INTRODUZIONE
Il tema del «doppio» è sempre stato uno dei più ricorrenti e dei più antichi per le letterature di tutto il mondo e — prima che esse esistessero — nell’ambito dei racconti orali che i nostri più remoti antenati si scambiavano intorno ai fuochi. Anzi, esso è probabilmente il tema più antico in assoluto, perché si lega direttamente a quello cosmogonico, all’eterno interrogarsi umano sulle origini e sulla natura della vita.
Le grandi religioni, così come le prime e più sagge filosofie, si sono sempre interrogate intorno al problema dell’origine, del «principio»: la creazione, per poter essere concepibile, impone infatti di pensare ad un ‘unità increata ed indivisa che la precede. È così per i cristiani, ma è così anche per tutti gli altri. Gli islamici, al più raffinato livello del loro pensiero religioso, vedono la molteplicità del reale come manifestazione delle «qualità» di Dio, che, come tali, sono in principio contenute in esso, che costituisce per propria essenza un’unità indivisa. Anche l’«Uno» plotiniano, base della filosofia neoplatonica, che genera l’esistente per «effusione», o il «Brahman» della religione induista che si antepone a qualsivoglia idea di divisione, di alterità, corrispondono a questa stessa, universale visione cosmogonica. In essa trova alimento il coerente anelito dell’uomo ad una reintegrazione del divino, ad una sublimazione della propria natura reificata, a tutto beneficio dello spirito, della «scintilla divina».
Basta un attimo di riflessione per rendersi conto di come questo tema di fondo ricorra in quasi tutti gli aneliti di carattere religioso, se pure espresso in alcuni casi in modo estremamente semplicistico ed in altri in maniera assai complessa. È il caso, tanto per citare un esempio illustre, dell’alchimia, prezioso quanto sofisticato esoterismo del medioevo europeo, che celava dietro simbologie para-artigiane operazioni squisitamente spirituali, ed esprimeva il desiderio di un superamento totale della divisione, della dualità tipica dell’uomo (il cui reale si fonda sulle antinomie: uomo/donna, io/altro, ecc.), attraverso il simbolo dell’androgino, l’essere asessuato che rappresenta la reintegrata unità primeva.
Anche la numerologia proclama il 3 numero perfetto solo per sottolineare lo stesso tipo di simbologia. Il 3 infatti esprime l’incontro (e quindi la reintegrazione) del 2, simbolo della divisione fondante, della separazione fra creatore e creatura, con l’1, simbolo dell’unità increata, del principio.
Il dramma della separazione ha trovato nel tempo concreta espressione anche sul piano per così dire politico: il pensiero politico medioevale s’incentra in larga parte sul problema della ricreazione di un potere unitario, prescindendo dalla oramai storicizzata separazione fra potere spirituale e potere temporale. Il capo militare che è anche pontefice (pontifex = facitore di ponti), mediatore fra la sua comunità e il sacro, tipico per esempio dei popoli scandinavi prima della cristianizzazione, aleggia a suo modo nell’ombra del dibattito fra guelfi e ghibellini che agitò l’Europa alto medievale, coinvolgendo anche il nostro Dante Alighieri.
Come in un grottesco travestimento, che pure ripropone intatto il medesimo dramma cosmogonico, il tema della dualità riemerge prepotentemente nel mondo borghese e desacralizzato dell’ultimo secolo attraverso le nebulose intuizioni di Freud e quelle meno nebulose di Jung: prende corpo attraverso la rappresentazione della problematica dialettica fra conscio e inconscio offertaci dalla psicoanalisi.
Nessuna meraviglia dunque per il fatto che il tema della dualità, della «scissione» tipica dell’essere umano, in perenne bilico fra l’elemento spirituale che lo riconnette al sacro e la sostanza materiale che lo individua e caratterizza — insomma, più banalmente, perennemente in bilico fra il bene e il male, fra istinto e ragione — abbia trovato ampio spazio anche nell’ambito della letteratura dell’immaginario.
