Kuroneko

Kuroneko

L’immaginario nipponico è pervaso di mostri; dagli youkai, o bakemono, ai più moderni Gamera o Gojira (Godzilla), dai classici oni e demoni ad animali mostruosi come lo ushi-oni (tanto per non citare il solito bakeneko), dagli esseri umani deformi (noppera-bou, futa-kuchi-onna…) agli oggetti animati (bake-zouri, kasa-obake ecc.) ai fenomeni meteorologici. Molti (me-kurabe, yobuko…) derivano dalla religione primigenia della regione, che confluì nello shintoismo, mentre altri (come kirin e shoujou…) furono importati dal continente in commistioni e varietà che lasciano stupefatti.

E così, è naturale che anche l’arte nipponica sia pervasa di mostri. Se anticamente a rappresentarli c’erano le opere di Toriyama Sekien e Sei Shounagon o i dipinti di Hokusai, più recentemente sono stati i manga e gli anime a rivisitarli in chiave moderna. Tra le rappresentazioni più ‘colte’ possiamo annoverare anche e soprattutto pellicole d’autore come Onibaba – Le assassine e Kuroneko, entrambe a firma del maestro Kaneto Shindo, scomparso nel 2012 alla veneranda età di cent’anni.

Kuroneko (Yabu no Naka no Kuroneko, 1968) è una storia di fantasmi che s’ispira vagamente a una famosa leggenda popolare chiamata ‘La Vendetta del Gatto’, mettendo però l’accento sui concetti di fato e karma. Il racconto, molto semplice, è ambientato durante il Medioevo giapponese. Questi elementi, insieme all’uso di uno splendido bianco e nero e di una colonna sonora originale e sperimentale, e al fatto che i personaggi principali siano due donne e un uomo, accomunano il film al succitato Onibaba. Se una differenza si può trovare, trama a parte, è forse nel tocco più ‘espressionista’ e sovrannaturale di Kuroneko laddove Onibaba è più legato a tematiche sociali all’avanguardia (comunque presenti in entrambi i film), e nell’ambientazione claustrofobica del primo in contrasto con gli spazi aperti del secondo; anche in Kuroneko, comunque, la natura contribuisce non poco all’atmosfera oscura del racconto.

Yone e sua nuora Shige vivono sole al limitare del bosco, nella campagna di Kyoto, da quando Gintoki, il marito di Shige, è partito per la guerra. Un giorno alcuni soldati di passaggio si introducono in casa loro per razziare del cibo, le stuprano brutalmente e, prima di andarsene, incendiano tutto. Arse vive mentre sono prive di sensi – memorabile la scena in cui il gatto nero di casa, rimasto solo, lecca le ferite sui loro corpi ormai senza vita –, le due donne stringono un patto con una divinità malvagia e si trasformano in ‘kuroneko’, spiriti vendicativi con l’aspetto e le abilità di un felino (kuroneko è la contrazione di kuroi e neko e si può tradurre come gatto nero). Dal tramonto all’alba le due donne possono tornare sulla terra sotto forma di fantasmi, con l’aspetto di donne nobili (anziché popolane come furono in vita), a patto che uccidano tutti i samurai di passaggio e si nutrano del loro sangue. Da quel momento, ogni notte, nei pressi della porta Rajomon, la bella Shige, pallida e spettrale in un lungo kimono bianco, attende i samurai al varco e, con il pretesto di farsi scortare per un tratto di strada molto pericoloso, un bosco di bambù frequentato da banditi e vagabondi, li conduce fino a casa, da dove nessuno di quegli uomini riesce mai a uscire vivo. Poiché tutto fa pensare all’opera di uno spirito, il governatore decide di mandare un suo uomo a ucciderlo, un eroe appena tornato dalla guerra. Ed ecco che il destino si compie: quest’uomo, ribattezzato Yabu no Gintoki, è proprio il marito di Shige nonché figlio di Yone. La missione, dunque, si rivela nient’affatto semplice, e assume i toni del dramma.

Non si può negare che gran parte del fascino di Kuroneko derivi dalle sue atmosfere notturne, sepolcrali. Dopo la scioccante (anche se solo accennata) scena di violenza all’inizio del film, il mood si fa onirico e rarefatto (soprattutto quando (ri)esplode la passione romantica tra marito e moglie), così come del resto si confà a un film di fantasmi. Se l’opera precorre di qualche decennio le tematiche di più recenti pellicole di genere, lo fa in maniera sottile, suggerendo piuttosto che mostrando, e con atmosfere del tutto diverse: dialoghi, recitazione, costumi e ambientazione, tutto contribuisce a conferire un’eleganza senza tempo mutuata dal teatro classico giapponese. Il film funziona proprio a questo livello: senza cercare di risultare realistico, il regista si preoccupa solo di colpire l’immaginazione.

