Il fiuto di Sherlock Holmes

Il Fiuto di Sherlock Holmes

Marzo, anno 1984: TOP CRAFT e TOKUMA SHOTEN presentano nelle sale cinematografiche Kaze no Tani no Naushika (Nausicaä della Valle del Vento, nella versione italiana). Al film si accompagna un mediometraggio in due episodi targato TOKYO MOVIE SHINSHA, dal titolo Meitantei Hoomuzu – Aoi Kojioku no maki, Kaitei no Zaiho no maki, una piacevole storia per bambini popolata da simpatici cani umanizzati, con protagonista l’investigatore Holmes; eppure i titoli di testa riportano un curioso avviso: “questo film non ha nulla a che fare col Sherlock Holmes di Arthur Conan Doyle”.

Le due pellicole differiscono tra loro per genere e tenore narrativo, e sono prodotte da compagnie ben distinte; avrebbero insomma poco in comune se non fosse per il nome accreditato alla regia: HAYAO MIYAZAKI.

Nausicaä frantuma ogni record d’incasso (742 milioni di yen solo in Giappone) e quel nome, Miyazaki, insieme a quello dello STUDIO GHIBLI – che nascerà ufficialmente qualche mese più tardi – entrano nell’Olimpo dell’animazione.

Di riflesso, qualcosa accade… nella Shinsha, in Gran Bretagna e in Italia. Uno stallo durato tre anni improvvisamente si sblocca.

Per capire di cosa stiamo parlando, occorre fare un passo indietro, tornare ai primi mesi del 1981, e trasferirci alla REVER, la storica casa di animazione dei fratelli NINO e TONI PAGOT (Rever è il nome assunto dalla PAGOT FILM dopo la sua rifondazione, nel 1972). Proprio qui, in questo studio che ha dato già i natali a personaggi celeberrimi come Calimero, Jo Condor e Grisù, nasce infatti l’idea di un nuovo cartone ispirato alle avventure di Sherlock Holmes, da realizzare, perché no, in collaborazione con i Giapponesi.

Durante quel triennio, iniziato nel 1978, la nuova marea giunta in Italia da Oriente s’era trasformata in uno tsunami inarrestabile: le produzioni animate del Sol Levante avevano annichilito la concorrenza americana (per non parlare di quella italiana). Inutile quindi dire che la Rever conosceva bene le potenzialità dell’animeeshon made in Japan.

La prospettiva di una coproduzione solletica in particolare il figlio di Toni Pagot, MARCO PAGOT, già estimatore di Hayao Miyazaki che s’era messo in luce un paio d’anni prima dirigendo la serie televisiva Mirai Shounen Conan (Conan ragazzo del futuro) e il lungometraggio Rupan Sansei: Kariosutoro no Shiro (Lupin III: il Castello di Cagliostro).

Sostenuto dalla RAI nella persona di LUCIANO SCAFFA, che in quel periodo gira il Giappone presentando vari soggetti italiani tra cui quello della Rever, il progetto di Marco Pagot acquista sostanza, fino a produrre un accordo con YUTAKA FUJIOKA, fondatore di quella Tokyo Movie Shinsha per la quale Miyazaki lavora. Della casa nipponica, prima del 1981, in Italia è transitato solo Rupan Sansei (Lupin III), ma la Shinsha già vanta un nutrito curriculum d’importanti produzioni, alcune delle quali, nel giro di qualche anno, diverranno veri e propri cult anche in Occidente, uno per tutti Berusaiyu no Bara (Lady Oscar).

Stimolata da una così prestigiosa partnership, la Rever si tuffa nella preproduzione della nuova serie, incaricandosi di realizzare il design dei personaggi. Nel frattempo a Tokyo comincia l’elaborazione dello storyboard, naturalmente affidato a Miyazaki. Gli ultimi dettagli vengono definiti poi in un incontro in Giappone, al quale partecipano Marco Pagot e Scaffa.

Come in ogni collaborazione che si rispetti, tra le parti non tutto collima, per esempio esistono divergenze di vedute su alcuni protagonisti (tant’è che il design sarà poi rieditato da YOSHIFUMI KONDO, secondo specifiche più aderenti alla visione di Miyazaki), questioni che comunque vengono appianate. Si può così dare il via libera alla TELECOM ANIMATION FILM (lo studio di animazione sussidiario alla Shinsha) per la lavorazione.

Nei sei mesi successivi vengono realizzati quattro episodi (“La piccola cliente” – il pilot –, “Lo smeraldo blu”, “Il tesoro sommerso”, “Le sterline mancanti”); in verità non molti. In questa fase subentrano infatti gli imprevisti. La meticolosità per la quale Miyazaki è allo stesso tempo famoso e famigerato si misura fatalmente in numero di acetati: per garantire fluidità all’animazione servono quindi alto budget e tempi lunghi. Il problema più spinoso è però di ordine legale: gli eredi di Sir Doyle aprono una disputa sui diritti relativi all’uso dei personaggi inventati dal celebre scrittore britannico. La lavorazione viene bruscamente interrotta, il quinto e il sesto episodio rimangono a metà e l’intero progetto, inopinatamente, salta.

