L’assenza di eredi diretti di Stefanos, Re di Aletheya, ora anziano e gravemente malato, induce le casate nobiliari del regno, consapevoli che gli stati confinanti approfitterebbero di ogni debolezza, a rinsaldare antiche alleanze e stringerne di nuove.
Si manifesta tuttavia lo spettro della guerra civile quando Galen, sicario che porta dipinto sulla fronte il sigillo di due falci di luna intrecciate, riesce a ferire il sovrano con un pugnale avvelenato. Per Stefanos non c’è speranza, è condannato alla morte entro pochi giorni; e stessa sorte toccherebbe a Galen che, ingannato dal suo stesso ignoto mandante, trova precluse tutte le vie di fuga concordate.
Ma ecco l’imprevisto: attentatore e vittima, entrambi traditi, giurano vendetta, e Stefanos, prima di morire, al fine di stravolgere i piani di chi ha assoldato Galen, affida la corona proprio a quest’ultimo. E così un adepto della società segreta degli Irhies Iryannhe, al servizio dell’enigmatica Iryanna, Dea della Vendetta, del Sonno e della Morte (il cui sigillo è appunto la Duplice Luna), diviene sovrano del regno di Aletheya.
I pochi a conoscenza della verità, rispettosi delle ultime volontà del re, presentano Galen come figlio illegittimo dello stesso Stefanos. Nei riguardi del sicario – astuto, ironico, abile nelle trame di palazzo non meno che con la spada – i nobili sono però divisi: al rispetto e alla simpatia di alcuni si contrappone l’insofferenza o l’aperta avversione di altri. Anche nella stessa congrega degli Irhies Iryannhe le opinioni su Galen sono contrastanti. L’incontro tra il mondo ctonio degli assassini, confinato nelle rovine sottostanti la capitale, e quello dei nobili, i padroni della capitale stessa, sembra in effetti poter sconvolgere equilibri secolari
Questo contatto forzato tra realtà tanto lontane porterà il nobile e giovane Fabian La Crosse Morgan, nipote del re e capitano delle guardie, a un profondo dissidio interiore: egli è tra i primi a sostenere la causa di Galen alla ricerca del traditore ma considera l’assassinio su commissione un atto illegale e immorale.
Intanto Galen si diletta nelle trame di palazzo, acquistando consensi o stringendo alleanze; convince il giovane cadetto Kriss, grande amico di Fabian, a entrare a far parte della sua setta; arruola come spie e guardie del corpo tre apprendisti assassini: il freddo Cian, la bella Sand e il fratello di quest’ultima Phyl. Salva poi da un agguato Justin Laevius, conte di Antemis, possibile successore di Stefanos e quindi suo grande avversario; ingaggia una strenua, ma sotterranea lotta contro alcuni sacerdoti, detentori di un potere politico notevole, sposando la causa di antichi culti mai dimenticati, cari al popolo; si confronta con gli avversari appartenenti alla sua stessa gilda, cercando di non stravolgere quegli equilibri interni che lui stesso ha reso precari.
Quando il mandante dell’omicidio del re viene smascherato, il respiro della storia si fa ancora più ampio: è chiaro che costui non ha agito da solo e gli indizi conducono al regno di Imbrium, contro il quale però Aletheya non è affatto preparata a entrare in guerra.
E mentre le trame politiche s’intrecciano, il potere della magia inizia a ridestarsi…
Commento
Il Volto della Duplice Luna è il primo volume di una saga e presenta, nel bene e nel male, tutti i caratteri propri di un lungo prologo o di una digressiva introduzione.
Da un lato, si deve dar atto all’autrice di aver tentato di costruire un mondo che si allontanasse dalla oramai saccheggiata tradizione nordica e dalla stanca rivisitazione dell’ennesimo medioevo fantastico; al lettore viene presentata un’ambientazione dalle chiare ascendenze classiche (opportunamente reinterpretate) da subito complesso e completo, al servizio di una storia strutturata e non del tutto banale, aperta a sviluppi promettenti.
