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«È sangue, dottore?» Jonathan Hoag si inumidì le labbra e si protese sulla sedia, cercando di leggere quello che era scritto sul foglio che il medico teneva in mano. Il dottor Potbury avvicinò il foglio al panciotto e scrutò Hoag da dietro gli occhiali abbassati sul naso. «Lei ha qualche motivo particolare» chiese «per trovare sangue sotto le unghie?»
«No. Cioè… No, nessun motivo. Però è sangue, vero?»
«No» rispose severo Potbury. «Non è sangue.»
Hoag sapeva che avrebbe dovuto provare sollievo. Ma non lo provava. In quel momento capì di essersi aggrappato all’idea che la lordura marrone sotto le sue unghie fosse sangue per non permettersi di indugiare su idee meno sopportabili. Avvertiva un grumo di nausea allo stomaco. Ma doveva sapere…
«Cos’è, dottore? Me lo dica.»
Potbury lo squadrò dalla testa ai piedi.
«Lei mi ha fatto una precisa domanda. Le ho risposto. Non mi ha chiesto quale sia la sostanza. Mi ha chiesto di scoprire se sia o meno sangue. Non lo è.»
«Ma… Lei mi prende in giro. Mi faccia vedere le analisi.»
Hoag si alzò a metà dalla sedia e allungò una mano verso il foglio. Il dottore lo ritrasse, poi lo strappò meticolosamente in due. Sovrappose le due metà, e le stracciò una seconda volta, una terza.
«Insomma!»
«Si rivolga a qualcun altro» disse Potbury. «Lei non mi deve niente. Se ne vada. E non torni.»
Hoag si trovò in strada, diretto alla stazione della soprelevata. Era ancora molto scosso dalla scortesia del dottore. Temeva la scortesia come certa gente teme i rettili, o le grandi altezze, o i locali piccoli. Le cattive maniere, anche se non dirette a lui personalmente ma solo usate con altri in sua presenza, lo facevano sentire male, gli comunicavano un senso di impotenza e vergogna.
Se poi si trovava a essere il bersaglio della maleducazione, l’unica difesa che conoscesse era la fuga. Mise il piede sul primo gradino della scala che portava alla stazione ed esitò. Un viaggio in soprelevata era una severa prova nel migliore dei casi, con tutto lo spingere e l’accalcarsi e la sporcizia e l’eterna possibilità di comportamenti rudi; in quel momento non era in grado di affrontarlo. Se fosse stato costretto ad ascoltare le vetture che urlavano in curva, dirette al centro, sospettava di potersi mettere a gridare a sua volta.
Fece dietrofront di colpo e fu costretto a bloccarsi, perché si trovò a impattare con un uomo che aveva cominciato a salire la scala. Si scostò. «Attento a dove metti i piedi, amico» disse l’uomo, e tirò diritto.
«Mi scusi» mormorò Hoag, ma l’altro era già sparito.
Il tono dell’uomo era stato secco, più che scortese. L’incidente non avrebbe dovuto turbare Hoag, ma lo turbò. Restò sconvolto dall’abbigliamento e dall’aspetto dell’uomo, dal suo stesso odore. Hoag sapeva che non c’era niente di sbagliato in una salopette logora e in una giacca a vento di pelle, e un volto leggermente untuoso per il sudore che si era asciugato qua e là nel duro lavoro fisico non era spregevole. Sul berretto dell’uomo era attaccato un tesserino ovale, con un numero e qualche lettera. Poteva essere un camionista, un meccanico, un idraulico; doveva svolgere uno di quei lavori competenti e pesanti che facevano girare le ruote del mondo. Probabilmente aveva anche famiglia, un padre affettuoso che provvedeva a mantenere moglie e figli, e i suoi peccati maggiori potevano essere un bicchiere di birra extra e una tendenza a farsi pagare lievemente più del dovuto.
Era puro infantilismo lasciarsi scoraggiare da quell’aspetto e preferire camicia bianca, un soprabito decente, e guanti. Comunque, se l’uomo avesse emanato un odore di dopobarba, non di sudore, l’incontro non sarebbe stato sgradevole.
Hoag si rimproverò. Si accusò di essere sciocco e debole. Però, era possibile che un viso così rozzo e brutale fosse l’espressione esterna di calore e sensibilità? Con quel naso informe, quegli occhietti porcini?
Basta. Sarebbe rientrato a casa in taxi, senza guardare in faccia nessuno. C’era un parcheggio di taxi a due passi, di fronte alla gastronomia.
«Dove andiamo?»
La portiera del taxi era aperta; la voce dell’autista era insistente in maniera impersonale.