Per oltre due anni non se ne sente più parlare…

Eccoci dunque tornati a quel fatidico 1984. Miyazaki ha lasciato la Shinsha facendo la fortuna della Tokuma Shoten, che ha pubblicato il suo manga “Nausicaä” e ora si appresta a lanciarne la trasposizione cinematografica.

Tanto l’autore quanto la TMS ritengono buona l’occasione per rispolverare il vecchio materiale su Holmes, chiuso in un cassetto e altrimenti destinato all’oblio. Vengono allora assemblati due episodi (“Il tesoro sommerso” e “Lo smeraldo blu”) – con qualche adattamento, un nuovo doppiaggio, nuove musiche e il famoso avviso per evitare guai – e utilizzati come prespettacolo alle avventure dell’indomita principessa della Valle del Vento, la cui notorietà fa letteralmente da traino al nostro arguto cane detective.

Contemporaneamente, si risolve la vertenza con gli eredi di Doyle.

È il momento di cavalcare l’onda!

L’entusiasmo convince la TMS a riaprire il cantiere sull’opera incompiuta. Certo, Miyazaki si è messo in proprio, non fa più parte dello staff, ma restano i suoi lavori preparatori; così le due puntate interrotte nel 1982 vengono completate e, in poco più di sette mesi sotto la regia di KYOSUKE MIKURIYA, se ne aggiungono altre 20 realizzate partendo dagli storyboard originali.

Col titolo definitivo di Meitantei Hoomuzu (“il grande investigatore Holmes”, semplicemente Sherlock Holmes in Italia), nel novembre del 1984 la serie in 26 episodi esordisce sui teleschermi, trasmessa in contemporanea dalla TV Asahi in Giappone e da Rai Uno in Italia.

Da questo momento in poi, il destino le assegna due parabole separate: mentre in Italia viene accolta distrattamente, in Giappone si conferma tutto l’interesse già manifestato al cinema.

Il successo è buono e, soprattutto, duraturo, tanto che nell’agosto del 1986 viene addirittura ripetuto l’esperimento del collage cinematografico. Gli appassionati ritrovano il loro beniamino in Meitantei Hoomuzu – Misesu Hadoson Hitojichi Jiken, Doohaa Kaikyou No Oozora Naka Sen, a precedere la proiezione di Tenkuu no Shiro Rapyuta (Laputa, il Castello nel Cielo), primo film effettivamente prodotto dallo Studio Ghibli. Questa volta gli episodi assemblati sono il quinto e il sesto in ordine di produzione (“Il rapimento di Mrs Hudson” e “Le scogliere di Dover”), ossia i due che – a suo tempo sospesi e poi completati – hanno fatto da spartiacque tra la regia di Miyazaki e quella di Mikuriya.

Per lo scarso seguito riscosso in Italia, qualche responsabilità va ascritta alla RAI, forse colpevole di una messa in onda troppo in sordina. Tuttavia Sherlock Holmes portava già impresso nel proprio DNA un gene frenante. Si tratta infatti di un anime un po’ anomalo, diretto e realizzato in modo esemplare ma, quanto a prospettive di diffusione, in un certo senso “sprecato” per il fatto di rivolgersi a un pubblico eccessivamente infantile, orientamento che finiva per escludere le fasce di età e d’interesse sulle quali, in quegli anni, si costruivano le fortune dei palinsesti italiani. Di fronte a cartoni tecnicamente meno curati ma dai temi più adulti, un’opera così sobria, costruita su un umorismo innocuo, era destinata a calamitare minor interesse, soprattutto negli adolescenti.

Oggi, abituato a (o “inquadrato da”, secondo come la si voglia considerare) offerte rigorosamente tematiche, e ormai integrato il mercato home-video nella propria routine domestica, il telespettatore medio si trova nella condizione di poter scegliere opere come Sherlock Holmes in modo consapevole, apprezzandole quindi per quelli che sono i loro effettivi meriti.

Dal punto di vista tecnico, Sherlock Holmes è una serie di gran lunga superiore agli standard dell’epoca (il doppio passaggio cinematografico lo testimonia), tanto da reggere tranquillamente il confronto con i prodotti odierni. L’animazione è molto fluida e supporta egregiamente i ritmi spesso serrati; le ambientazioni sono sontuose, i fondali curati, il design dei personaggi è gradevole e delicato, e quello meccanico rispetta certe linee “protoindustriali” che gli estimatori di Miyazaki ben conoscono, qui perfettamente inserite nel contesto storico post-Vittoriano (un poco più recente rispetto ai racconti di Doyle).

Il regista è sempre stato affascinato dalle prime macchine, dalle suggestioni pionieristiche, gli stili, i design che caratterizzarono gli albori della tecnologia, in special modo per ciò che riguarda l’aviazione (lo stesso nome “Ghibli” deriva da quello di un bimotore italiano degli anni Trenta). Il tema è ricorrente anche in Sherlock Holmes; certe scene lì presenti possono considerarsi una sorta di preludio alla famosa opera di Miyazaki dedicata al volo a elica, Kurenai no Buta (Porco Rosso), nella quale al protagonista, asso dell’aviazione italiana alla guida di un Savoia-Marchetti (lo stesso storico aereo citato nell’episodio numero 22 di “Holmes”), viene addirittura dato il nome di Marco Pagot, affettuoso omaggio all’amico e collega italiano.

