Il Vangelo della Scimmia

Il Vangelo della Scimmia

Qualsiasi romanzo che definisca come proprio campo d’azione un’isola fantastica per poi muoversi in direzione di una parodia della contemporaneità non può sottrarsi a un confronto con I Viaggi di Gulliver. E Il Vangelo della Scimmia non vi si sottrae. A partire dal tema del naufrago sull’isola, fino all’utilizzo della popolazione che la abita come strumento per mettere in scena una feroce e tagliente satira sociale, Christopher Wilson non solo non evita di palesare l’influenza di Jonathan Swift, ma anzi la invoca per rendere ben chiara al lettore, fin dalle prime righe, la connotazione metaforica del racconto.

Sganciate dai riferimenti a fatti e luoghi concreti per essere ricollocate all’interno di situazioni fantastiche e in paesi immaginari, le vicende del dr. Lemuel Gulliver partivano da una narrazione surreale del presente (era il XVIII Secolo) per arrivare a metterne in luce i difetti e le contraddizioni. Su un palcoscenico immaginario, i vizi e le bassezze della società, l’ignoranza e la stupida ipocrisia della popolazione, venivano messe a nudo ed esibite senza alibi. Ognuno dei viaggi di Gulliver si caratterizza quindi come un pretesto per criticare di volta in volta, attraverso la sottile spietatezza del ridicolo, il sistema giudiziario, la politica estera o direttamente i meccanismi del dominio sociale, del gioco tra potenti e sottoposti. Ed è proprio a partire da premesse analoghe che Christopher Wilson decide di accompagnare il lettore sull’isola di Iffe, dove, tra contesti e personaggi improbabili, il primate al quale è stato dedicato il titolo diventa protagonista di una tragicommedia profondamente umana.

Ambientata anch’essa nel XVIII Secolo inglese, la storia ruota attorno a Maria, una scimmia che ha vissuto come mascotte a bordo di una nave da guerra, godendo della simpatia e dell’affetto dell’equipaggio. Quando una violenta tempesta causa il naufragio dell’imbarcazione, solo e in balia delle acque, l’animale finisce con l’approdare su Iffe, un’isola sperduta. La popolazione che la abita non ha la più pallida idea di cosa sia una scimmia, così la identifica come uno straniero (un Francese, per la precisione), anche a causa degli indumenti e dei gioielli che indossa.

Di fronte alla novità, i più illustri membri della comunità si attivano per cercare il favore dello straniero. Il mercante Hogg decide di organizzarne il matrimonio con sua figlia; Gallimauf, considerato l’intellettuale della comunità in virtù del suo aver letto cinque libri, desidera confrontare con lui le proprie conoscenze in tema di filosofia e teologia; Vera la Pazza ne cerca la compagnia e l’affetto; e ancora, a partire da Lord Iffe, il signore dell’isola, fino al reverendo Lovegrave, unica e indiscussa guida spirituale, tutti caricano lo straniero delle proprie aspettative e dei propri desideri. Ma dal momento che la scimmia non fa altro che comportarsi come tale (si gratta, si lecca, fa smorfie, ride e fa versi incomprensibili, si arrampica sugli alberi e fa dispetti), la comunità reagisce individuando in lei la fonte di peccati irripetibili, nonché di una corruzione dei costumi alla quale è necessario porre un freno. E, come in una sorta di commedia dell’arte allestita per l’occasione, ognuno dei personaggi che si muove attraverso le pagine del libro diventa l’incarnazione più o meno esplicita di un tipo sociale: Hogg, il mercante esibisce fin da subito una meschinità pari solo al livello di un’obesità che non gli consente di muoversi da solo; Gallimauf, dall’alto dei suoi cinque libri letti, occupa il ruolo di intellettuale più per demeriti altrui che per meriti propri; il reverendo Lovegrave è il rappresentante di una religiosità tanto pronta ad essere severa e inflessibile nei confronti delle debolezze altrui quanto tollerante verso le proprie; e Lord Iffe è l’incarnazione di un’autorità politica la cui violenza affonda le proprie radici nel terreno dell’inconsapevolezza e dell’assenza di memoria. Un posto a parte si trova invece occupato da Vera la Pazza, una donna sola ed emarginata in quanto accusata di essere indemoniata, ma che suo malgrado rappresenta uno dei pilastri attorno al quale la comunità di Iffe può preservare la propria identità. Oggetto di desideri carnali di notte e di disprezzo morale di giorno, Vera è l’unica persona a provare un sincero affetto nei confronti di quell’essere basso, peloso e deforme, e a comprenderne il destino.

Per ogni reverendo Lovegrave, cioè per ogni persona che utilizza una doppia morale a seconda che oggetto del giudizio sia essa stessa o qualcun altro, è necessario che ci sia una Vera da isolare e da disprezzare in pubblico, qualcuno addosso al quale scaricare il peso delle proprie mancanze.

