Il Mondo Perduto

Il Mondo Perduto

Molti anni prima che il padre di ET riportasse il pubblico del ventesimo secolo indietro nel tempo, appellandosi a genetica e scienza in genere, un sognatore di tutt’altra specie osò spingere i confini della fantasia oltre i limiti che un positivismo ormai in crisi aveva tentato di segnare.

Pensò ad un mondo dove ambienti incontaminati e animali preistorici testimoniassero di un pianeta chiamato Terra, dove l’uomo non si auto-eleggesse a padrone ma fosse solo un ospite di passaggio, la cui posizione all’interno della catena alimentare ne ponesse in serio dubbio la sopravvivenza quotidiana.

Semplice eco di un passato leggendario e lontano? No, un presente sconcertante per qualsiasi dandy dell’Inghilterra vittoriana. L’inventore di Sherlock Holmes non era tipo da girarsi i pollici e, assieme ad EDGAR ALLAN POE, viene ricordato in tutto il mondo come il fondatore del genere letterario fantastico. E non è un caso che un tale destino sia toccato ad ARTHUR CONAN DOYLE e non ad altri.

Se è innegabile l’eterogeneità del suo operato in campo artistico, allora lo stesso va affermato per quanto concerne la sua vita, segnata da quell’indole poliedrica. Lo stesso autore, che per bocca di un detective dai modi ineccepibili, appellandosi alle scienze, ammoniva puntualmente il proprio collega, è lo stesso uomo che fino alla fine dei propri giorni affermò di credere nelle fate e negli spiriti. Le due bambine di Cottingley, assieme alle loro fatine di cartone, prima ritagliate e poi fotografate, si beffarono di Sir Arthur per tutta una vita.

La sua unica colpa, o forse il suo vanto più grande, fu quello di avere una mente così aperta ed una fantasia così profondamente spiccata da non porsi alcun limite né barriera che definissero l’impossibile.

Se Doyle non avesse creduto a quelle fatine, probabilmente oggi la letteratura fantastica non sarebbe così come noi la conosciamo; se Doyle non si fosse impegnato, per mezzo di conferenze e scritti vari, con passione così vigorosa a combattere il materialismo scientifico, oggi non potremmo deliziarci di un piccolo capolavoro intitolato Il mondo perduto: la valle dei dinosauri. Con estremo ardore e coraggio difese la propria causa in favore di spiriti e fate.

Partendo proprio da quel forte sentimento, il motore narrativo del romanzo si anima e, plasmato dal suo creatore, assume il nome e le fattezze di un giovanotto londinese, un giornalista come tanti che per amore si caccia in un bel guaio: la preistoria.

Gladys avrebbe anche potuto accettare le avance di Edward Malone, per lei un buon amico, forse il migliore che avesse mai avuto, di gran cuore e senza ombra di dubbio innamorato profondamente. Gladys avrebbe potuto ricambiare quel sentimento se solo quel giornalista così premuroso nei suoi confronti le avesse dimostrato di essere il suo tipo ideale. “E cosa c’è che non va in me?” domanda “Ned” incredulo. Il suo quesito, così ingenuo e al contempo tanto devastante, trova la risposta di una donna volubile, inconsapevole del fatto che in quel preciso istante si appresti a rivoluzionare l’ordinaria quotidianità del giovane Malone: “Il mio uomo ideale sarebbe un uomo d’azione, capace di guardare in faccia la morte senza averne paura!”.

Malone è ingenuo, proprio come lo è stata la sua domanda e non di meno la risposta di Gladys, ma più di tutto lo sarà il volerla assecondare.

Senza rifletterci neppure per un secondo Ned implora il suo capo redattore di assegnarli una “missione speciale, avventurosa e pericolosa”. Tempismo perfetto quello di Malone: proprio in quei giorni una diatriba scientifica sta sconvolgendo i maggiori cervelli d’Inghilterra. Un certo professor Challenger, famoso per il suo temperamento astioso e violento, ma sopra ogni cosa per le sue ricerche scientifiche a dir poco fantasiose, sostiene l’esistenza di una terra al di là dell’Oceano, nel mezzo dell’Amazzonia, mai sfiorata dalle fasi evolutive darwiniane. I colleghi pretendono delle prove, fatti concreti, materiale su cui lavorare: un viaggio esplorativo è la risposta dello scorbutico professore ad una platea di scettici topi di biblioteca.

