Rispetto ad altri contenuti della vastissima mitologia classica, la figura di Orfeo potrebbe sembrare quasi riduttiva. Tale mito, invece, è di particolare importanza nella cultura occidentale, per gli innumerevoli panorami filosofici che ispira, contrapponendo ad una mitologia aperta e magmatica un’altra dai contorni più intimistici.
La rilevanza della figura orfica, in campo mitologico, risiede fondamentalmente nell’essere espressione di un mondo delicato e “cortese” (nell’accezione medievale del termine): è completamente abbandonata la prospettiva dell’aristeia dei poemi omerici, la violenza e la continua ricerca della supremazia fisica, per lasciar posto ad una figura che a mio parere potrebbe esprimere bene l’epoca dei simposi e della Grecia classica, della democrazia, della riflessione platonica e dell’arte fidiaca.
La più evidente dimostrazione di questa “cortesia” che caratterizza Orfeo è l’essere figlio di Calliope, una delle nove Muse Eliconie, l’emblema più alto dell’arte; è proprio la madre ad insegnargli a trarre le più dolci note dallo strumento tipico del simposio, la lira (non a caso si parla di poesia “lirica”). Orfeo, fin dall’inizio quindi, è perfettamente inserito nel mondo dell’arte e della poesia, avvolto da un’aura di delicatezza e quiete che ne contraddistinguerà la figura in campo mitologico. Proprio la sua bravura con la lira è determinante nell’economia di una “Argonautica”, ossia una delle tante poesie che sorsero attorno al poema epico di Apollonio Rodio (290 – 260 ca a.C): Orfeo è l’unico a resistere al canto delle Sirene e a riportare alla ragione i suoi compagni. A tal proposito, è utile considerare la distanza che, a mio avviso, corre tra questo episodio e uno analogo, seppur molto più celebre, consacrato da Omero nell’Odissea: in tale opera, infatti, Ulisse si lega all’albero della nave per poter ascoltare il melodioso canto senza essere trascinato da esso nei flutti marini. In questo caso a predominare è la violenza dell’immagine, sembra di vedere Ulisse contorcersi per lo sforzo di resistere; nel mito orfico assistiamo invece ad una scena melodiosa e incantata, in cui prevale è la dolcezza delle note.
Testimonianza particolarmente significativa di come la figura di Orfeo fosse assurta ormai a simbolo nell’immaginario del mondo antico ci è offerta da Seneca (65 a.C. ca): “…le selve inerti si movevano conducendo sugli alberi gli uccelli; o se qualcuno di questi volava, commovendosi nell’ascoltare il dolce canto, perdeva le forze e cadeva…”; questo particolare rapporto tra Orfeo e la natura sembra essere stato riproposto in chiave cristiana con la figura di S.Francesco, ma dei legami tra orfismo e cristianesimo ci occuperemo più avanti.
La vita di Orfeo è scandita da due grandi episodi: il primo di questi è l’immenso amore che provò per la ninfa Euridice, figlia di Doride e Nereo, un sentimento perseguitato dal destino in una delle storie più tragiche che sia dato rintracciare nei miti. Sembra quasi di scorgere appostata la grande e livida figura dell’Invidia, intenta a tessere i suoi loschi piani, servendosi prima di un giovane, di nome Aristeo, tanto passionale quanto irruento nell’insidiare la bella Euridice; e poi di una creatura che dalla tradizione biblica fino ai bestiari medievali ha da sempre raffigurato, forse a torto, il male: un serpente. Fu proprio su un serpente che la ninfa, intenta a fuggire da Aristeo, posò inavvertitamente il piede: per il morso morì quasi subito, cullata dalle braccia del dolce Orfeo.
È interessante soffermare l’attenzione sui due personaggi maschili della vicenda: Orfeo e Aristeo. Quest’ultimo, infatti, pur rivestendo un ruolo tutto sommato negativo nell’intera vicenda, è citato ampiamente da Virgilio (19 a.C. ca) nelle sue “Georgiche” in un ruolo completamente opposto. In quest’opera, Aristeo subise un’improvvisa moria di api nel suo allevamento, che le divinità gli spiegano essere dovuta alla scarsa efficacia con cui egli officia i loro culti: rinnovando in modo più consono la propria obbedienza verso gli dei, Aristeo ottiene il perdono e il risanamento delle sue api. Il contrario capita a Orfeo che, disobbedendo ad Ade nel divieto di voltarsi a guardare la moglie, finisce per sopportarne la durissima punizione. A dispetto della tradizione mitica, Aristeo viene innalzato al rango di vir bonus, mentre Orfeo non può che dolersi della propria inadempienza verso gli dei. Questo passo particolare delle Georgiche, in cui si assiste ad un capovolgimento di valori rispetto al mito, si può forse ascrivere in quel programma politico augusteo che predeva un ritorno all’antica moralità, un intento condiviso anche dal circolo di Mecenate, al quale lo stesso Virgilio apparteneva.