Uno dei più celebri romanzi della fantasy moderna, «La spada spezzata» dell’americano Poul Anderson, propone il tema del doppio attingendolo direttamente dalle brumose vicende dell’epica. Il confronto/conflitto fra l’eroe protagonista e il suo «doppio» la sua immagine speculare e negativa, il suo inconscio caotico, veste i panni della leggenda: una coppia di gemelli viene divisa dagli elfi (che qui hanno i connotati negativi tipici delle saghe) che ne rapiscono uno e lo educano per servirsene contro gli uomini. I due fratelli/nemici si confrontano poi in un duello finale dai toni scopertamente simbolici.
D’altronde il più importante, impegnativo ed insieme affascinante romanzo sul tema del doppio, appartiene a pieno titolo al mondo della letteratura fantastica. Parlo, naturalmente, dell’immortale «Caso del dottor Jekyll e Mister Hyde» di Robert Louis Stevenson. La lacerazione interiore che contraddistingue in via principale l’uomo (sul piano psicoanalitico) si aggrava con il sovrapporsi ad essa di sovrastrutture culturali, morali e sociali che, comunque, contraddicono un ‘ampia gamma d’impulsi istintivi nell’uomo stesso. Tuttavia il libero sfogo della componente istintuale e inconscia costituisce una fuga verso il basso, un perdersi nel magma del subconscio, un regredire a materia bruta, quindi, simbolicamente, un perdersi nel male come succede ad Hyde. La ricomposizione dell’unità che precede la creazione passa attraverso una sublimazione di carattere spirituale, cui niente possono apportare né la scienza né la filosofia. Con un processo «a contrario» Stevenson ribadisce tutte le premesse essenziali del complesso tema affrontato nel suo romanzo.
Alla fin fine non può sfuggire come anche il grande romanzo stevensoniano si rifaccia, sia pure in chiave psicologica (e in parte sociologica), ad un tema più universale ed antico, ricorrente nella letteratura popolare di molti paesi, così come nella loro memoria mitica, sotto forma di folklore. Lo scatenamento di Hyde, (concentrato di passioni e desideri che si caricano di una terrificante potenza e di una valenza indiscutibilmente negativa a causa dell’anarchia morale con cui Hyde li affronta), non è altro che il remake in chiave psicoanalitica e colta dello scatenamento della belva che cova entro l’animo umano. La vicenda romanzesca di Jekyll/Hyde riracconta la leggenda del licantropo, evocato dagli abissi dell’animo umano nelle notti di plenilunio. Una leggenda in cui l’uomo ha sempre espresso il proprio timore per uno scatenamento irrefrenabile delle forze oscure, delle forze telluriche dell’universo, che veda carne ed istinti far piazza pulita di ciò che è ierofania, segno tangibile del sacro, dopo aver disintegrato le regole: quelle etiche della religione e quelle interpersonali dettate dal «contratto sociale». Ecco perché la traduzione filmica di queste opere, di queste narrazioni, al di là del dato spettacolare, è risultata sempre inevitabilmente superficiale, incapace di trasmettere nella sua integralità il messaggio simbolico della storia (con un’eccezione, non a caso firmata da un maestro, ma non-addetto-ai-lavori: parlo della versione girata dal grande Jean Renoir della vicenda di Jekyll e Hyde, arrivata in italia con il titolo «Il testamento del mostro»).
Se mi sono tanto dilungato sul tema del doppio in generale ed in rapporto alla narrativa fantastica, è perché il breve ciclo del «Principe Rapito» di Paul Edwin Zimmer, che si conclude con il romanzo che tenete ora in mano, costituisce uno dei migliori esempi di approccio letterario a questo argomento in cui mi sia mai imbattuto. Fedele alla logica di una fantasy consapevole, sempre orientata ad attingere al mito autentico con cognizione di causa, Zimmer torna al taglio tipico dell’epica e propone il «topos» letterario del gemello rapito dalle forze maligne, per essere corrotto e poi usato contro gli uomini e, in particolare, contro il proprio fratello. Tutto questo su uno sfondo originale e dagli scoperti toni mitologici, o forse sarebbe meglio dire «mitografici», perché la topografia dell’universo di Zimmer è interamente ricreata e ridisegnata dall’autore.
