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Prima parte: IL PASSEGGERO DELLA TEMPESTA
1. Lontano da tutti i regni
Chi avrebbe mai indovinato che lei era stata una fata?
Era scappata dalla finestra della torre, dopo avere stracciato i vestiti per farne una corda. E da quando in qua alle fate serve una fune per calarsi da un baluardo? Ora indossava soltanto una lunga camicia bianca che aveva rubato, più tardi, da un filo teso sotto la luna.
Correva sulla sabbia, nella notte. La sera prima aveva rinunciato a tutti i suoi poteri. E ormai era una ragazza come le altre. Solo un po’ più persa, un po’ più inquieta, un po’ più bella di tutte le altre ragazze della sua età.
La spiaggia era grande e bianca. Da una parte c’era il nero dei boschi, dall’altra le onde che rotolavano sulla battigia, coronate di spuma, e dappertutto il rumore di quel mare, e il tepore di una notte più luminosa del giorno.
La ragazza correva sulla spiaggia bagnata. I piedi non sprofondavano, ma a ogni balzo aprivano intorno a lei un cerchio di acqua e piccoli granchi. Correva al limite dello sfinimento. Non aveva idea di che ora fosse, sapeva solo che a mezzanotte sarebbe finito tutto.
Lui sarebbe morto.
La sera prima, per arrivare più in fretta lei avrebbe potuto fluttuare sulla spuma, senza il minimo sforzo, o volare oltre i boschi.
La sera prima lei era una fata.
Ma proprio per questo, la sera prima non avrebbe potuto condividere il destino del suo amato, e vivere o morire con lui. Ecco perché si era spogliata di ogni magia. Una rinuncia rarissima, perfino nelle fiabe più antiche: l’abdicazione di una fata.
In lontananza, la luce della nave-faro aveva perso il suo splendore e rosseggiava in fondo alla gettata di pietre nere che la legava alla terra. In quell’imbarcazione rivestita di rame si facevano bruciare interi alberi per attirare i battelli di altri regni e farli schiantare contro le rocce. Era in quel luogo che lui era stato portato per il supplizio.
La distanza che separava la distesa di sabbia dall’occhio rosso della nave-faro sembrava infinita.
Ora lei correva lungo il filo dell’acqua, a perdifiato, nella striscia fra la spiaggia in pendenza e il vento caldo che spirava dal mare. Scopriva la sofferenza della carne, i piedi feriti, il respiro corto, l’impotenza del corpo, la condizione umana che aveva tanto desiderato. Aveva dolori ovunque, ma non rimpiangeva niente.
Voleva essere come lui, voleva essere con lui.
Era già mezzanotte? Come poteva saperlo? Alzò gli occhi cercando di scoprire l’ora nel cielo, perché già aveva sentito sparire da sé la leggendaria puntualità delle fate.
Quando giunse alle prime rocce, la luna si tuffò nel mare, lasciando solo qualche traccia fosforescente sulla camicia rubata. Laggiù, all’estremità del molo frangiflutti, la luce del fuoco le pareva più forte. La nave-faro non era più così lontana. Le pietre si facevano tondeggianti e calde sotto i suoi piedi. La ragazza saltava di roccia in roccia, piccola vela bianca che balzava sul ghiaione di sassi neri, attirata dal bagliore delle fiamme. Per tanti velieri passati al largo prima di lei, quella luce era stata una speranza. Anche lei sperava di trovare lì il suo tesoro, un rifugio, la vita. Ma come tutte le navi che l’avevano preceduta, anche lei andò incontro a un naufragio.
Si accasciò senza neppure un grido sul corpo abbandonato. Lui non respirava più e aveva gli occhi spalancati.
Aveva quindici o sedici anni, come lei.
Era disteso, solo, sul ponte della nave.
«Amore mio…»
La ragazza gemeva a ogni espirazione, cercando un lampo di luce negli occhi di lui. Si stringeva sul suo corpo. Premeva fra le mani il viso del ragazzo. Il suo cuore contro il proprio, palpitante per due, scorticato per due. La nave scricchiolava a ogni onda, ma non si muoveva.
«Amore mio.»
Gli disse altre parole, la bocca che gli sfiorava il collo, piccoli rimproveri, preghiere, eterni rimpianti. Lo prese per le spalle, gli scompigliò i capelli.
A poco a poco il respiro di lei rallentò. Le parole si fecero rare. Il tappeto di braci era a diversi metri di distanza, ma il calore giungeva fino a loro, portato dal legno rivestito di rame. Tacque.
Dovevano avere bruciato legno di cedro. L’odore d’incenso strisciava nella notte. Lei intuiva che quella pace l’avrebbe portata alla morte.
Quando aprì gli occhi, in un ultimo sussulto, vide una lampada che oscillava fra gli scogli, lontana. Stava arrivando qualcuno. La ragazza si strappò dalla propria tremenda stretta e rotolò nell’ombra.
Passarono parecchi minuti.
Piangendo in silenzio nelle mani giunte, la ragazza guardava l’uomo che si faceva sempre più vicino.
All’estremità del molo c’era una lunga passerella. La nave era ormeggiata a una foresta di querce scortecciate con la pialla, piantate nel mare come colonne. Il vecchio imboccò la passerella che serpeggiava tra i pali. Ogni suo movimento era lento. Si trascinava dietro una sorta di barella fissata alla slitta che di solito serviva a portar via la cenere.
La ragazza guardò l’uomo. Era stato lui a uccidere il suo amore? E adesso tornava per far scomparire il corpo?