A far da cornice alle investigazioni del nostro detective, troviamo dunque una carrellata ininterrotta di marchingegni imbullonati, macchinari e veicoli di ogni tipo (automobili, aerei, dirigibili, sottomarini, mostri meccanici…) che s’inseguono in corse folli, tra sbuffi di vapore, ingranaggi saltati e capelli che si agitano al vento, nella migliore tradizione miyazakiana.

Era perciò inevitabile, conoscendo l’autore, che queste cacce mozzafiato si svolgessero in buona parte nei cieli. Egli si è garantito la presenza dell’elemento “aviatorio” avvolgendolo ad hoc intorno al personaggio di Mary Hudson, la proprietaria di casa Holmes. Non poteva del resto esserci opera di Miyazaki degna di questo nome senza la costante della “donna-forte”.

Per modellare la “sua” protagonista secondo le qualità che riteneva più congeniali, l’autore puntò i piedi contro la caratterizzazione contemplata nei preliminari della Rever, che al 221b di Baker Street piazzavano una governante grossa, anziana, bonaria e sostanzialmente inutile.

Le idee di Miyazaki, in verità, sovvertivano tutti i personaggi originali dei romanzi di Sir Doyle, salvo poi sottostare alle impostazioni più tradizionaliste volute dai partner italiani. Su Mrs Hudson, tuttavia, riuscì a spuntarla lui. E il risultato è il personaggio più poliedrico dell’intera serie: una vedova diciannovenne, raffinata e affascinante ma anche atletica e audace, che ha perso il marito pilota in un incidente di volo.

Sotto la regia di Miyazaki, l’incantevole Mrs Hudson compare in 5 episodi su 6, in crescendo, diventando protagonista assoluta nel quinto e nel sesto (gli stessi della seconda raccolta cinematografica). Purtroppo, nel prosieguo viene un po’ trascurata, e per ritrovarla primattrice in spericolate peripezie aeree occorre attendere il ventiduesimo episodio, “La meravigliosa macchina volante”.

Gli altri personaggi, tutti comunque ben riusciti, sono più aderenti al ruolo già ricoperto in letteratura.

C’è, in primo piano com’è naturale, il brillante investigatore Sherlock Holmes, coadiuvato (ma gli è più di compagnia che d’aiuto) dal fido dottor Watson nel costante supporto a Scotland Yard e al burbero e arruffone ispettore Lestrade (una sorta di Zenigata in versione bulldog, guarda caso doppiato da Enzo Consoli) per sbrogliare i casi criminali più intricati, dietro i quali si cela immancabilmente l’astuto Professor Moriarty.

Proprio a Moriarty (interpretato in spassosissimo dialetto piemontese da Mauro Bosco) e ai suoi due incapaci aiutanti, Todd il tarchiato e Smiley lo smilzo, sono affidati i siparietti comici, valorizzati dal doppiaggio italiano. Quando, per esempio, il duo si rivolge al “Genio del Crimine” chiamandolo con riverenza “profèssor” anziché “professòr”, quell’accento dal sapore teutonico pare quasi fatto apposta per far risaltare la tendenza decisamente scalognata del suo ingegno (senza nemmeno bisogno togliere il “pro”).

La trama ruota intorno agli enigmi da risolvere di volta in volta (naturalmente infantili, a misura di bambino), sostenuta da un gran numero di personaggi di supporto, sempre ben tratteggiati nonostante la permanenza in scena per la sola durata dell’episodio che li riguarda. Il resto lo fanno gli inseguimenti concitati che ricorrono a non finire, sullo sfondo di una Londra d’inizio secolo dalle connotazioni canine squisitamente furry (quasi a fare il verso alle Paperopoli e Topolinia di disneyana memoria), ben ricostruita nell’ambientazione e nei costumi.

In conclusione, Sherlock Holmes è un cartone molto curato, dai toni leggeri, spettacolare ma composto, divertente ed epurato da quelle “scabrosità” che a volte qualcuno teme di trovare in anime di pari target – visionando i quali può effettivamente capitare d’imbattersi in aspetti maliziosi o drammatici, “imprevisti”. In Sherlock Holmes niente di tutto questo, e niente violenza se si eccettua qualche scazzottata qua e là, ma all’insegna della comicità più docile; i buoni vincono sempre e i cattivi non muoiono mai, anche perché, in fin dei conti, si tratta di cattivi simpatici.

È dunque un’opera armonizzata alle esigenze dei bambini (o a quelle di mamma e papà), in grado di assicurare pomeriggi di coscienza serena anche al più apprensivo dei genitori.

La serie, tutt’oggi l’unico vero esempio di coproduzione italo-giapponese, è disponibile in DVD edita dalla YAMATO VIDEO, con il titolo Il Fiuto di Sherlock Holmes.