La contrapposizione classica bene/male, su scala cosmica e su scala storica (il contrapporsi dei poteri e quello delle forze in campo), assume una nuova dimensione alla luce del tema del doppio e, soprattutto, trova in esso un massimo di coerenza teologica. Infatti non viene negata la potenza e l’esistenza del male, né l’ineluttabilità della battaglia cosmica per vincerlo, per sradicarlo, ma la dualità bene/male lungi dallo scaturire da una maniaca contrapposizione di onnipotenze è, piuttosto, il primo e più clamoroso sintomo della scissione, della divisione, dell’introduzione dell’alterità da parte del Principio.
Ma allora la creazione è un atto maligno, o quantomeno ingenuo? No, essa è un atto di suprema libertà, che nel momento stesso in cui si pone contiene già in sé tutte le proprie conseguenze e queste conseguenze debbono dipanarsi, in conflitto, in lotta, all’interno del tempo che scandisce la vicenda vitale dell’uomo.
Il grande scontro finale è anch’esso ineluttabile, ma non sarà Ragnarok, non la «caduta degli dei»: sarà il superamento della antinomia originaria, la reintegrazione nell’«Uno». Sarà, finalmente, la dissoluzione dei corpi materiali e l’abolizione della Storia. Il ciclo di Zimmer racconta, col diritto della fantasia, un capitolo di questa millenaria contesa.
Alex Voglino
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PROLOGO: CIÒ CHE È ACCADUTO IN PRECEDENZA
Diecimila anni fa, Hastur scacciò le Cose Oscure dal mondo e lo ripopolò con gli uomini, prelevati da un diverso universo. Mille anni più tardi, l’avidità umana aprì per caso le barriere che Hastur aveva posto fra i mondi, ed ancora una volta gli Otto Oscuri Signori si misero in marcia, divorando le nazioni al loro passaggio.
I Figli di Hastur riuscirono a ricacciare indietro gli Otto, ma le Cose Oscure di minor potere rimasero e crearono un incantesimo di oscurità lungo la dorsale della catena montuosa che correva da nord a sud, sulle sponde occidentali del continente principale, nascondendo quei monti alla luce dei Soli Gemelli.
Lentamente, con il trascorrere delle ere, l’Ombra crebbe e, mille anni fa, si riversò sull’Impero di Takkaria, costringendo gli ultimi, orgogliosi Takkariani a fuggire dalle loro dimore montane per riparare nella minuscola provincia settentrionale che era quanto rimaneva delle loro terre.
Nel corso dei secoli, una serie di faide fra le diverse branche dell’antica casa reale frammentò il regno in tre minuscoli principati in guerra fra loro, la cui estensione andò rimpicciolendo a mano a mano che l’Ombra scendeva dalle montagne.
I deboli fuggirono e così anche i codardi, ma coloro che rimasero, sfidando non soltanto le Creature della Notte ma anche la magia nera che devastava i raccolti ed uccideva i bambini nel grembo materno, divennero Uomini della Frontiera, votati a combattere per difendere ogni briciola di territorio.
La lotta più dura, e per le terre più povere, si svolgeva nel più occidentale fra i principati, Manjipé… il territorio che circondava l’antica città di Manjipor, che si diceva fosse stata costruita dai primi Takkariani che Hastur aveva portato su quel mondo. Più e più volte, l’Ombra aveva coperto la città, ed i Manjipéan l’avevano sempre ricacciata indietro.
Lontano, ad est, i Principi della ricca città di Mahapor, membri dell’orgogliosa dinastia Mondavan, controllavano un tratto di terra che si stendeva verso nord, e quindi lontano dalla Frontiera, tanto da garantire alla popolazione una certa quantità di pascoli per il bestiame e di terre fertili, dove la carestia provocata dalle Cose Oscure non poteva giungere, il che faceva di Mahavara il più potente fra i Principati della Frontiera.