Dall’altro lato, talune scelte stilistiche e di narrazione rendono opaca l’atmosfera e riducono significativamente la tensione, tanto che il lettore raramente si sente partecipe di quello che accade.
Dopo un inizio promettente e relativamente originale, la storia perde, nella prima parte, quasi del tutto il suo fascino, impaludandosi in una serie di incontri e dialoghi poco persuasivi, mentre il ritmo della narrazione si fa lento e stanco, nell’assenza pressoché totale di tensione, tra episodi poco significativi o involontariamente ironici (a titolo esemplificativo: una confidenza che dovrebbe essere di mirabile segretezza viene scoperta perché uno dei protagonisti la ascolta nascosto dietro la porta di uno sgabuzzino). Sotto questo profilo, non ridesta certo l’attenzione del lettore l’episodio del tentato omicidio di Justin Laevius: l’attacco dei sicari, che irrompono sulla scena frantumando un lucernario, riecheggia episodi scontati dei romanzi di cappa e spada, e in questo libro che concede ben poco all’avventura sembra davvero solo un espediente (fallito) di ravvivare le braci che stanno andando spegnendosi.
Del resto, gli stessi personaggi, con le sole luminose eccezioni di Galen e Justin Laevius sono spesso figure evanescenti prive di spessore e di carattere.
È necessario attendere fino a circa metà romanzo (con lo smascheramento del traditore e il ferimento di Fabian) prima che la storia acquisti ritmo sovrapponendo a quella principale altre trame che ravvivano l’interesse: è ben costruita la vicenda del cultista-assassino; è piacevolmente narrata – e con delicata ironia – la storia d’amore nata tra la libertina Delphine e l’austero Adonais Governor. In questa seconda parte si toccano i punti di maggior tensione: un attacco a Kriss, che apre molti scenari nuovi, e l’ultimo incontro tra Cian e Sand, particolarmente convincente e ben descritto.
Il basso livello di pathos non sembra tuttavia frutto di mancanza d’esperienza o di idee: deriva piuttosto da una scelta narrativa in cui il ruolo principe è ricoperto dai dialoghi, che, introdotti da descrizioni brevi, a volte poco più che cenni, sono spesso lunghi e complessi, in particolare quando attengono alla storia, alle origini o alle tradizioni di Aletheya. Essendo rare le occasioni nelle quali viene direttamente riportato il pensiero dei personaggi o descritto il loro stato d’animo, i dialoghi divengono strumento indispensabile per comprendere personalità e intendimenti. Accade così anche per quanto concerne l’evolversi della storia: salvo eccezioni, il lettore non assiste direttamente agli eventi ma ne ha notizia attraverso ciò che i vari protagonisti si dicono.
Si ha quindi una percezione volutamente frammentaria dello scorrere del tempo: se i personaggi hanno assistito direttamente all’evento, ne parleranno nell’immediatezza del suo avverarsi; altrimenti, anche dopo diversi giorni.
L’impressione che ne deriva è che il romanzo sia quindi costruito come un’opera teatrale, dove la scenografia è povera di particolari – ma in alcuni atti comunque suggestiva – e il lettore-spettatore non può che seguire la narrazione per il tramite del recitato: si sente nel pubblico, non sulla scena, con tutte le negative conseguenze alle quali si è fatto cenno.
L’importanza fondamentale rivestita dai dialoghi rende inoltre evidenti alcune scelte inopportune che in altri contesti, in narrazioni di ispirazione diversa, sarebbero passate quasi inosservate. Posto che Aletheya non ha nessun contatto con la nostra realtà, sembra fuori luogo ad esempio l’utilizzo da parte dei personaggi di parole come “sofismo” o di proverbi e detti arguti tratti dalla tradizione italiana come “cosa c’è? il gatto ti ha morso la lingua?”, oppure “chi è causa del suo mal pianga sé stesso
Difficoltoso per l’autrice è poi far comprendere, specie nella prima parte del romanzo, chi stia effettivamente parlando: per evitare ripetizioni nel riferirsi a un personaggio già poco prima citato, si ha un utilizzo eccessivo di perifrasi che appaiono pesanti e poco funzionali allo scopo.