La spedizione consta di un arcobaleno umano tanto eterogeneo da far sorgere un serio dubbio sulla possibilità di un epilogo positivo. L’ultima parola su ogni decisione spetta al capo supremo, che ringhia come una fiera contro chiunque accenni a contraddirlo: ovviamente si tratta del professor Challenger, auto-elettosi leader indiscusso.

A seguirlo, non tanto per genialità quanto per sfrontatezza… o meglio perché il primo posto ormai era già occupato, c’è l’aitante John Roxton, uno di quegli uomini che vanno incontro al pericolo per puro divertimento, col fucile in una mano e una testa di leone nell’altra. In Inghilterra è non poco famoso: le sue imprese in mezzo a giungle e savane destano l’invidia dell’uomo medio e fanno battere il cuore di ogni donna… a donne come Gladys sicuramente!

Il dottor Summerlee invece, distinto lord dalla barba bianca, serve all’economia del gruppo come un sassolino in una scarpa. Del resto il suo ruolo è il più scomodo di tutti, primo perché di avventure non ne è mai andato in cerca e secondo perché è intenzionato a smentire le folli teorie di Challenger.

Malone non è l’ultima ruota del carro, ma di certo neppure la prima. Non sa nulla né di paleontologia né di zoologia e figurarsi di giungle amazzoniche. La sua motivazione è forte e chiara, l’amore; il suo ruolo un po’ meno. Aggregatosi nelle vesti di giornalista, testimone oculare dei fatti, sarà più volte chiamato a travalicare di molto i limiti della propria professione, spinto dal desiderio ardente di divenire un uomo nuovo, impavido e temerario.

Attraverso gli occhi di Edward lo scenario di un mondo lontano dal tempo, dimenticato dall’uomo, viene narrato in un primo momento come un paradiso di rara bellezza. E puntualmente egli riesce ad inviare alla redazione a Londra dei resoconti settimanali dove, nero su bianco, dà vita alle gesta del gruppo, alle piccole e grandi scoperte di ogni giorno, agli screzi e alla sensazione che qualcosa di straordinario stia per accadere.

Le parole all’apparenza sconnesse di quel vecchio pazzo di Challenger erano, anzi sono, non solo teorie, ma verità tangibili. I quattro avventurieri, non appena poggiano i piedi entro una valle diversa da tutte le altre, si piantano immobili col naso al cielo: pterodattili in volo e brontosauri che brucano alberi alti quattro metri sono le fantasiose realtà del professore.

Qualcuno dovrà fare ammenda: il dottor Summerlee porgerà le proprie scuse al collega, anche se a denti stretti. Il resto del gruppo raccoglierà prove, fin quando un bel po’ di guai non metteranno a dura prova l’intera spedizione. I guai, poi, vengono la notte, di nascosto, assomigliano più a delle scimmie che a degli uomini, rapiscono tutti, con l’intenzione di fare un bel banchetto con i malcapitati, e non nel senso di festeggiare tutti assieme!

Malone non ci sta, assieme al cacciatore di leoni volge la situazione in positivo e dimostra di che pasta è fatto un vero uomo. Peccato che Gladys non sia lì a vederlo. Ma ci sarà tutto il tempo per mostrarsi ai suoi occhi nelle vesti del nuovo Edward, uno che la vita la vive in prima linea e che non aspetta più lo scorrere del tempo con passiva rassegnazione.

Al ritorno da quell’eden dai toni piuttosto infernali, dopo aver presenziato alla conferenza di rito assieme ai tre colleghi di fronte ad una platea incredula, dopo aver mostrato fotografie, aver raccontato di scimmie antropoidi definite quali anello mancante dell’evoluzione umana, dopo aver argomentato su pterodattili, iguanodonti e, in più, aver mostrato una di queste creature preistoriche in carne ed ossa là di fronte a migliaia di occhi, beh, dopo tutto questo Edward si ritrova al punto di partenza, certo stavolta di sapere il fatto suo.

Ma Gladys è una donna volubile… e di poca pazienza. Ned stringe la mano di un piccoletto coi capelli rossi che se ne sta sprofondato su una poltrona, l’immagine di un marito non proprio eroico, di certo lontano anni luce da quelle fantasie da romanzo rosa che avevano confuso i pensieri di un giovane innamorato. Poco importa poiché Lord Roxton si sta accingendo a tornare in quella valle. “Se non ha nulla in contrario preferirei venire con lei!” gli dice Edward con un rude sorriso.