Fra Manjipé e Mahavara, i cui territori erano limitati da fiumi, si stendeva ciò che rimaneva dell’antica foresta di Kantara, che un tempo aveva ricoperto tutta la zona.
Quattrocento anni fa, Rojei di Aquilla, un bandito proveniente da Devonia o Alferrida, aveva costruito un covo di ladroni alla confluenza di tre fiumi, a nord della foresta di Kantara, arricchendosi ed acquistando potere grazie ai pedaggi che esigeva sui traffici fluviali, ed intorno al suo castello era sorta la città di Tarencia. Quando il ramo Kantara dell’antica famiglia reale era ormai prossimo ad estinguersi, un Lord di Tarencia aveva sposato l’ultima principessa reale, e gli Aquilla avevano preso a governare Kantara con il titolo di Principi di Tarencia. A nord della Frontiera, le ricche città portuali che sorgevano lungo il Mare di Arden, avevano da tempo dimenticato le glorie dell’Impero dei Takkariani, ed i loro abitanti provavano soltanto disprezzo per i laceri Uomini della Frontiera.
Poco più di un secolo fa, un mercenario seynyoreano, Riccardo DiVega, della grande famiglia DiVega, aveva sposato una principessa della famiglia Aquilla che, per vicende di guerra e per volere del caso, era divenuta l’erede al trono. Salito al potere in tempi di guerra, DiVega aveva umiliato gli orgogliosi Mondavan ed aveva conquistato Mahapor, procedendo poi a fondere la miriade di principati e città-stato in perpetua lotta fra loro in un unico regno. Suo figlio Olansos aveva portato avanti il suo lavoro, conquistando le ricche città-stato che sorgevano lungo la costa e le fertili terre a nord delle zone di Frontiera; in vecchiaia, aveva poi sposato Tarani, una principessa della quasi estinta casata di Manjipor.
Grazie alle ricchezze derivanti dalle tasse imposte alle città portuali, Olansos aveva assoldato un gran numero di mercenari seynyoreani, ed aveva fornito agli Uomini della Frontiera cibo, combustibile ed armi per arrestare l’avanzata dell’Ombra. Il cugino di Tarani, Jagat, aveva guidato l’esercito oltre la Frontiera e, con il fuoco, l’acciaio ed il magico aiuto dei Figli di Hastur, aveva strappato all’Ombra il proprio regno, Damenco, una terra coperta dalla velenosa polvere creata dai demoni e su cui non si poteva coltivare nulla finché il terriccio non fosse stato grattato via fino allo strato sottostante di roccia viva e faticosamente sostituito con altra terra fresca.
La Regina Tarani aveva dato ad Olansos due figli… gemelli… ma uno di essi, Jodos, era svanito subito dopo la nascita, rapito e portato nell’Ombra da un mago rinnegato. Venti anni più tardi, il morente Re Olansos aveva chiamato accanto a sé suo cugino, il famoso Istvan DiVega, lo spadaccino ed il generale più rinomato del mondo intero, e gli aveva fatto giurare di sostenere Chondos, il gemello rimasto a palazzo, perché le terre conquistate davano segni di ribellione. L’oro delle città mercantili veniva impiegato a fiumi per alimentare il tradimento, ed il vecchio Principe Hansio di Mahapor, «la Vecchia Volpe», stava soltanto aspettando il momento opportuno per insorgere. Purtroppo, il Principe Chondos scarseggiava di tatto e si stava procurando parecchi nemici, tanto che Pirthio, figlio di Jagat, era praticamente il suo unico amico.
Istvan aveva appreso con piacere che Martos, un allievo di un suo antico compagno d’armi kadarin divenuto Maestro di Spada, era a capo di un contingente mercenario agli ordini di Lord Jagat; inoltre, la nipote e figlia adottiva di Jagat, Kumari, attendeva un figlio da Martos, il quale aveva supplicato la ragazza di andare via con lui. Kumari, però, non riusciva a decidersi, perché nel corso dei secoli era divenuto un punto di orgoglio per le donne della Frontiera non fuggire davanti ai pericoli della loro terra.