Il vecchio si avvicinò al ragazzo, farfugliando qualcosa come se gli stesse parlando. Rannicchiata alle sue spalle, lei lo sentì dire: «Ti porto via io. Non devi avere paura».
Manovrò la slitta in modo da disporla accanto al corpo. E mormorò ancora: «Aspetterai nella falesia…».
Senza rumore, la ragazza si scagliò in avanti e rovesciò l’uomo sul ponte. Fulminea, mentre lui cadeva gli aveva strappato l’accetta che portava infilata nella cintura e, quando lui si schiantò al suolo con un gemito, lei gli stava già sopra, la lama contro la fronte, pronta ad aprirgli la testa in due come una noce.
L’uomo guardò con terrore la sconosciuta, quel viso da belva feroce, la piccola mano che gli puntava il filo della lama tra gli occhi.
«L’hai ucciso» disse lei.
L’uomo la guardò: i capelli e la camicia incrostati di sale, il corallo bianco e rosa delle guance e delle spalle. Chi era mai quella fanciulla leggerissima e temibile, che con le ginocchia puntute lo inchiodava al suolo?
«No» gemette, «non l’ho ucciso.»
«Chi l’ha ucciso?»
Il vento portava fino a loro le scintille sfuggite al fuoco.
«Nessuno.»
L’ascia si sollevò.
«Taåge…»
Lei fermò la mano. E lui riprese: «Taåge aveva l’ordine di portarlo qui e di ucciderlo».
«Dov’è Taåge?»
«È tornato nella sua palude.»
Lei contemplò il corpo, steso oltre la slitta di paglia, e mormorò: «L’ha ucciso…».
«No.»
La ragazza sollevò l’accetta in alto sopra il cranio dell’uomo.
«Lo giuro!» gridò lui. «Nessuno. Non l’ha ucciso nessuno!»
Lei chiuse gli occhi per non vedere ciò che il suo braccio stava per fare, ma l’uomo riuscì a dire, appena in tempo: «Taåge ha disubbidito».
Lei si fermò di nuovo.
«Non l’ha ucciso. Io sono l’unico a saperlo. E per questo mi ucciderà, dopo che avrò fatto il mio lavoro.»
«Quale lavoro?»
«Devo nascondere il corpo nella falesia.»
«Chi l’ha ucciso?» ripeté lei. «Chi?»
«Taåge non voleva uccidere il figlio di un re.»
«Lo conosco… Uccide con la stessa facilità con cui respira.»
«Teme soltanto le anime dei re.»
«Chi l’ha ucciso?» sospirò lei.
«Non sono autorizzato a parlare» le rispose, piangendo. «Ma so che mi lascerete vivere, perché nessuno potrà darvi una risposta, se muoio.»
Lentamente, lei abbassò l’arma e si lasciò cadere di lato, su un fianco.
Aveva ragione lui. Soltanto scomparendo avrebbe potuto estinguere il fuoco della domanda che la consumava.
Chiuse gli occhi.
Con dolcezza, il vecchio le chiese: «Chi era per voi questo giovane principe?».
Non gli rispose. Pensò alle mattine d’inverno in cui lui si tuffava per nuotare nella bruma del lago. Quando usciva dall’acqua, la sua pelle fumava.
«Non è più in questo corpo» aggiunse il vecchio.
Lei riaprì gli occhi. L’uomo al suo fianco stava parlando, ma aveva sentito bene ciò che le aveva detto?
«Il ragazzo è stato scacciato. È vivo.»
«Dov’è?»
«Lontano» rispose lui. «Fuori da tutti i regni. In un luogo da cui non si torna.»
Lei sussultò. «Ma cosa stai dicendo?»
«Taåge gli ha concesso l’esilio per non doverlo abbattere.» Dopodiché l’uomo articolò piano: «Un incantesimo di separazione».
«Dove? Dov’è?»
«Non è più in questo corpo.»
«Rispondimi!» E piantò l’accetta nel rame, a un centimetro dalla faccia del vecchio.
Lui gemette. «In un tempo… in una terra…»
«Dove?»
«Andate via. Altrimenti moriremo entrambi. Tornate nel bosco. Taåge sta per arrivare.»
«Di che tempo parli? Di che regno?»
«Il suo è un esilio senza ritorno. Taåge ha detto che si trova in un luogo dal quale nessuna strada e nessun mare potranno riportarlo fino a noi.»
Il vento era calato. Le braci non splendevano quasi più. Lei sentì il…
Tit. originale: Le Livre de Perle
Anno: 2014
Autore: Timothée De Fombelle
Edizione: Mondadori (anno 2015)
Traduttore: Maria Bastanzetti
Pagine: 308
ISBN: 8804657707
ISBN-13: 9788804657705
Dalla copertina | Oliå è una fata che ha rinunciato ai suoi poteri per amore di un principe cadetto. Ma quando finalmente si ricongiunge a lui, scopre che è stato assassinato. Oppure no? Infrangendo il confine tra i mondi, il giovane Iliån è scivolato in un’altra realtà. non meno pericolosa perché il ragazzo smarrito viene accolto nella famiglia Perle proprio mentre sul futuro degli ebrei francesi si addensano nere nubi temporalesche. Intanto la fata è condannata a stargli accanto e insieme lontana, per anni e anni, per tutta una vita umana. Questa è la storia che il narratore piano piano ricostruisce, a partire dal muro di valigie che un bizzarro collezionista cela nella sua casa tra le paludi, là dove il fiume scompare nelle pieghe delle mappe. Dentro ci sono segreti, risposte, prove. Di cosa? Basta una vita intera per trovare la strada del ritorno?