Il dottor Powell è uno psichiatra di grande competenza che trascura la famiglia per il suo lavoro. Esercita in un ospedale, tra l’ammirazione e lo scetticismo dei colleghi, inclini a risolvere qualsiasi problema ricorrendo a psicofarmaci. Un giorno incontra un nuovo paziente, un uomo in stato di fermo alla stazione dalla polizia che lo ha scambiato per un delinquente. Privo di documenti, l’individuo racconta di chiamarsi Prot e di essere un alieno proveniente dal lontano pianeta K-PAX, nella costellazione della Lira. A suo dire, sarebbe capace di viaggiare a velocità superiori a quella della luce, sfruttando i raggi luminosi che solcano la galassia. Ovviamente viene considerato pazzo, tuttavia solo alcuni grandi scienziati sono a conoscenza del pianeta che lui ha indicato, e dei suoi soli gemelli; inoltre Prot non ha reagito alla somministrazione di alcuni farmaci, dimostra di possedere uno spettro visivo più ampio di quello degli esseri umani, ed è assai intelligente e carismatico. Incuriosito dal mistero rappresentato da questo strano paziente, il dottor Powell decide di occuparsi del caso, e, ricorrendo all’ipnosi, scopre che Prot potrebbe avere alle spalle un passato tragico…
K-PAX – Da un altro mondo è un film d’atmosfera tutto incentrato sulle interpretazioni di Kevin Spacey (Prot) e Jeff Bridges (Powell), che sorreggono una trama dai presupposti inconsueti. L’incipit è davvero originale, lo sviluppo alterna momenti di toccante fantascienza intimista a spunti da dramma ospedaliero e a meno riusciti momenti d’indagine poliziesca. Le parti migliori sono quelle in cui l’alieno parla di sé e del suo mondo, nel quale riprodursi è un atto doloroso, non esistono famiglie ma una società che alleva i propri giovani, e si viaggia grazie alla luce. Le sequenze dell’arrivo di Prot, o della sua partenza, quelle in cui rivela le sue fobie, il terrore scatenato da una pompa di irrigazione, la volontà di partire all’alba del 27 luglio sono davvero suggestive. La trama gialla fa invece meno presa, forse perché giunge a due terzi della pellicola, quando le anomalie fisiche di Prot sono state tutte rivelate e ci si attende una spiegazione chiarificatrice che non strida; o, più probabilmente, perché il film ha un suo carattere intimista, e le indagini, per essere davvero convincenti, richiederebbero di accantonare l’introspezione in favore di inquadrature meno tradizionali, un montaggio più serrato, e qualche colpo di scena. Invece lo stile della narrazione resta lo stesso, e la lentezza grava sugli eventi. Anche la pregevole fotografia dà il suo meglio sfruttando i giochi di luce e di ombra, ed è valorizzata da un montaggio lento. Con buona pace di quanti si aspettano dispiego di effetti speciali, regna il minimalismo e il film sembra quasi una piece teatrale trasformata in pellicola.
Il soggetto è intrigante, anche perché lo spettatore non giunge mai a una verità inconfutabile: se l’alieno fosse solo un uomo che avesse rimosso un evento traumatico, male si spiega come mai conosca nozioni tanto complesse sulla galassia, o abbia valori fisiologici diversi da quelli dei terrestri. Neppure l’epilogo risolve del tutto i dubbi, perché la letteratura e la cinematografia di genere ci hanno abituati a vicende di alieni che sfruttano un corpo umano e attingono a una parte dei ricordi dell’essere replicato, come il dolce alieno di Starman, o quello de L’uomo che cadde sulla Terra, fino al Piccolo Principe che lascia il corpo nella sabbia del deserto per tornare nel suo mondo.
La trama ha qualche cedimento nella parte conclusiva, e per questo può deludere, anche se offre spunti di riflessione sulla società. La scelta di mostrare i malati di mente secondo stereotipi cinematografici può dispiacere; la mancanza di realismo è di certo voluta, poiché alcune situazioni sono troppo dolorose per venire rappresentate, e soprattutto, distoglierebbero l’attenzione dai protagonisti. Come nei migliori B-movie, la denuncia dei problemi sociali viene contrabbandata: il film resta una pellicola di genere, le idee passano in modo subliminale. Si rivelano le insufficienze del sistema sanitario americano, afflitto da carenze di personale, da ristrettezze economiche. Si fa luce sull’inadeguatezza dei reparti psichiatrici, che rinchiudono a vita anche persone innocue. Forse per mancanza di terapeuti, o per abito mentale ormai radicato, ogni problema viene affrontato con farmaci, senza ascoltare i malati, senza la prospettiva di vederli un giorno guariti. Se poi un paziente scompare, effettuate le minime ricerche in ospizi e ricoveri per barboni, nessuno pare più curarsene.
Può sembrare strano che uno psichiatra possa permettersi di seguire un caso in particolare, soprattutto se il paziente è uno sconosciuto qualsiasi, privo di documenti e di assicurazione sanitaria. Probabilmente Powell crede che Prot sia uno caso di quelli che rendono popolari i terapeuti, trasformandoli in guru. Né fa migliore figura la polizia: arresta e trattiene le persone senza accertarsi dell’effettiva colpevolezza, oppure getta la spugna cercando di evitare complicazioni, come il funzionario che racconta a Powell i tragici fatti avvenuti, e chiede di soprassedere. La richiesta è ragionevole, poiché non ci sono eredi diretti che avanzano diritti sui beni delle vittime, e la giustizia può far troppo oppure troppo poco, nei confronti di un malato di mente. Gli Stati Uniti si rivelano come una Nazione che viaggia verso il domani con velocità diverse, ha una facciata di modernità, pare incarnare il progresso, e allo stesso tempo rivela i suoi limiti. La fragilità dei legami interpersonali, la superficialità dei rapporti umani, la velocità con cui si può far fortuna oppure perdere tutto, lo smarrimento dell’identità degli individui, la giustizia legata alla vecchia legge del taglione appena appena rivisitata… sono temi profondi, che la pellicola affronta con i toni lievi di un film di fantascienza.
E che dire dell’asettico mondo di Prot? Paradisiaco, forse: K-PAX è un’ utopia anarchica realizzata in modo completo ed evoluto, pervasa da una profonda malinconia. In quell’Eden galattico nessuno si mette in catene da solo, asservendosi a ideologie definite o affetti familiari, però nessuno è indispensabile per davvero, nessuno vive il distacco con dolore. Una visione che forse potrebbe piacere ad alcuni buddhisti, ma per la mentalità di un occidentale del terzo millennio può risultare troppo estrema. Chissà cosa ne pensa il dottor Powell, quando nella sequenza conclusiva guarda il cielo stellato…
Ovviamente la pellicola non pretende di dare risposta agli interrogativi, li pone e spera che gli spettatori trovino il momento giusto per rifletterci su.