicinò a Pepper senza fretta e si fermò a due passi di distanza da lui, squadrandolo con i suoi occhi scuri e penetranti. A giudicare dall’aspetto, Hausbotcher doveva avere saputo (o sospettato) qualcosa di grave, e per questo aveva atteggiato il lungo viso in un’espressione dura e impassibile: l’espressione di chi s’è affrettato a correre fino al ciglio del precipizio perché deve comunicare una notizia importantissima, imprevedibile e inquietante. Soltanto lui, per il momento, sapeva di che cosa si trattasse, ma – chiaramente – tutto era cambiato in modo decisivo; quanto era accaduto in precedenza era ormai privo di significato, e oggi, finalmente, sarebbe stato chiesto a tutti, fino all’ultimo uomo, di prodursi nel massimo sforzo per il bene collettivo.
— Chissà di chi potrebbero essere, quelle scarpe? — fece Hausbotcher, guardandosi attorno.
— Non sono scarpe, sono sandali — precisò Pepper.
— Davvero? — Con una smorfia di derisione, Hausbotcher trasse di tasca un monumentale taccuino. — Sandali? Molto bene. Ma di chi potrebbero essere, quei sandali?
Si sporse verso il precipizio, diede cautamente un’occhiata a quel che stava al di sotto e fece questo è male, Pepper: dovrebbe rifletterci. Glielo dico per il suo bene, non per il mio. Lei dovrebbe essere più comprensibile. Sedersi sull’orlo del precipizio, a piedi nudi, e gettare pietre… perché lo fa? si chiederebbe chiunque. Al posto suo, direi tutto. Chiarirei ogni dubbio. Chissà, potrebbe esserci qualche circostanza attenuante. Comunque, non c’è niente che la minacci. È così, Pepper?
— No — rispose Pepper. — Voglio dire, naturalmente, sì.
— Visto? — ribatté Hausbotcher. — La semplicità del ragionamento è la prima a sparire e a non ritornare più. Chi è stato a scagliare la pietra? ci chiediamo. E perché? Ed, eventualmente, a chi? O – come forse è il caso – contro chi? E perché? E come fa a sedere sull’orlo del precipizio? Io, per esempio, non sarei capace di farlo, e non riesco a immaginare un motivo per abituarmi a farlo. La sola idea mi fa venire il capogiro. È naturale che sia così. Nessuno ha bisogno di sedersi sul bordo del precipizio. Soprattutto se non ha il permesso per entrare nella foresta. Mi faccia vedere il suo permesso, Pepper.
— Non l’ho chiesto — rispose lui.
— Visto? Non l’ha chiesto — continuò Hausbotcher. — Come mai?
— Non lo so… Non me l’avrebbero dato, penso.
— Esatto. Non gliel’avrebbero dato. E perché? Io ce l’ho, un mucchio di gente ce l’ha, ma per qualche motivo lei non riuscirebbe ad averlo.
Pepper lo guardò di lato, lentamente. Hausbotcher continuava a tirare su dal naso e a battere gli occhi.
— Probabilmente perché sono un estraneo — azzardò Pepper.
— Lo sa — gli confidò Hausbotcher. — Non sono il solo a interessarmi di lei. Fossi il solo! C’è anche qualcun altro, un po’ più in alto di me. Ascolti, Pepper. Perché non si alza e non viene più indietro, così possiamo parlare meglio? A guardarla mi vengono le vertigini.
Pepper si alzò e cominciò a saltellare su una gamba sola, mentre si allacciava i sandali.
— Oh, per piacere, si allontani da quel precipizio! — esclamò Hausbotcher, in tono sofferente, brandendo il taccuino in direzione di Pepper. — Con queste sue pagliacciate, un giorno o l’altro mi farà morire!
— Finito — annunciò Pepper, posando in terra il piede. — Non lo farò più. Che ne direbbe di andarcene?
— Andiamo, andiamo — rispose Hausbotcher. — Ripeto, comunque, che non ha risposto un passo indietro, con aria guardinga.
— C’è un uomo seduto sull’orlo del precipizio — riprese. —Accanto a lui ci sono dei sandali. La domanda sorge spontanea: di chi sono quei sandali e dov’è il loro proprietario?
— Sono miei — rispose Pepper.
— Suoi? — Hausbotcher abbassò lo sguardo sul taccuino, con aria dubbiosa. —Allora, è a piedi nudi? Perché?
— Perché non avevo scelta — spiegò Pepper. — Ieri mi è caduta la scarpa destra; allora ho deciso di sedermi sempre a piedi nudi. — Sporse la testa verso l’abisso. — La posso ancora vedere. Se lancio questo sasso, la…
Hausbotcher gli afferrò il braccio e gli prese la pietra.