Il secondo grande episodio del mito orfico è la discesa agli Inferi, un tema ripreso poi dai grandissimi della letteratura di tutti i tempi (basti considerare l’Odissea in ambito greco, l’incontro tra Enea e il padre Anchise nell’”Eneide” in campo latino, la prima cantica della “Divina Commedia” dantesca…). È la parte più drammatica ma anche più importante dell’intero mito, quella che ha a lungo ispirato filosofi e pensatori.
Orfeo, pazzo d’amore, non accettò l’ineluttabilità del destino e decise di sfidare gli dei degli Inferi per tentare di riportare sulla Terra l’amata. Si recò dunque sulle rive dell’Averno (Aornos per i Greci), il mitico lago ritenuto la Porta degli Inferi, e lì convinse il ripugnante Caronte a traghettarlo fino al cospetto di Ade e Persefone, mentre le anime dannate dello Stige cercavano di ghermirlo e trascinarlo in acqua. Ma la vera impresa, Orfeo la compì ammaliando Ade e Persefone con la dolcezza del canto e delle note, tanto che gli fu permesso di riprendersi Euridice, ad una condizione però: non doveva voltarsi a guardarla finché non fossero arrivati entrambi in superficie. Sembrerebbe che nemmeno la Morte potesse resistere al canto di Orfeo, ma ogni deroga che Essa concede ai viventi è pura illusione: non sentendo più i passi della moglie dietro di sé, infatti, il cantore si girò, dimentico della proibizione, e tutto ciò che vide fu un’ombra che si dileguava verso il basso.
La più bella e delicata descrizione di tal momento ci è offerta da Ovidio (18 d.C.), in una delle sue opere principali, le “Metamorfosi”: “Ed Ella, morendo per la seconda volta, non si lamentò; e di che cosa avrebbe, infatti, dovuto lagnarsi se non d’essere troppo amata?”
Questa contravvenzione del poeta verso il semplice vincolo posto dagli dei infernali, a mio avviso, può essere interpretata sotto un duplice aspetto. In primo luogo, potrebbe simboleggiare l’ineluttabilità della morte: pur in grado di intercedere presso la Morte-divinità, il canto nulla può contro la regola naturale della definitività della Morte-evento; una resurrezione rappresenterebbe una violazione delle leggi di natura, logiche e razionali, alle quali i Greci hanno sempre dedicato una grandissima attenzione, e l’opera di Esiodo dà buona prova di ciò. In secondo luogo, potrebbe anticipare uno dei temi portanti della futura dottrina orfica (e platonica poi): il disprezzo per la corporeità. È plausibile che il nostro Orfeo si sia voltato indietro perché impaziente di ammirare di nuovo la bellezza della sua amata, e dunque sarebbe proprio questo desiderio a venire punito.
C’è da considerare, oltre alla vicenda amorosa tra i due giovani, un epilogo drammatico dell’intero mito, al quale è legato maggiormente l’Orfismo inteso come orientamento filosofico.
Al fallimento dell’impresa negli Inferi, infatti, Orfeo si ritirò sul monte Rodope, in Tracia, dove cominciò a ricevere uomini e ragazzi che istruiva secondo regole ascetiche, insegnando loro come sopportare un’astinenza prolungata, oppure indottrinandoli sull’origine del mondo e degli dei. Il suo bell’aspetto non passò inosservato tra le donne del luogo, particolarmente tra alcune Baccanti, peraltro irate a causa dell’indifferenza e della scarsa devozione che Orfeo manifestava nei confronti del culto di Bacco. Ciò fu alla base della tragica fine del poeta che aveva sfidato e quasi vinto la Morte. La voce del passato, in particolare quella di Virgilio, la descrive in termini tali che mostrano l’evento in tutta la sua crudezza: “… anche allora, mentre il capo di Orfeo, spiccato dal collo bianco come marmo, veniva travolto dai flutti, «Euridice!» ripeteva la voce da sola; e la sua lingua già fredda: «Ah, misera Euridice!» chiamava con la voce spirante; e lungo le sponde del fiume l’eco ripeteva «Euridice»”.
