Il Killer delle Stelle
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Prologo
Un miglio al di sotto della superficie traslucida di Deluros VIII, capitale dell’Oligarchia dell’umanità in continua espansione, due uomini scendevano per un tapis rulant attraverso un lungo, mal illuminato corridoio nel quale riecheggiavano le loro voci. Uno vestiva in grigio, l’altro in bianco. Passarono una prima porta, poi altre quattro.
— Mi domando a cosa assomiglierà — rifletteva l’uomo in grigio.
Quello in bianco rabbrividì: — A un vecchio malato.
— Lo so — convenne il primo. — Però ho visto così tanti suoi ologrammi quando era… insomma, hai capito.
— Quando era il più famoso killer della galassia? — gli chiese sardonicamente il collega.
— Commetteva la maggior parte dei delitti nel rispetto della legge.
— Così dice la leggenda su di lui.
— Sembra che tu la pensi diversamente — ribadì l’uomo in grigio.
— No. Piuttosto so come nascono certe leggende.
Il tapis roulant li portò a un posto di controllo, dove si fermò per permettere agli scanner di analizzare le tessere di riconoscimento e le loro retine. Riprese quindi a muoversi per fermarsi un’altra volta, presso un secondo posto di controllo, cinquanta metri più avanti.
— È proprio necessario? — chiese l’uomo in grigio.
— Gli uomini e le donne più ricchi dell’Oligarchia giacciono qui indifesi — fu la risposta. — Sono completamente indifesi; credimi, nessuno riesce a conquistarsi una tale fortuna senza procurarsi dei nemici.
— Capisco — disse l’uomo in grigio. Poi indicò due ulteriori stazioni di controllo più avanti. — Mi stavo solo chiedendo se dovremo proprio passare attraverso questi controlli ogni cinquanta metri.
— Certamente.
— Mi spaventa un po’.
— Mettilo in conto — confermò l’uomo in bianco.
Dopo circa duecento metri il corridoio si divideva e loro scelsero la passerella che virava a destra. Porte su porte si susseguivano ora, così come le stazioni di controllo, finché giunsero a una porta all’apparenza uguale dalle altre e si bloccarono.
— Eccoci qui — annunciò l’uomo in bianco, mentre si lasciava verificare retina e palmo dallo scanner posto sopra lo stipite.
— Sono nervoso — disse l’altro quando la porta scomparve scivolando dentro il muro tanto da lasciar loro un varco.
— Si tratta di una procedura abbastanza semplice.
— Ma lui non sa chi siamo.
— E allora?
— Che si fa se lui è contento così come è? Che facciamo se lo infastidiamo? E se uccide le persone da cui si sente molestato?
— Se fosse in condizione di uccidere qualcuno, non sarebbe qui — garantì l’uomo in bianco. — Luci! — D’improvviso la stanza fu inondata da una fioca luce blu luminescente.
— Non puoi aumentare la luminosità? — domandò l’uomo in grigio.
— Non apre gli occhi da più di un secolo — gli rispose il collega. — La stanza aspetterà che le sue pupille si adattino all’intensità luminosa, prima che questa possa aumentare. — Passò davanti a una serie di cassetti incastonati nella parete, controllandone il numero, dopo di che si fermò. — Cassetto 10547.
Un cassetto fuoriuscì lentamente dalla parete per tutta la sua lunghezza, per più di due metri. I due uomini riuscirono a malapena a immaginare la forma di un corpo umano al di sotto di una protezione traslucida.
“Jefferson Nighthawk” pensò l’uomo in grigio vedendolo.
— “Il vero” Jefferson Nighthawk. — Si fermò. — Non è esattamente ciò che mi aspettavo.
— Vale a dire?
— Pensavo che fosse attaccato a tubi e tubicini di tutti i tipi.
— Primitivo — sbuffò l’uomo in bianco. — Ci sono tre apparecchi di monitoraggio impiantati nel suo corpo, che gli forniscono tutto ciò di cui ha bisogno.
— Ma come fa a respirare?
— Sta respirando.
L’uomo in grigio lo osservava attonito, cercando di coglierne il benché minimo segno di vita.
— Lo sta facendo così piano che solo il computer è in grado di rilevarlo. SonnoProfondo rallenta il metabolismo fino a renderlo lentissimo; non lo blocca, altrimenti ci troveremmo qui in compagnia di trentamila cadaveri.
— Che farai adesso?
— Lo vedrai — ribadì l’uomo in bianco. Camminò fino al cassetto che conteneva il corpo, mise la mano sopra uno scanner perché venissero identificate le sue impronte, poi le digitò su di una tastiera che improvvisamente era fuoriuscita dallo scanner.
— Quanto ci vorrà?
— Per me e te, probabilmente un minuto. Per gli altri che sono qui, quattro o cinque minuti.
— Come mai tanto?
— Prima di tutto, se non stessero per morire non si troverebbero qui. Nello stato di debilitazione in cui sono, gli ci vuole più tempo per reagire a qualsivoglia stimolo esterno. — L’uomo in bianco alzò lo sguardo dal corpo. — Più di uno è morto dallo shock del risveglio.
