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PROLOGO: LA TORRE DI BAYBHELU
A un miglio dalle mura smaltate della città, dove si stendeva un deserto luccicante come vetro dorato, in una torre di pietra, una bella donna giocava con un osso.
«Lui verrà da me oggi?», chiedeva all’osso, cullandolo come un bambino. «O mi cercherà stanotte? Tutte le stelle brilleranno, ma lui brillerà di più. Certo, non oserà venire di giorno, perché offuscherebbe il sole col suo splendore. Il sole morirebbe di vergogna, e il mondo intero diventerebbe scuro. Ma sì, Nemdur verrà», disse la bella donna. «Nemdur, il mio Signore».
Lei si chiamava Jasrin; Nemdur era il re della città situata a un miglio a est. Un tempo era stato suo marito. Ora non più.
Quando il giorno cominciò a svanire, avvolgendosi nelle sue vesti e lasciando silenziosamente il deserto, Jasrin chiamò le sue ancelle. Ne aveva soltanto due adesso al suo servizio, una molto vecchia e una giovane. Entrambe la commiseravano, ma lei le notava appena. Non notava neppure che, sotto una parvenza di pietà, la disprezzavano. Giù al portone, uomini muscolosi, armati di spade e scuri, montavano la guardia, con l’incarico di evitare pericoli esterni o interni. Palme fronzute d’un verde vivace circondavano la torre, e un piccolo stagno azzurro pareva un pezzo di cielo caduto. Al tramonto, la ragazza andò svelta allo stagno a prendere dell’acqua per il bagno della sua padrona. Jasrin fece il bagno, fu profumata e unta. La vecchia le pettinò i capelli colore del deserto, ornandoli di gioielli come Jasrin la istruiva. Le fecero indossare un abito di seta e ciabattine dorate. E per tutto il tempo Jasrin si tenne stretto il suo osso. Vi era una ragione: era l’osso del suo bambino.
«Preparate il banchetto», disse alle sue ancelle. «Presto arriverà il mio Signore Nemdur».
Le due donne ubbidirono. Prepararono la tavola con tovaglia e tovaglioli ricamati, piatti d’argento, e vi misero carni cotte, pane, frutta e dolciumi. E anche del vino, tenuto in ghiaccio in un secchiello d’argento.
«Fate della musica», disse Jasrin.
La ragazza prese uno strumento a corde e ne tirò fuori delle note che parevano sospiri cristallini in diesis.
Jasrin si appoggiò alla finestra. Guardò verso la città lontana, oltre le oscure dune del deserto.
In cielo luccicavano le stelle immobili. Lei cercò altri luccichii mobili, lanterne e torce provenienti dalla città di Sheve: il corteo degli accompagnatori del suo Signore.
«Presto», disse all’osso del suo bambino morto, «presto tornerà da me. Con i suoi capelli come bronzo, forte come il sole, e con le stelle negli occhi. Giacerà con me, e la sua bocca sarà nettare, il suo inguine fuoco. Oh, che musica suonerà in me, e io sarò un semplice strumento per quella musica. E in quella musica io concepirò, diventerò grossa di te, bambino mio, e tu nascerai una seconda volta».
Ma se l’osso la udì, non le prestò attenzione. Se la notte la udì, rimase indifferente. E Nemdur, il re che stava nel suo palazzo con la nuova regina, se la udì, si tappò le orecchie.
A mezzanotte Jasrin urlò. Scaraventò l’osso in un angolo. Si strappò la pelle e i capelli, e le due ancelle corsero a fermarla. Jasrin era diventata così debole che non ci voleva gran forza per impedirle di farsi male. E poi erano molto pratiche. La cosa si ripeteva ogni notte.
E come ogni notte Jasrin pianse per parecchie ore. Consumava le notti in lacrime, e solo alle prime avvisaglie dell’alba dormiva un poco per poi svegliarsi e chiamare il suo bambino. Allora la ragazza le portava l’osso e Jasrin lo cullava e se lo stringeva al petto.
Col sorgere del sole chiedeva di nuovo all’osso: «Lui verrà da me oggi? O mi cercherà stanotte?».
Ma Nemdur non andava mai da lei.
Aveva sedici anni quando era stata data in sposa a Nemdur. Sino ad allora aveva vissuto in un regno di molte acque, fiumi, laghi, cascate, fontane. Colline verdi sovrastavano verdi vallate, il cielo si stendeva su un mosaico di fogliame verde. Quando le avevano detto che doveva lasciare quella terra per andare in un luogo fatto di distese assolate, Jasrin aveva pianto. Ma obbediente, infelice e con un po’ di paura, era andata dall’uomo che doveva diventare suo marito, dopo aver fissato a lungo le verdeggianti terre in cui era nata. Quando lui le sollevò il velo con dita forti ma gentili, fu come se il sole la irradiasse. Alzò lentamente gli occhi e guardò Nemdur come se fosse il sole, e il sole le asciugò il pianto col suo sorriso.
Nemdur era bello, un giovane leone. I suoi occhi rilucevano come trucioli metallici: erano chiara ardesia, ardente dell’aria del deserto. Vedendo la sua sposa, le aveva sorriso, compiaciuto della sua avvenenza. Era quanto Nemdur aveva desiderato; e lei non desiderava che compiacerlo.