Legata al mito di Orfeo è una particolare setta religiosa greca che prese le mosse proprio dalle vicende della vita del poeta. L’Orfismo era uno dei principali misteri greci. Anticamente, in Grecia, esistevano per così dire due tipi di religiosità diverse; la prima era quella olimpica, invocata fondamentalmente per protezione da qualcosa di materiale (guerre, carestie ecc..). Come si intuisce, è abissale la differenza con la religiosità odierna, in cui ognuno prega per sé: allora era la norma pregare le divinità per motivi collettivi (…). La seconda via religiosa è più legata a un sentimento intimistico, di cui è pervaso l’intero mito orfico (…) i greci seguivano una seconda via parallela a quella “ufficiale”: oltre alle olimpiche c’erano anche le divinità Ktonè, ossia le divinità della terra (…) spesso a che fare con l’agricoltura e con la fertilità del suolo (ne è un esempio Persefone). (…) Tali culti erano caratterizzati dai misteri, un termine di derivazione incerta: vi è chi sostiene che provenga dalla parola greca “muthos” (mito) (…) Strettamente collegato a questi misteri è proprio l’Orfismo, una setta misterica sviluppatasi intorno al VII secolo a.C., che si riteneva fondata proprio dal personaggio principe del mito suesposto.
(fonte: www.filosofico.net; pagina ad opera di Diego Fusaro)
Le fonti documentali risalgono ad Onomacrito (VI secolo avanti Cristo) e percorrono la storia della cultura greca soprattutto fra il II e il V secolo dopo Cristo, con gli Inni Orfici e gli Argonautici. Una sistemazione del corpus orfico si deve all’opera filologica di O.Kern, che nel 1922 raccolse 363 frammenti e 262 testimonianze scritte. Plausibile è la teoria di una filiazione dell’Orfismo dai culti misterici incentrati su Dioniso, avanzata fra gli altri da E. Rohde in Psyche (1894).
L’Orfismo, secondo tale tesi, deriverebbe dalla religione di Dioniso attraverso il mito di Dioniso-Zagrèo, singolare figura di dio-fanciullo, come Hermes o Eros, che ricorda anche Osiride. Come la principale divinità egizia, Zagrèo è – paradossalmente – un dio che muore, ucciso e sbranato dai Titani, in seguito inceneriti da un fulmine scagliato da Zeus. Dato che gli uomini nacquero, per trasformazione, dalle ceneri dei Titani, oltre che dello stesso Dioniso (poi risorto magicamente), ognuno di noi conserva una scintilla divina, affiancata alla natura titanica sostanzialmente empia e sacrilega.
Come quelli dionisiaci, anche i misteri orfici erano basati su una complessa dottrina mistica, incentrata sul dualismo presente nell’animo di ogni uomo, derivante dal mito di Dioniso; è questo l’elemento che permette di accostare le due religioni misteriche, e di ipotizzare che quella dionisiaca sia di fondamento a quella orfica. Era naturale che ogni uomo fosse composto da due “essenze” differenti, l’una brutale e meschina (avanzo dei Titani), l’altra radiosa e solare, vicina alla divinità (retaggio di Dioniso). Proprio quest’ultima “essenza” era ritenuta imprigionata nel corpo, il quale assumeva accezione “negativa”. In anticipo nei confronti di Platone e del neoplatonismo rinascimentale, gli orfici capovolsero i rapporti logici tra vita e morte, affidando a quest’ultima un ruolo positivo e divino: l’anima “dionisiaca”, infatti, era sentita come bloccata e abbrutita dal corpo, per cui la morte era considerata una grande benedizione, il mezzo per entrare in contatto diretto con la divinità, abbandonando le miserie della materialità.
Il secondo aspetto pregnante della dottrina orfica, ritenuto di derivazione orientale, è il concetto di trasmigrazione delle anime, sul quale in seguito Pitagora costruì la sua filosofia e la sua ideologia sociale. Come per i buddhisti, anche per gli orfici la trasmigrazione rappresentava un’autentica minaccia di continuazione delle sofferenze sulla Terra. Inoltre, ciò in cui ci si incarnava era ritenuto direttamente proporzionale alla rettitudine che si era osservata nella vita precedente.