— È solo un sasso — confermò poi.— La cosa, però, non fa differenza, almeno per il momento. Pepper, non riesco a capire perché si ostini a mentirmi. E impossibile che lei riesca a vedere la scarpa da qui – sempre che ci sia, e questa è un’altra questione, di cui ci occuperemo in seguito – e non riuscendo a vedere la scarpa, non potrebbe colpirla con una pietra, neanche se ne avesse la necessaria abilità e se volesse davvero colpire la scarpa, voglio dire. Comunque, ce ne occuperemo dopo.
Si rimboccò i calzoni e si piegò sulle ginocchia.
— Così — continuò Hausbotcher — è stato qui anche ieri. Perché? Perché è venuto di nuovo al precipizio mentre i dipendenti del Direttorato, per non parlare degli avventizi, ci vengono solamente per espletare qualche necessità fisiologica?
Pepper si sentì cadere le braccia. Questa è semplice ignoranza, pensò. Non lo dice per sfida, e neppure in tono sprezzante. È solo ignoranza. E non bisogna prenderla sul serio. L’ignoranza scarica i propri rifiuti sulla foresta. L’ignoranza deve sempre scaricare i suoi rifiuti su qualcosa d’altro, e lordarlo.
— A quanto pare, le piace sedere qui — proseguì Hausbotcher, in tono insinuante. — La foresta le piace, vero? Ne va pazzo. Risponda!
— A lei non piace? — chiese a sua volta Pepper.
— Non cambi discorso — rispose Hausbotcher, corrucciato, e, col pollice, aprì di scatto il taccuino. — Come sa perfettamente, io appartengo all’Eradicazione, e perciò la sua domanda è priva di significato. Sa che la mia disposizione di spirito nei confronti della foresta è quella stabilita dai miei doveri professionali; non mi è chiaro, però, quale sia la sua disposizione. E a nessuna delle mie domande. Lei mi fa soffrire, Pepper. Le sembra il modo di andare avanti?
Fissò per un istante il grosso taccuino e poi, stringendosi nelle spalle, se lo infilò sotto l’ascella. — È davvero strano. Non ricavo niente, da lei: né impressioni, né informazioni.
— Va bene. Cosa dovrei rispondere? — chiese Pepper. — Volevo avere la possibilità di parlare con il direttore.
Hausbotcher s’immobilizzò bruscamente, come se una radice gli avesse bloccato il piede, poi aggiunse, con voce alterata: —Allora, è così…
— “È così” che cosa?
— No — lo interruppe Hausbotcher, guardandosi attorno. — Non dica altro. Non c’è bisogno di parole. Adesso lo capisco, aveva ragione.
— Che cosa ha capito? E dove avrei ragione?
— No, no, non ho capito niente. Non ho capito, e basta. Può stare tranquillo. Non sono neppure venuto qui. Non l’ho vista.
Passarono davanti alla piccola panca, salirono la rampa di scalini sbreccati, girarono in una stradina coperta di sabbia rossastra e si trovarono finalmente sul terreno del Direttorato.
— La completa chiarezza può esistere solo a un certo livello— proseguiva intanto Hausbotcher. — E ciascuno dovrebbe sapere fin dove può pretenderla. Al mio livello pretendevo la certezza, era mio diritto, e l’ho esercitata a fondo. Ma dove finiscono i diritti cominciano gli obblighi…
Passarono davanti alle dieci basse villette con le tendine di tulle alle finestre, oltrepassarono il garage, attraversarono l’area ricreativa e superarono anche l’ostello, custodito da un portiere pallido come la morte e con gli occhi sgranati, e procedettero lungo la palizzata, dal cui interno giungeva un rombo sordo, di grossi motori. Accelerarono il passo e, poi, dato che rimaneva poco tempo, si misero a correre. Nonostante questo, però, arrivarono troppo tardi al refettorio, e trovarono tutti i posti occupati. Solo al tavolo dei servitori, nell’angolo in fondo, rimanevano due posti a sedere: il terzo era occupato dall’autista Asso, il quale, nel vederli fermi sulla soglia e titubanti, agitò la forchetta nella loro direzione e li invitò a sedere con lui.
Tutti bevevano yogurt; anche Pepper ne prese due bottiglie e le posò accanto alle altre quattro, sulla tovaglia macchiata; poi, quando spostò le gambe per stare più comodo sullo sgabello, sentì un tintinnio e vide rotolare, tra gli stretti tavolini, una bottiglia di liquore vuota. Asso la recuperò prontamente e tornò a infilarla sotto il tavolo; si udì un altro tintinnio.
