Incontri Ravvicinati del Terzo Tipo

Incontri Ravvicinati del Terzo Tipo

Una portaerei arenata in pieno deserto, un caccia d’epoca rispuntato dal nulla… Eventi straordinari stanno accadendo in diversi angoli della Terra, fatti scientificamente inspiegabili che trascinano con sé, come in una strana caccia al tesoro, un attonito scienziato francese, Lacombe. Con l’aiuto della NASA, egli giunge ad un’unica soluzione dell’enigma: esseri provenienti da altri mondi stanno per scendere sul nostro pianeta.

Anche il giovane elettricista Ray, padre di famiglia, dopo un primo avvistamento decisamente folgorante, perviene alla stessa conclusione. Lo stesso vale per Gillian, madre sola che si trova a dover rincorrere inutilmente il suo bambino Barry, attirato da quelle luci stroboscopiche che lo portano via senza una ragione apparente.

Spinti da un istinto al di fuori di ogni controllo, Ray e Gillian s’incontreranno più volte, legati da un unico desiderio: raggiungere il luogo dove il contatto sembra imminente. In un altopiano sperduto del Wyoming comprenderanno di non essere stati gli unici assoggettati a quel particolare richiamo: un campo base già allestito ospiterà loro e quelli che come loro si “sentono” in dovere di essere lì in quel dato momento. “Io la invidio!” confiderà sommessamente Lacombe a Ray, appena prima che quest’ultimo metta piede sull’astronave da poco atterrata, che ripartirà portando con sé uno scorcio della nostra umanità: un uomo ormai con gli occhi rivolti troppo avidamente al cielo per poter restare accanto ad una complice Gillian, legata a lui da un unico bacio ma al contempo da un’esperienza immensa e indefinibile. A lei rimarrà il conforto dell’abbraccio del piccolo Barry, testimone prezioso, insieme a molti altri come lui, di un dono speciale. Un dono recato all’uomo dall’alto, sintetizzato in quello che tra tanti è uno dei beni più inestimabili: la conoscenza.

Come sempre il cinema non è fatto solo di pellicola e non si limita mai a raccontare una sola trama; sono proprio quei film che narrano storie al di fuori di se stessi a permettere all’obbiettivo della cinepresa di rubare un po’ di futuro per dare senso al presente. La storia che si espande fino a fuoriuscire dai lembi di Incontri ravvicinati del Terzo Tipo è quella di una mano giovane ma non inesperta, che nel 1977 non solo seppe da che parte puntare la macchina da presa, ma persino elaborare di proprio pugno un soggetto decisamente anacronistico.

STEVEN SPIELBERG sulla sua tela immacolata ha dipinto un panorama altamente soggettivo, in antitesi coi tempi che correvano, ha dettato regole nuove per quel magico gioco che è il cinema e che trova la sua linfa vitale in un continuo rinnovarsi. Potrà vantare persino il coraggio di esprimersi attraverso una grammatica cinematografica altra, caratterizzata da una certa vena di innocenza che la renderà quasi infantile nella sua dichiarata semplicità.

L’elemento ludico è infatti il catalizzatore di questo parto della sua mente. Per il regista è venuto il tempo di abbandonare quella particolare visione negativa rispetto all’ignoto che un certo cinema di genere continuava stancamente a trascinarsi appresso.

Il giovane Spielberg si distanzia (…per poi farvi ritorno!) dagli ultracorpi di SIEGEL e dagli alieni cattivi raccontati sulla carta da WELLS. E non sarà la rivoluzione di un giorno ma la base solida su cui poi poggeranno lavori come E.T. e Storie Incredibili.

Nel contempo, dimostra non poco carattere nel rifuggire quel formalismo d’autore rincorso da molti artisti del suo calibro: è la scelta coerente di un appassionato che non intende elevarsi al di sopra dello spettatore, ma che preferisce stupirlo e divertirlo. Lo dimostrano i 4 premi oscar per gli effetti speciali vinti dai suoi film.

Del resto troverà tempo negli anni a venire, complice una maggiore esperienza, per dilettarsi in un cinema d’essai, senza mai rinnegare le proprie origini.

D’altro canto c’è anche chi crede, ed è in nostro caso, che Spielberg abbia trovato la sua Damasco proprio nell’intensa semplicità di un padre di famiglia che gioca col cibo nel piatto e si diverte ancora coi trenini elettrici… e forte si insinua l’idea di un parallelismo del regista che gioca con le immagini.

Trascende poi da ogni possibile significato l’emozione suscitata dalla stanza di un bambino che si anima di vita propria, i giocattoli escono dagli scaffali e il film inizia a volare alto proprio quando l’alter ego del regista, il piccolo Barry, si prodiga nel dar la caccia a robot e soldatini.

Pare quasi che la mano esperta del giovane regista sia guidata da Esopo: è il cinema delle favole, con le stelle a ricordarci che forse stiamo sognando, poiché il sogno più incredibile è celato in “quei grandi” che non temono l’ignoto, anzi, lo rincorrono con la curiosità di chi scopre il mondo per la prima volta. E quando gli adulti sono capaci di ricordare d’essere stati bambini, quando il dualismo buoni e cattivi per una volta non ha ragione d’esistere e per comunicare si preferisce la musica al posto delle parole, è incontrovertibile il fatto che sia giunto il momento di farsi un nodo al fazzoletto.

È un gran peccato constatare solo ora in pieno quale enorme rilevanza – da ricercare prettamente all’interno di una chiave di lettura contenutistica – Incontri ravvicinati abbia acquisito alla luce degli eventi che hanno segnato questo inizio secolo; visto in questo nostro presente da occhi vergini, fa pensare ad una pellicola venuta da un altro mondo.

Il fantastico o fantascientifico non è reso manifesto tanto dall’alieno amico che passa per una visita di cortesia… Il mitologico è celato nuovamente nell’anacronismo dell’uomo che guarda al cielo senza timore, oggi che l’alieno fa troppa paura, è troppo umano ed è di questo pianeta; oggi che purtroppo anche il piccolo Barry/Steven sembra essere cresciuto, sembra aver dimenticato d’essere stato bambino e di aver avuto il coraggio per anni di restare con la testa tra le nuvole.

Ma, come diceva Sant’Agostino, “l’inquietudine caratterizza il cuore del nostro cuore”, ed è questa l’ipotesi più ottimista alla quale ci atteniamo.

D’altro canto potremmo pensare che Spielberg, come spesso accade, abbia perso nel trascorrere degli anni un po’ della sua originaria innocenza, per cedere il passo con La guerra dei mondi a quel vecchio dualismo alieno buono/cattivo un tempo accantonato. Forse non sarebbe del tutto errato azzardare un suo accostarsi ad un cinema di stampo palesemente hollywoodiano con tutto ciò che questo avvicinamento comporta.

Ma in onore di quel nodo al fazzoletto e di un regista bambino, resta eterno e marchiato a fuoco, passando per gli occhi e per le nostre orecchie fino al cuore, un finale imperituro, costruito magistralmente in un crescendo emotivo al pari del Bolero di Ravel.