Ed è proprio all’interno di questo spazio, nella distanza che separa chi può giudicare e chi non può fare altro che subire in modo passivo, che Christopher Wilson si colloca per squadrare con attenzione le dinamiche di un potere ottuso e delle gerarchie su cui si regge. Dall’evidente riferimento nel titolo del primo capitolo (‘Nella colonia penale’), all’assurdità dell’intermezzo dedicato all’universo giuridico di Jarvie, l’autore inserisce frequenti sfumature kafkiane che sfociano in uno sguardo sulla violenza di un dominio inconsapevole della propria brutalità. Si tratta di un approccio che non cela i propri debiti nei confronti delle riflessioni di Michel Foucault, al quale anzi viene reso omaggio attraverso il titolo di uno degli ultimi capitoli del libro: ‘Sorvegliare e punire’. Tramite i personaggi che popolano Iffe, Wilson cattura con lucidità lo spirito di una comunità che non trova la ragione della propria unità nell’autorevolezza di una figura politica o religiosa; al contrario, usa queste figure in modo funzionale al mantenimento di uno stato di cose all’interno del quale a ognuno viene assegnato un posto e un ruolo ben precisi. La curiosità di cui viene fatta oggetto la scimmia non è manifestazione di un vero interesse nei confronti della diversità di cui può essere portatrice, quanto piuttosto del desiderio di vedere confermata la fondatezza delle proprie credenze. Non ha lo scopo di comprendere qualcosa di nuovo, ma di trovare nuove conferme. O la novità si arrende a ciò che già è in vigore, oppure si qualifica come gesto sovversivo da condannare.

Maria è l’incarnazione di un’alterità alla quale tutto è negato: il suo comportamento, la sua natura, e perfino il suo sesso. Tra i crimini di cui si macchia l’animale ci sono il suo non essere un ricco come desidera il mercante Hogg, né uno studioso al livello delle aspettative di Gallimauf. Il vergognoso e irripetibile peccato che la scimmia incarna agli occhi della comunità non consiste in qualche orribile azione della quale sarebbe stata responsabile, anche in modo inconsapevole, ma nel suo sottrarsi all’arbitrio di una morale comune. La violenza che si abbatte su di lei e quella che porta all’emarginazione di Vera condividono la stessa origine: attraverso la punizione dell’altro, la reificazione della sua diversità, la comunità ha modo di consolidare la propria omologazione. E un ruolo chiave viene giocato proprio da quell’intellettuale che si professa studioso tollerante e liberale, ma che all’atto pratico si rivela essere un docile strumento nelle mani di un’autorità repressiva e conservatrice. Appare chiaro che la scimmia non articola mai altro che urla e grugniti, eppure nessuno esita ad attribuirle pensieri e parole, e a giudicarla sulla base di questi. Ad esempio, il suo mancato adeguamento alle regole del matrimonio con la figlia del mercante viene visto come un atto di ribellione, una mancanza di rispetto nei confronti delle regole della comunità nella sua interezza.

L’isola di Iffe è il palcoscenico sul quale viene rappresentata la persecuzione e l’emarginazione delle minoranze e dei diversi. Poco importa che si tratti delle dicerie di un piccolo paese su una singola vittima o delle accuse celebrate a mezzo stampa nelle grandi campagne mediatiche contro intere categorie di persone: Maria rappresenta il soggetto privato del diritto di esprimere le proprie opinioni. Un divieto che non si esercita impedendo al soggetto di parlare, ma circondandolo di un vuoto nel quale non c’è nessuno disposto ad ascoltarlo. Il giudizio a cui viene sottoposto è quello formulato da chi non si interroga sulla diversità altrui, ma processa e condanna attribuendo all’altro i suoi pensieri e le sue parole. La scimmia Maria, proprio nel suo non essere riconducibile ad alcuna categoria umana, diventa così il simbolo di tutte quelle persone alle quali è negato il diritto di difendersi da sole.

Oggetto di una violenza linguistica che si consuma prima di tutto nella mancanza di riconoscimento dell’altro come soggetto libero e autonomo (magari in nome di una difesa di valori collettivi o di una morale condivisa), la vittima è tale non in quanto responsabile di qualche crimine, ma perché su di essa l’accusatore concentra le proprie ossessioni e i propri fantasmi, la propria ignoranza e la propria ipocrisia. E se anche al lettore la scimmia appare umana, non è per qualche sua particolare virtù che la renderebbe speciale, ma perché simili a lei sono le persone alle quali non viene riconosciuta l’umanità e tantomeno il diritto a decidere in piena autonomia cosa fare di sé e della propria vita.

Non è Maria insomma ad essere talmente speciale da sembrare umana, sono piuttosto le privazioni di diritti a cui sono costrette le vittime di violenze e discriminazioni a far sì che i loro profili possano sfumare nei contorni di una scimmia naufraga alla mercé di una comunità arretrata e superstiziosa.