The Three, di Sarah Lotz Schede libri

Il Segno


Anteprima testo

COME INIZIA

Forza, forza, forza…

Pam fissa la spia accesa delle cinture di sicurezza per convincerla a spegnersi. Non riuscirà a trattenerla ancora per molto, e le pare quasi di sentire la voce di Jim che la rimprovera di non esserci andata prima dell’imbarco: Lo sai che hai la vescica debole, Pam, che ti passava per la testa?

La verità è che non ha avuto il coraggio di usare i bagni dell’aeroporto. E se si fosse ritrovata davanti una di quelle tazze fantascientifiche che aveva visto sulla guida turistica e non fosse riuscita a capire come tirare l’acqua? E se fosse rimasta chiusa dentro il cubicolo e avesse perso il volo? E pensare che Joanie le aveva suggerito di fermarsi qualche giorno per visitare la città prima di prendere l’aereo per Osaka! Il solo pensiero di affrontare le strade sconosciute di Tokyo le faceva sudare le mani già umidicce: come se non fosse bastato l’aeroporto, a frastornarla. Stanca e sbalestrata dopo il volo da Fort Worth, nel percorso fino al Terminal 2 per prendere la coincidenza si era sentita un gigante goffo e lento. Attorno a lei tutti sfoggiavano efficienza e sicurezza; corpi tonici le erano sciamati accanto dondolando le valigie, gli occhi ben nascosti dietro gli occhiali da sole. Lei era consapevole di ogni suo chilo in eccesso mentre saliva sulla navetta, arrossendo ogni volta che qualcuno aveva guardato vagamente nella sua direzione.

Per fortuna c’erano molti americani sul volo per Tokyo (il simpatico ragazzo seduto accanto a lei le aveva pazientemente spiegato come far funzionare lo schermo apposto sul sedile di fronte), mentre adesso è proprio l’unica… com’è che si dice? Quella parola che usano sempre nelle serie poliziesche che piacciono tanto a Jim? Caucasica, ecco. E i sedili sono decisamente più piccoli; si sente strizzata come carne in scatola. E meno male che c’è un posto vuoto a separarla dal tizio con l’aria da uomo d’affari seduto sul lato corridoio, se non altro non dovrà temere di prenderlo a gomitate. Anche se le toccherà disturbarlo quando sguscerà fuori per andare in bagno, giusto? Ossignore, sembra che stia per addormentarsi, così dovrà anche svegliarlo.

L’aereo sta ancora prendendo quota e la spia delle cinture è sempre accesa. Pam sbircia dal finestrino nell’oscurità esterna, vede la luce rossa lampeggiante dell’ala che emerge dalla nuvola, si aggrappa ai braccioli e sente l’aereo che vibra sotto di lei.

Aveva ragione Jim. Non è nemmeno ancora arrivata a destinazione che già l’impresa sembra superiore alle sue possibilità. Lui gliel’aveva detto che non è fatta per i lunghi viaggi, aveva cercato di convincerla che tutta quella storia era una pessima idea: Joanie può tornare a casa ogni volta che vuole, Pam, perché vuoi prenderti la briga di attraversare mezzo mondo solo per andarla a trovare? E mi spieghi perché è voluta andare a insegnare a quei giapponesi? Cos’è, i bambini americani non le bastavano? E poi, Pam, a te non piace nemmeno la cucina giapponese, mi spieghi come pensi di cavartela quando dovrai mangiare delfino crudo o qualunque cosa mangino da quelle parti? Ma lei aveva tenuto duro, aveva demolito le sue obiezioni e l’aveva sorpreso quando non si era voluta arrendere. Joanie se n’era andata da due anni e Pam aveva bisogno di vederla, le mancava tantissimo e, dalle foto che aveva visto su internet, gli scintillanti palazzi di Osaka non sembravano poi troppo diversi da quelli di una qualsiasi città americana. Joanie l’aveva avvisata che all’inizio quella cultura avrebbe potuto lasciarla perplessa, che il Giappone non era solo fiori di ciliegio e geishe che sorridevano timide dietro i ventagli, ma Pam aveva concluso che sarebbe riuscita a cavarsela. Aveva stupidamente pensato che sarebbe stata una specie di avventura divertente, di cui vantarsi poi con Reba per chissà quanti anni.

L’aereo si raddrizza e finalmente le spie delle cinture si spengono con un segnale acustico. C’è un turbinio di attività quando diversi passeggeri saltano dai sedili e si mettono ad armeggiare nelle cappelliere sopra le loro teste. Sperando che non ci sia la coda davanti alle toilette, Pam sgancia la cintura e si sta facendo coraggio per strizzarsi oltre il tizio seduto sul lato corridoio, quando un boato si propaga per l’intero aereo. Il primo pensiero di Pam è un ritorno di fiamma del motore, ma sugli aerei mica ci sono i ritorni di fiamma, no? Le sfugge uno strillo, una reazione ritardata che la fa sentire vagamente stupida. Non sarà niente. Forse un tuono. Sì, sarà quello. Sulla guida c’era scritto che non è insolito che forti temporali…

Un altro boato. Questo somigliava più a un colpo di pistola. Un coro di strilli acuti si leva dalla parte anteriore dell’aereo. Le spie delle cinture si riaccendono immediatamente e Pam traffica con la sua; ha le dita insensibili, non si ricorda come va agganciata la fibbia. L’aereo si abbassa di colpo, mani gigantesche le premono sulle spalle mentre lo stomaco sembra risalirle in gola. Oh-oh. No. Non può essere. Non può succedere a lei. Cose del genere non succedono alle persone come lei. Alle persone normali. Alle brave persone. Uno scossone, lo sportello della cappelliera sbatacchia e poi, come se volesse rassicurare i passeggeri, l’aereo sembra calmarsi.