Hoag incrociò il suo sguardo. Esitò e cambiò idea. Di nuovo quella rozzezza: occhi privi di profondità, una pelle costellata di punti neri e pori dilatati.
«Mi scusi. Ho dimenticato una cosa.» Girò sui tacchi e si fermò di botto. Qualcosa lo aveva colpito alla vita. Un ragazzino sui pattini gli era finito contro. Hoag recuperò l’equilibrio e assunse l’espressione di paterna comprensione che usava coi bambini. «Ehi, giovanotto, attenzione!» Prese il ragazzo per una spalla e lo staccò dolcemente da sé.
«Maurice!» La voce risuonò stridula e incongrua al suo orecchio. Veniva da una donna enorme, compiaciuta della propria grassezza, che si era precipitata fuori dalla gastronomia.
Afferrò il ragazzo per l’altro braccio, lo strappò via, e gli assestò un ceffone all’orecchio con la mano libera. Hoag stava per prendere le difese del piccolo quando si accorse che la donna lo fissava con occhi furibondi. Il ragazzo, vedendo o intuendo la reazione della madre, tirò un calcio a Hoag.
Il pattino lo centrò allo stinco. Molto doloroso. Hoag scappò con l’unico obiettivo di scomparire. Svoltò nella prima via laterale, zoppicando per colpa dello stinco. Aveva collo e orecchie di un rosso acceso, come fosse stato colto in flagrante a mal trattare quello scapestrato. La via laterale non era molto meglio di quella che aveva lasciato. Non sfoggiava file di negozi e non era dominata dal gelido tunnel d’acciaio dei binari della soprelevata; era piena zeppa di condominii alti quattro piani e affollatissimi, poco più che case popolari.
I poeti hanno cantato la bellezza e l’innocenza dell’infanzia.
Ma non potevano avere in mente quella strada, vista con gli occhi di Hoag. I maschi gli sembravano tutti forniti di musi da topo, lunghi, affilati e infidi. Le femmine non erano meglio.
Quelle sugli otto o i nove anni, l’età dei corpi informi, avevano la maldicenza scritta sui volti emaciati: anime cattive, nate per creare guai e seminare bugie crudeli. Le sorelle maggiori, per quanto ancora terribilmente giovani, erano prese dall’unica idea di reclamizzare la loro nuova, arrogante sessualità; non a beneficio di Hoag, ma per le foruncolose controparti maschili che bighellonavano attorno alla drogheria.
Persino i bambini nelle carrozzelle… Hoag amava pensare che gli piacessero i bambinetti. Si immaginava nel ruolo dello zio. Non di quelli, però. Nasi gocciolanti, puzza, strilli e squallore…
Il piccolo hotel era come mille altri, una terza categoria senza pretese, con una modesta insegna al neon che diceva “HotelManchester. Clienti occasionali e fissi.” Un atrio rachitico, lungo e stretto e un po’ buio. Posti del genere non si vedono nemmeno, se uno non li cerca. Ci si fermano commessi viaggiatori che devono stare attenti al conto spese, ci vivono scapoli che non possono permettersi di meglio. L’unico ascensore è una gabbia in rete di ferro, truccata da una vernice color bronzo. Il pavimento dell’atrio è a mattonelle, le sputacchiere sono d’ottone. Oltre al bureau ci sono due depresse palme in vaso, e otto poltrone in pelle. Vecchi soli come cani, che non pare abbiano mai avuto un passato, siedono su quelle poltrone, vivono nelle…
Tit. originale: The Unpleasant Profession of Jonathan Hoag
Anno: 1942
Autore: Robert A. Heinlein
Edizione: La Tribuna (anno 1977), collana “Galassia” #226
Traduttore: Luigi Cozzi
Pagine: 150
Dalla copertina | Nella vasta produzione di Heinlein questo romanzo occupa un posto a parte, situandosi a mezza strada fra la fantascienza e l’horror con una vena di fantasy, senza dimenticare alcuni moduli classici del romanzo poliziesco. Pubblicato su Unknown nel 1942, Il Mestiere dell’Avvoltoio è davvero uno dei romanzi ‘magici’ di Heinlein, dove l’autore sembra districarsi finalmente da certe preoccupazioni ideologiche per concentrarsi nella costruzione di un romanzo magistrale ed elegante caratterizzato da una fantasia a dir poco infernale, e che non risente affatto dei suoi trentacinque anni di età. È l’unico romanzo di Heinlein, anzi, il cui inizio è ormai considerato un classico a parte: perché Jonathan Hoag si ritrova sempre una patina marrone sotto le unghie? E perché egli crede che si tratti di sangue? Soltanto Heinlein, forse, poteva rispondere in modo così sorprendente ad entrambi questi interrogativi.