Sir Conan Doyle è uno scrittore di fama mondiale, a cui tutti almeno una volta nella vita si sono avvicinati per un semplice motivo: nonostante abbia dedicato l’intera carriera alla stesura di romanzi e racconti di genere, ha sempre avuto l’accortezza di non caricare il testo di codici che solo un pubblico di nicchia avrebbe potuto comprendere. Questo è un problema non indifferente della narrativa fantastica e fantascientifica attuale: a parte begli esempi come FRANK HERBERT che in fondo ai suoi romanzi aggiungeva un’appendice, le opere di oggi si rivolgono prevalentemente ad una platea precostituita. Doyle al contrario sapeva benissimo che un genuino lettore del fantastico non esisteva ancora. Bisognava svezzarlo con perizia e pazienza.

Niente di meglio del romanzo d’appendice avrebbe potuto dar vita a quel genere di narrativa che oggi spopola in tutto il mondo. Pubblicando periodicamente sui quotidiani le puntate delle avventure del burbero Challenger, Doyle è arrivato fino a noi mostrandosi per quello che è stato ed è: un pedagogo di mondi straordinari.

Il testo non osa troppo in un campo che sa di non poter padroneggiare fino in fondo, qua e là saltano fuori definizioni e nomi di natura preistorica, ma in misura decisamente risicata rispetto alle attese del lettore; croce e delizia dell’opera azzarderei a dire, perché si resta compiaciuti e delusi ad un tempo. Compiaciuti perché ci si trova davanti a pagine scritte con stile, con una brillantezza fuori dal comune. Le figure attoriali del libro sono caratterizzate magistralmente, tanto che dopo i primi due capitoli basta un semplice ma azzeccato aggettivo per ricollegare volti, nomi e modi di fare tutti particolari; questa raffinata capacità di sintesi non va sottovalutata, rappresenta, assieme a quel sottile umorismo british, le salde fondamenta su cui poggia l’opera stessa.

A queste scelte si aggiunge la preferenza di narrare i fatti in prima persona. Un dettame non tanto stilistico quanto più probabilmente imposto dalle esigenze di pubblicazione. Il romanzo d’appendice è costretto a richiamare continuamente l’attenzione su di sé: protraendosi per settimane e settimane in un quotidiano, si trova costretto a mantenere un certo ritmo, le vicende devono godere perciò di uno schema enunciativo alquanto marcato.

La delusione la si soffre appena terminato di leggere l’ultima frase del romanzo: si comprendono molte cose. In primis di essere stati beffati dall’autore: in fin dei conti dinosauri e uomini-scimmia sono stati solo un furbissimo espediente per mettere in scena quel bestiario umano popolato da quattro individui davvero deliziosi. In più giungiamo all’ovvia conclusione che senza dubbio Edward non solo voglia, ma debba tornare laggiù, perché di quella valle tanto misteriosa Doyle non gli ha detto e non ci ha detto praticamente nulla, e non solo ha tenuto all’oscuro i suoi protagonisti, ma è stato capace di tenere viva la tensione del lettore dall’inizio alla fine, illudendolo su chissà quante meraviglie gli avrebbe portato sotto gli occhi, e invece…

Se i personaggi saltano fuori dalle pagine quasi fossero di carne e ossa, la valle resta là, immersa in una fitta nebbia fatta di non detti, di sostantivi che Doyle di certo non avrebbe faticato a trovare ma che decide di non regalare con troppa generosità. Come dice Eco: “il testo è intessuto di spazi bianchi, di interstizi da riempire, e chi lo ha emesso prevedeva che essi fossero riempiti”.

Ognuno è padrone di crearsi i propri dinosauri, come più gli sono congeniali. Il padre del genere fantastico getta le basi fondamentali della materia: la fantasia deve godere della libertà più estrema, è la sua natura non soffrire limiti e confini di sorta.

E, da buon predicatore, Doyle ha riempito gli spazi bianchi della propria fantasia con dei dinosauri forse un tantino differenti da quelli accennati ne Il mondo perduto, ma che a conti fatti, ne assumono il medesimo significato. Le sue fatine di cartone, fotografate per scherzo dalle bambine di Cottingley, e a cui lui ha voluto credere per l’intera esistenza, riassumono innegabilmente la trama di ogni sua fantasia artistica, ordita da una figura a cui oggi dobbiamo molto del nostro immaginario collettivo. Chi ci crede è libero di continuare a credere: il fatto che le fotografie di Cottingley siano false non dimostra che le fate non esistano. La fantasia è semplicemente un atto di fede.