—Attento a dove mette i piedi — disse l’autista.
— Non l’ho fatto apposta — rispose Pepper. — Non sapevo che ci fosse una bottiglia.
— Oh, neanch’io — concesse Asso. — Comunque, lì sotto ce ne sono quattro. Più tardi, toccherà a voi dimostrare la vostra innocenza.
— Be’, io, per esempio, non bevo — osservò Hausbotcher, con severità.
— Lo sappiamo — ironizzò Asso. — Non beve lei e non beve nessuno di noialtri.
— Ma io ho il mal di fegato! — protestò Hausbotcher, visibilmente a disagio. — Ho anche il certificato.
Da una tasca, tirò fuori un foglietto ripiegato varie volte; gli altri scorsero un timbro triangolare. Quando il foglio arrivò sotto il naso di Pepper, questi vide che era davvero un attestato, scritto nell’illeggibile calligrafia dei medici. La sola parola che riuscì a leggere fu “anta-bus”.
— Ho anche quello dell’anno scorso e di due anni fa — concluse Hausbotcher — ma li tengo in cassaforte.
L’autista Asso non guardò il foglio. Mandò giù un intero bicchiere di yogurt, si passò sotto il naso l’indice della mano destra e si rivolse a Pepper.
— Che cos’altro c’è nella foresta? — chiese. Con la manica, si asciugò la fronte. — Alberi. Ma non stanno fermi: saltano. Capito?
— Come? — chiese Pepper, con ansia. — Cosa fanno? Saltano?
— Proprio così. Lo vedi fermo: è un albero. Poi comincia a scuotersi e a piegarsi, e zac! Senti un rumore, come se si spezzasse. Non saprei dire. Fanno salti di dieci metri. Mi hanno sfondato il tetto del camion. Fatto questo, ritornano fermi nella posizione di prima.
— Come può essere? — chiese Pepper, tutto orecchi.
— Perché sono alberi salterini — spiegò Asso, servendosi altro yogurt.
— Ieri è arrivato un carico di nuove seghe portatili — intervenne Hausbotcher, leccandosi le labbra. — Hanno una resa incredibile. Anzi, non sono soltanto elettriche, ma hanno due motori accoppiati: a due tempi ed elettrico. Seghe che permettono di Eradicare qualunque cosa.
Tutti, nel refettorio, bevevano yogurt in ogni sorta di contenitori: bicchieri di vetro molato, scatole di metallo, tazzine da caffè, bicchieri di carta. O direttamente dalla bottiglia. Tutti infilavano le gambe sotto il tavolo. E tutti, probabilmente, possedevano gli stessi attestati che certificavano malattie di fegato, di reni, di stomaco. Per quell’anno e per i precedenti.
— A quel punto mi chiama il capo — continuò Asso, a voce più alta. — Mi chiede perché ho il camion rotto. “Hai di nuovo portato in giro qualcuno” mi dice. Ora, lei, signor Pepper, gioca a scacchi con il mio capo, e potrebbe mettere una parola buona. La rispetta molto, e parla sempre di lei. “Pepper” mi dice “sì che è un uomo di carattere. Io non gli darei mai un veicolo, neppure se me lo chiedesse. Non possiamo permetterci di…
Tit. originale: Ulitka na Sklone
Anno: 1965/1972
Autore: Arkady e Boris Strugatsky
Edizione: Mondadori (anno 1996), collana “Urania” #1277
Traduttore: Riccardo Valla (dall’Inglese)
Pagine: 192
Dalla copertina | “E’ un romanzo ricco di incognite, ma non è mia intenzione anticipare qui i misteri di cui il testo abbonda, nella miglior tradizione fantascientifica: no, questo spetta al lettore e fa parte dei suoi piaceri… Il romanzo è diviso in due storie, quelle di Pepper e di Kandid, due personaggi con molte affinità ma anche notevoli differenze… Kandid, per esempio, sperimenterà in prima persona l’enigma fondamentale e la straordinaria esperienza che è al centro del romanzo, cioè la Foresta, mentre Pepper lo farà solo indirettamente, attraverso l’Organizzazione per lo Studio e lo Sfruttamento della Foresta (nota pure come Direttorato)… Ma che cosa sono le due immense, soffocanti entità note come la Foresta e il Direttorato? Se nel secondo caso la risposta è relativamente semplice – un organismo burocratico di stampo kafkiano – nel caso della Foresta possiamo solo dire che si tratta, come nei romanzi della LeGuin, della parola-chiave per comprendere un intero mondo…” Darko Suvin