Di questo passo, si giunse naturalmente ad una dottrina etica propria dell’Orfismo. Per portare a termine una vita retta, infatti, bisognava purificarsi, rispettare alcuni particolari stili di vita. Gli orfici ritenevano che tali insegnamenti li avesse impartiti direttamene Orfeo sul monte Rodope, poco prima che fosse squartato dalle Baccanti. In particolare, per purificarsi era necessario seguire un rigido vegetarianesimo, in fortissima rottura con la religione olimpica, la quale prevedeva sacrifici animali. Raffrontando le stesse divinità olimpiche con la figura di Orfeo, si desume d’altronde come la materialità e la condotta di vita sregolata delle prime siano state completamente ribaltate nell’intimismo e nell’alone di indefinitezza del secondo.
Ma c’è di più: si potrebbe anche parlare dell’Orfismo come di dottrina della salvezza, per mezzo della quale, attraverso varie tecniche di purificazioni, ritornare all’unità perfetta da cui è scaturito il mondo. Degli esametri stampati su laminette d’oro, ritrovate durante vari scavi in Italia Meridionale, indicano le strade che l’anima del defunto potrà percorrere una volta giunta nell’aldilà. L’alternativa sarà tra destra (positiva) e sinistra (negativa). A sinistra è infatti la sorgente del Lete, della dimenticanza, alla quale si abbeverano i più, che scordano così tutto il proprio vissuto, continuando nel ciclo delle reincarnazioni. A destra invece è la sorgente di Mnemosine, della memoria, bevendo la cui acqua, se si è vissuta una vita pura, si potrà passare alle sedi dei beati, a vivere con gli eroi.
Lo “sconcertante” Erodoto (490-430 a.C. ca), il padre della storia, intelligentemente correlava la prospettiva escatologica orfico-dionisiaca con la spiritualità egizia. Ciò quasi a discapito dell’interpretazione corrente, che tende a screditare, talora con un senso di fastidio, il rapporto tra credenze egiziane e culti dionisiaci. Il legame non è banale, né astorico mitologico. È un dato di fatto che gli antichi Egizi credessero nella vita ultraterrena, pur riservando grande cura per pratiche inerenti alla conservazione del corpo (riguardanti specialmente le gerarchie sociali più elevate). Questa convinzione derivava dal mito di Osiride, che era riuscito a tornare in vita per volere di Iside, quasi una metafora del passaggio nell’aldilà che doveva per forza – così pensavano gli antichi Egizi – estendersi a tutti gli uomini in quanto generati dallo stesso demiurgo che aveva creato gli Dei, Atum-Rha. Non è ancora chiaro in che misura, ma è evidente che ci sia più di una coincidenza tra i due sistemi cultuali.
(fonte: Domenico Turco, mondo3@mondo3.it )
Infine, è doveroso un breve parallelo tra Orfismo e Cristianesimo, accomunati entrambi dall’essere religioni salvifiche.
Nel Cristianesimo c’è molto dell’orfismo (nato in Oriente), che non a caso si sviluppò soprattutto tra i meteci (gli stranieri) e gli schiavi. Entrambe le ideologie mistico-religiose erano praticate volentieri dagli schiavi per due ragioni: da un lato, con il concetto di peccato originale, si giustificava lo stato di soggezione dello schiavo; dall’altro, con quello di divinità dell’anima, s’infondeva nella coscienza dello schiavo una speranza per l’aldilà. Se lo schiavo non poteva essere un protagonista attivo nella vita della società, non essendo considerato un cittadino e a volte neppure una persona umana, poteva però riscattarsi dopo la morte, purificando se stesso con i sacrifici e la volontà personale.
La differenza fondamentale tra l’Orfismo e il Cristianesimo sta nell’idea di sacrificio, che per il primo coincideva con la metempsicosi, mentre per il secondo con la croce del Cristo. L’Orfismo è una religione orientale, individualistica e rassegnata; il cristianesimo è invece sorto in ambito ebraico, scaturendo da un forte senso del collettivo e da un determinante ottimismo escatologico.
L’importanza dell’Orfismo consiste nell’aver anticipato molti temi della speculazione greca, come quelli della metempsicosi (cioè la trasmigrazione delle anime) e del dualismo pitagorico (e poi platonico) di anima e corpo, che vede nel secondo una specie di carcere e vincolo dell’identità spirituale.