I Due Volti di Aletheya
Se le scelte sulla modalità della narrazione non possono dirsi convincenti, altro giudizio deve porsi nei confronti dell’ambientazione creata dall’autrice.
Il Mondo di Aletheya – in greco “verità” – attinge a fonti diversificate: dal mondo classico greco e romano a quello egizio, dal Medioevo degli alchimisti all’Inghilterra preindustriale. Il mosaico che ne nasce presenta un indubbio fascino e una notevole complessità.
Insieme al ruolo centrale rivestito dal già citato culto di Iryanna, compongono il pantheon di Aletheya molte altre divinità delle quali il lettore viene a conoscenza nell’episodio dei funerali di Re Stefanos (durante la lunga processione che accompagna il feretro) con successivo approfondimento in occasione delle prove di una rappresentazione teatrale alla quale assistono le giovani Elaine Bliss e Hilde Ni Landreth.
Nel dialogo che gli attori inscenano, il dio Adon, Re dei Cieli, parla a Iryanna, la dea “oscura”:
[Adon] “Ma i tuoi strali non toccano solo chi è colpevole. La morte non è giusta Iryanna.”
[Iryanna] “Tu che dici di amarmi, dovresti sapere che il confine tra giusto ed ingiusto non è così facile da segnare. Tu per pietà hai colpito la Madre. Tu per pietà le hai dato dolore.”
[Adon] “Eppure nel tuo mondo gli innocenti soffrono. E muoiono.”
[Iryanna] “Un dio non sa cosa è la morte. Nessuno di noi la conoscerà davvero.”
[Adon] “Tu sei la morte. E dici di non conoscerla.”
[Iryanna] “Io sono la Soglia. Ma serbo in me il segreto.”
È in queste parole un tema ricorrente nel romanzo, ripreso anche in un lungo dialogo tra Fabian e Laqueur, esperto di medicina (e veleni) adepto del culto di Iryanna. Nulla sembra a Fabian più lontano dal concetto di giustizia che la setta degli assassini e l’omicidio su commissione: “La Congrega non si preoccupa se le sue vittime sono colpevoli o innocenti, malvagie o virtuose. Uccide e basta, senza distinzioni di sorta. E come può essere giusto questo?”
Gli risponde Laqueur: “La congrega non fa distinzioni. Ma questo non vuol dire che non ne facciano i singoli assassini. In teoria è sempre possibile che tutti loro si rifiutino di accettare un incarico. Una manciata di volte in cinquecento anni è persino accaduto. Sarebbe un errore terribile però, se fosse la Gilda in quanto tale ad arrogarsi il diritto di stabilire chi merita l’assoluzione e chi la condanna. […] Quando i Tribunali dei re condannano a morte un uomo […] uccidono un frammento di libertà. Nessuno di noi dovrebbe decidere della vita di un altro essere umano e credere che sia un suo diritto farlo. La tentazione per la Congrega c’è stata: dietro la maschera dell’etica o quella dell’ipocrisia avremmo potuto assolvere ogni nostro delitto, chiamandolo ben fatto. Ma la Gilda ha scelto invece di non pronunciare alcun giudizio e restare un impersonale strumento di morte. La riflessione morale, se dovesse esserci, tocca ai singoli che ne fanno parte”.
La Congrega rifugge dunque da qualificazioni morali e dalle semplici dicotomie quali “giusto e sbagliato”, “male e bene”: si pone come arma nella mano di altri e come tale è neutrale
Il conflitto nasce tra un sistema di valori – quello al quale i nobili si sono sempre richiamati ma che spesso hanno tradito – e un sistema che da quei valori prescinde sottraendosi ad ogni facile qualificazione.
Conflitto e confronto resi possibili da un re assassino che con un gesto logicamente impossibile è divenuto al contempo punto di riferimento per due mondi opposti, l’uno di ombra, ma con regole sacre sempre rispettate, l’altro di luce, ma dove le regole anche più alte vengono infrante.