Poi, la morte di Re Olansos mise in moto una serie di forze. Un violento assalto contro le Torri degli Hastur, erette a protezione della Frontiera, obbligò gli Hastur e gli uomini ad accorrere per respingere le Cose Oscure con il fuoco azzurro e le spade, e nel frattempo le Cose Oscure si servirono della diversione fornita da quella guerra magica per inviare oltre la Frontiera Jodos, il Principe Rapito, senza che nessuno si accorgesse di quella manovra. Intanto, anche i membri del complotto ordito nelle città-porto approfittarono della confusione provocata dall’incoronazione per completare i loro piani; da solo, Istvan DiVega uccise i venti sicari inviati ad eliminarlo, e Martos ne sgominò altrettanti, mandati ad assassinare Lord Jagat.
Durante l’incoronazione, l’Hastur inviato a porre la corona sul capo di Re Chondos insegnò al giovane sovrano un incantesimo inteso a creare uno schermo mentale a protezione contro le Cose Oscure, ma quella stessa notte il Principe Jodos penetrò nel palazzo e riuscì a far piombare Chondos in uno stato di profonda trance prima che lo schermo mentale potesse proteggerlo; nel corso di quell’operazione, Jodos incamerò una quantità di ricordi del fratello sufficiente a permettergli di sostituirsi a lui come re mentre un demone alato trasportava Chondos, prigioniero, all’interno dell’Ombra.
Durante i festeggiamenti che si svolsero la notte dell’Incoronazione, un gruppo di giovani Uomini della Frontiera, ubriachi, decise di attaccare per burla i mercanti, e durante lo scontro che seguì tanto Pirthio quanto il giovane Principe di Mahapor furono uccisi dai mercenari seynyoreani di guardia al palazzo. Il messaggio di condoglianze, stilato in un tono volutamente offensivo, che Jodos inviò all’afflitto Lord Jagat, fu sufficiente a spingere il lord a tornare immediatamente a Damenco con l’intento di ribellarsi.
Mentre gli Uomini della Frontiera e le città-porto si preparavano alla guerra, e mentre Istvan DiVega cominciava a radunare i vari contingenti mercenari in un possente esercito, le Cose Oscure attaccarono una lontana zona della Frontiera, allo scopo d’impedire ai Figli di Hastur di indagare su quanto stava accadendo in Tarencia. Nello stesso tempo, Jodos cominciò la propria opera d’infiltrazione, assumendo il controllo della mente di quanti lo circondavano, con la sola eccezione di Istvan DiVega, che era protetto dagli incantesimi posti sulla sua spada, fabbricata dagli Hastur.
Chondos, tenuto prigioniero nella diroccata città di Rashnagar, nel cuore dell’Ombra, si rifiutò di entrare al servizio delle Cose Oscure e progettò un piano di fuga. A Damenco, Martos e Kumari litigarono, quando la ragazza si rifiutò di andare via con lui perché il figlio che attendeva era adesso l’unico erede di Lord Jagat, e Martos partì verso sud per partecipare all’assedio della città di Manjipor. Jodos, dal canto suo, decise intanto di inviare un esercito, agli ordini di…
Tit. originale: King Chondos’ Ride
Anno: 1982
Autore: Paul Edwin Zimmer
Ciclo: Dark Border #2
Edizione: Editrice Nord (anno 1988), collana “Fantacollana” #80
Traduttore: Annarita Guarnieri
Pagine: 532
ISBN: 8842905224
ISBN-13: 9788842905226
Dalla copertina | Le forze del male sono riuscite a porre un usurpatore sul trono di Tarencia: Jodos il gemello di Chondos, allevato a Rashnagar dagli oscuri signori. Tutto il regno è nel caos e gli uomini combattono fra di loro, mentre un immenso esercito di troll, ghouls, vampiri ed altre creature maligne sta preparandosi all’assalto finale. Solo il ritorno del vero Re può salvare il regno dal disastro, ma come potrà Chondos fuggire dalla prigionia dell’oscurità?