Andò a Sheve in una carrozza che tintinnava di dischi d’argento, i capelli sciolti al vento, gli occhi colmi non di lacrime ma d’amore. Era la principessa di tutte le cascate. Nel palazzo, quando furono in camera da letto, Nemdur le fece conoscere un altro mondo in cui fuoco e liquido si fondevano insieme.
In breve fu gravida. Nemdur la caricò di altri doni: collane d’oro, specchi d’argento, braccialetti di zaffiro, fili di perle. Per lei aveva creato un giardino dove le piante di loto parevano cigni negli stagni poco profondi; un giardino con l’acqua in mezzo a un deserto. Le mandò la pelle di un leone che lui stesso aveva abbattuto, da usare come cappa in cui avvolgere il futuro neonato. Tutto questo le mandò, ma lui non la toccò più. Nemdur, libero come la sabbia o la luce del sole, cercò altre donne. Il suo appetito era robusto, e i suoi gusti variati. Il bambino, che aveva reso Jasrin pesante e sgraziata, non aveva che affrettato l’inevitabile desiderio di cambiamento che era in lui. C’era, sì, spazio nel suo cuore per Jasrin, ma anche per altre, e nel suo letto accoglieva un mondo di donne.
Lei lo vide mettere gli occhi su fanciulle dai capelli color zafferano, con carnagioni d’avorio, su fanciulle dalla pelle scura come melassa e capelli lanosi. Gli sentiva addosso l’odore di quelle pelli, di quei capelli, i loro profumi e la loro lussuria. Si chiuse in se stessa, si rimpicciolì tanto che la sua anima divenne come un seme di coriandolo.
Poi si guardò nell’acqua degli stagni e negli specchi d’argento. Indovinò che il figlio di Nemdur la rendeva orrenda, e cominciò a odiare quel figlio. Sino ad allora non aveva dato peso alla sua vita, o meglio non aveva pensato di avere voce in capitolo. Ma a quel punto fu pervasa da un grande terrore. Le erano accadute cose enormi, e tutte senza il suo volere. Esilio, amore, gravidanza e abbandono. Poi ci furono le doglie. Altre avevano sofferto di più, ma chi poteva dire che per Jasrin, allora, il dolore e la paura non apparissero i più terribili mali provati da una donna? Il suo corpo era come spaccato; il cervello lacerato. Generò un maschio che deposero sulla pelle di leone, ma Jasrin giaceva su lava fusa. Tuttavia pensò: “Ora me ne sono liberata, e ora lui tornerà ad amarmi”.
Nemdur inviò molti doni. Alla moglie orecchini e collane di lapislazzuli; al figlio una mela di giada. Quando entrò in camera, sollevò il piccino in alto e rise di piacere. A Jasrin, quando le aveva tolto il velo, aveva sorriso;
questa volta la guardò appena.
Di tanto in tanto usciva dai suoi appartamenti, ma la sua anima era piccola come un seme di coriandolo, e il suo cervello era spaccato in due. Una parte le diceva: “Vedi come mio marito gioca col bambino”. L’altra parte le diceva: “Vedi come mio marito ha occhi solo per il bambino e non bada a me”.
Nemdur regalò al figlio vestiti di seta, giocattoli d’avorio, una cavigliera d’oro. Nemdur andò nel letto di Jasrin.
«Sono bella?», gli domandò Jasrin.
«Bella come un loto, e generi figli bellissimi. Facciamone un altro, tu e io».
«Mio Signore», disse Jasrin, «sono indisposta stasera. Non chiedermelo. Va’ invece da una delle tue donne bianche come neve, o scure come l’inchiostro».
«Suvvia», disse Nemdur, «è te che voglio».
Allora il suo cervello rovinato le mise in bocca parole dolci come miele: «Ti ho desiderato tanto…», e amare come l’aloe: «Ma sono l’ultima che cerchi».
Nemdur capì che era offesa e disse: «Sono stato sconsiderato e mi correggerò. Ma ti ho sempre rispettato».
«Sono solo una delle tue puttane», disse lei.
«Tu sei mia moglie e la madre del mio erede».
Jasrin non disse altro, e si allungò nel letto, rigida come pietra. Quando vide che non otteneva nulla, Nemdur la lasciò. Il suo giardino era pieno di fiori: gli bastava coglierne uno. A quel punto l’anima di Jasrin non era…
Tit. originale: Delusion’s Master
Anno: 1980
Autore: Tanith Lee
Ciclo: Flat Earth (Tales From The Flat Earth) #3
Edizione: Compagnia del Fantastico (Newton, anno 1994), collana “Il Fantastico Economico Classico” #29
Traduttore: Vera Simonetti
Pagine: 130
ISBN: 8879837028
Dalla copertina | I Signori delle Tenebre sono alcuni esseri immortali dotati di poteri terribili, che vivevano sulla Terra quando il nostro pianeta era agli albori della sua genesi. Tra loro c’erano Uhlume, il Signore della Morte, Azhrarn, il Signore della Notte, e altri che consideravano la Terra il loro campo di gioco dove gli essere umani non erano altro che delle pedine da manipolare ed eliminare secondo il loro capriccio. Ma il più crudele dei Signori delle Tenebre era senz’altro Chuz, il Signore dell Illusioni, la cui malvagità prendeva di mira non solo gli uomini, ma anche i suoi stessi congeneri. Questo libro è la storia del conflitto che vede contrapposti Azhrarn e Chuz e che, come tutti i conflitti, si concluderà senza vinti né vincitori, ma con in compenso una grande quantità di vittime innocenti.