Un segnale acustico, un annuncio in giapponese e poi in inglese: «Siete pregati di rimanere seduti ai vostri posti con le cinture di sicurezza allacciate, grazie».

Pam riprende a respirare: la voce è tranquilla, senza traccia di preoccupazione. Non può essere niente di serio, non c’è ragione di spaventarsi. Cerca di dare un’occhiata oltre gli schienali per vedere come reagiscono gli altri passeggeri, ma vede solo una serie di teste chine.

Si aggrappa di nuovo ai braccioli: l’aereo è tornato a vibrare, tanto da farle tremare anche le mani, e un fremito sgradevole le risale dai piedi. Un occhio semicoperto da una frangia di capelli nerissimi compare nel varco tra i due schienali davanti a lei; dev’essere il bimbetto che aveva visto trascinato lungo il corridoio da una giovane madre severa e con le labbra perfettamente dipinte, appena prima del decollo. Il bambino l’aveva fissata, evidentemente affascinato (degli asiatici si può dire quel che si vuole, ma i bambini sono semplicemente deliziosi). Lei gli aveva sorriso e gli aveva fatto ciao con la mano, ma il piccolo non aveva risposto, poi la madre gli aveva sbraitato qualcosa e lui era scivolato ubbidiente al suo posto, fuori vista. Pam cerca allora di sorridergli, ma ha la bocca così secca che le labbra le si appiccicano ai denti e – oh mio Dio – la vibrazione cresce ancora.

Una foschia biancastra comincia a fluttuare nel corridoio, le si gonfia attorno, e Pam si ritrova a fissare inutilmente lo schermo che ha davanti, sbattendo le palpebre, mentre cerca goffamente gli auricolari. Non può succedere proprio adesso. No, no, no. Se solo riuscisse a far funzionare lo schermo, a mettere un film, qualcosa di rassicurante, tipo la commedia romantica che aveva guardato sull’altro volo, quella con Ryan Qualchecosa. L’aereo sussulta violentemente di nuovo – è come se rollasse da una parte all’altra e beccheggiasse su e giù – e il suo stomaco fa un’altra capriola. Lei deglutisce disperatamente, non vomiterà, proprio no.

L’uomo d’affari si alza, agitando le braccia mentre l’aereo sobbalza, sembra che cerchi di aprire la cappelliera ma non riesce a tenersi in piedi. Che cavolo fa? vorrebbe urlargli Pam – ha la sensazione che se quello non si rimette subito a sedere la situazione peggiorerà ancora –, la vibrazione sta diventando così forte che le torna in mente quella volta che si era rotto lo stabilizzatore della lavatrice e quella stupida macchina si era rovesciata in mezzo alla stanza. Dalla foschia emerge una hostess che avanza aggrappandosi agli schienali. Gesticola all’uomo d’affari, che ricade ubbidiente sul sedile, si fruga nella tasca interna della giacca, tira fuori un cellulare, appoggia la testa contro lo schienale che ha davanti e si mette a parlare al telefono.

Dovrebbe farlo anche lei. Dovrebbe telefonare a Jim, dirgli di Snookie, che non le dia da mangiare quelle schifezze. Dovrebbe telefonare a Joanie; ma per dirle cosa? Per dirle – le viene da ridere – che farà tardi? No, per dirle che è fiera di lei, ma ci sarà almeno il segnale per telefonare? Usare il cellulare non disturberà i sistemi di navigazione? Servirà la carta di credito per far funzionare il telefono di bordo che c’è dietro il suo sedile?

Dove l’ha messo il cellulare? Nel marsupio legato in vita con i soldi e il passaporto e le pillole, oppure nella borsa? Perché non se lo ricorda? Allunga la mano verso la borsa che ha vicino ai piedi, le sembra che lo stomaco le si spiaccichi contro la spina dorsale. Sta per vomitare, tra un po’ vomita, però poi le dita sfiorano la tracolla della borsa… Un regalo di Joanie per il Natale di due anni fa. Era stato un bel Natale, quel giorno persino Jim era di buon umore. Un altro scossone e la tracolla le sfugge di mano. Non vuole morire così, non così. Non in mezzo a quegli estranei, non conciata in quel modo, con i capelli unti – la nuova permanente è stata un errore – e le caviglie gonfie. No, proprio no. Svelta, pensa a qualcosa di bello, qualcosa di buono. Sì. Questo è solo un sogno, in realtà è seduta sul suo divano con un sandwich di pollo e maionese, Snookie in grembo, Jim che sonnecchia in poltrona. Sa che dovrebbe pregare, adesso, sa che è quello che le direbbe di fare il pastore Len – e sparirà tutto, se prega? – ma per una volta in vita sua le mancano le parole. Riesce a mettere insieme un «Gesù Cristo, aiutami» ma altri pensieri continuano a intromettersi. Chi si occuperà di Snookie se le succede qualcosa? Snookie è vecchia, ha quasi dieci anni, perché l’ha lasciata sola? I cani mica lo capiscono! Oddio, in fondo al cassetto c’è quel mucchio di collant smagliati che si dimentica sempre di buttare via: cosa penseranno di lei quando…


Leave a Comment