— Succederà anche a lui?
— Non propriamente. Tutto sommato, il suo cuore batte a un ritmo quasi normale.
— Bene.
— Se fossi in te, però, mi preparerei per quando si risveglierà del tutto.
— Perché? Mi hai appena detto che non morirà e che è troppo malato per comportare una reale minaccia, anche se lo volesse. Di cosa mi dovrei preoccupare, dunque?
— Hai mai visto qualcuno in stato avanzato di eplasia?
— No — ammise l’uomo in grigio.
— Non sono molto avvenenti. Anzi, per nulla.
Entrambi ammutolirono nel momento in cui il corpo davanti a loro cominciò ad acquisire colorito. Dopo due ulteriori minuti, la copertura traslucida scomparve scivolando dentro la parete, rivelando un uomo dall’aspetto emaciato, le cui carni erano sfigurate e disgustose, devastate da una tremenda malattia della pelle. Chiazze di bianco lucido e zigomi spaventosamente bianchi spiccavano attraverso la carne del volto; le nocche bucavano la pelle delle mani e, perfino dove la carne restava intatta, sembrava esserci qualche morbo strisciante sotto pelle, che le toglieva il colorito.
L’uomo in grigio distolse lo sguardo disgustato, poi si obbligò a osservare. Si aspettava che l’aria puzzasse di carne imputridita, invece restava fresca e come filtrata.
Finalmente il malato sbatté le palpebre, una, due volte, poi lentamente le aprì, rivelando occhi di un tenue celeste, quasi senza colore. Rimase immobile per un intero minuto, poi aggrottò le sopracciglia.
— Dove è andato Acosta? — chiese, con voce roca.
— Chi è Acosta? — domandò l’uomo in grigio.
— Il mio medico. Era qui un attimo fa.
— Ah — disse l’uomo in bianco, sorridendo. — Il dottor Acosta è morto da più di ottant’anni e lei stesso è qui da più di centosette, Nighthawk.
Nighthawk sembrava confuso. — Cento e…?
— E sette anni. Piacere, sono il dottor Gilbert Egan.
— In che anno siamo?
— 5101 GE — continuò Egan. — Posso aiutarla a mettersi seduto?
— Sì.
Egan sollevò la fragile, scheletrica figura fino a farla restare in posizione eretta. Nel momento in cui lasciò la presa, però, l’altro collassò sul lato.
— Ci riproveremo non appena si sentirà più in forze — disse Egan, sistemando Nighthawk in modo che nessuna delle sue membra devastate potesse staccarsi. — È rimasto a dormire per un tempo lunghissimo. Come si sente?
— Sto morendo di fame — rispose Nighthawk.
— Naturalmente — ribatté Egan sorridendo. — Ha vissuto per un secolo senza toccare cibo. Nonostante il ritmo del suo metabolismo sia stato affievolito di cento volte, il suo stomaco è rimasto vuoto per un decennio o più. — Egan gli attaccò una flebo al braccio sinistro. — Purtroppo non è in condizione di potersi alimentare, ma questo darà al suo corpo tutto quello che gli serve per ristabilirsi.
— Potrei anche abituarmi al cibo — aggiunse Nighthawk con tono stridulo — ora che sono guarito. — Fece una pausa. — Centosette anni. Vi sarà certamente servito un sacco di tempo.
Egan osservava l’uomo fragile e malato con una certa compassione. — Mi spiace che non sia ancora stata inventata una cura per l’eplasia.
Nighthawk si voltò, fissando ostinatamente gli occhi sul dottore. Era il tipo di sguardo che riempiva Egan di gioia perché indicava che il paziente non era armato e in salute.
— Avevo lasciato istruzioni chiare sul fatto che non volevo essere svegliato finché non mi si sarebbe potuto curare.
— Ma le condizioni sono cambiate, signor Nighthawk — disse l’uomo in grigio, avvicinandoglisi.
— Chi diavolo è “lei”? — domandò Nighthawk.
— Sono il suo avvocato.
Nighthawk aggrottò le sopracciglia. — Il mio avvocato?
Dinnisen annuì. — Sono un socio anziano della società di Hubbs, Wilkinson, Raith e Jiminez.
— Raith — ripeté Nighthawk, annuendo distrattamente. — È lui il mio avvocato.
— Morris Raith entrò alla Hubbs e Wilkinson tre anni prima della sua morte, nel 5012. Il suo pronipote ha lavorato per noi fino alla pensione, lo scorso anno.
— Va bene — disse Nighthawk. — È il mio avvocato. Cosa le ha fatto ritenere che io dovessi venir svegliato?
— È un po’ imbarazzante da spiegare, signor Nighthawk — cominciò Dinnisen incerto.
— Sputi l’osso.
— Nel momento in cui decise di sottoporsi al trattamento di SonnoProfondo, passò tutti i suoi investimenti alla mia società.
— Non si trattava di investimenti — ribadì Nighthawk, — Erano sei milioni e mezzo di crediti.
— Esattamente — disse Dinnisen. — Ci è stato detto di investirli e di tenere i conti di questi beni perpetuamente, o almeno fino a quando non fosse stata individuata una cura per…