Per apprezzare appieno tutto questo bisogna tenere bene a mente sì il contesto storico in cui si svolge la vicenda narrata, ma anche la mentalità giapponese; non ci si stupisca quindi del senso di irrealtà generato da alcuni dialoghi, né dal ritmo piuttosto lento e ripetitivo di alcune scene. Per il Giapponese c’è bellezza nella contemplazione: è questo il senso di riti, anche quotidiani, approcciati con precise regole formali, come la famosa cerimonia del tè.

Degrado spirituale, sofferenza, pietà e orrore, amore e dovere, fedeltà e voglia di rivalsa: tutto questo trova ampio spazio all’interno di Kuroneko. Lo sguardo di Shindo è però fondamentalmente pessimista. Il fulcro è il conflitto interiore irrisolvibile che avviluppa i tre protagonisti; mentre Gintoki, nato povero e catapultato quasi per caso nel dorato mondo dei samurai, per mantenere la sua posizione sociale e la sua onorabilità deve uccidere le due persone che ama di più al mondo, le due donne a loro volta devono contrastarlo per sopravvivere, senza oltretutto potergli rivelare il motivo che le spinge a compiere quegli orrori. La moglie, il personaggio di gran lunga migliore, decide di rompere la spirale di violenza e per questo paga un prezzo altissimo. È inevitabile quindi che la lotta si articoli soprattutto tra Gintoki e sua madre, colei che gli ha prima dato la vita e poi è condannata a togliergliela. Una velata critica ai rapporti filiali nella tipica famiglia giapponese, rigidamente sorretti più da una peculiare forma di pietas che non, banalmente, dall’amore? Forse no, ma mi piace pensarlo.

Prima di tutto, però, viene il tema della vendetta così caro a tanta cinematografia giapponese; vendetta che non è solo quella delle donne che subiscono angherie dagli uomini, ma anche quella delle popolazioni che devono sopportare la guerra e le sue devastazioni, e soprattutto quella delle classi sociali più deboli vessate dai nobili e dai samurai in cambio della loro ‘protezione’ (realtà magistralmente simboleggiata dalle vittime di Shige che, sotto la patina del samurai onorevole, una volta ubriachi svelano una natura meschina, cinica e violenta).

Per questo la scelta del gatto (spesso randagio o mal sopportato dall’uomo) come metafora è quanto mai azzeccata. Intervistato in proposito, Shindo affermò: “I liked the idea of using the cat because I could thus express the very low position in society which certain people occupy by using so useless and low an animal as the cat”.

E pensare che presso molte culture antiche i gatti venivano idolatrati; nell’antico Egitto questa venerazione giungeva a tal punto che, alla loro morte, le loro spoglie venivano addirittura mummificate e poi seppellite in appositi cimiteri. Fa effetto pensare che nel tempo questo animale sia universalmente diventato oggetto di superstizione. Dall’Europa all’America, all’Asia, non c’è praticamente Paese che non abbia una leggenda riguardante i gatti, preferibilmente neri. Il gatto è animale indipendente e fiero, con il dono di poter andare e venire senza preavviso, quasi scomparendo. Capacità invidiabili, certo, e per questo tanto più sospette e temute. Da qui a considerarle doti luciferine il passo fu breve: l’isteria di massa nata con la caccia alle streghe, dapprima in Inghilterra e poi nel resto d’Europa con l’Inquisizione, e poi in America con la famigerata vicenda delle streghe di Salem, fece identificare i gatti, soprattutto se neri, con le streghe, per via della supposta capacità di quest’ultime di assumere forma felina durante la notte. Nella migliore delle ipotesi i gatti divennero simboli di falsità e forieri di sventura, nella peggiore compagni del Demonio, da cui ottenevano poteri occulti. Per fortuna, i gatti hanno sette vite (da noi, altrove anche nove) e sono sopravvissuti al (reiterato) tentativo di sterminio. Bisogna comunque dire, per dovere di cronaca, che non tutte le superstizioni sui gatti ne danno un’immagine così negativa.

Anche in Giappone il gatto è un tema popolare ricorrente. I Giapponesi preferiscono il loro gatto nativo (il bobtail, dalla caratteristica coda corta) perché lo ritengono meno propenso a stregare gli esseri umani, mentre sulle navi giapponesi i marinai ospitano gatti tricolore perché pensano che portino fortuna. In generale, in Giappone avere un gatto a bordo attira la buona sorte, e nessuno si sognerebbe mai di gettare un gatto a mare perché si crede che ciò provocherebbe una tempesta. A questa particolare superstizione si deve la diffusione, tanto nelle case quanto negli esercizi commerciali, di quelle graziosissime statuine in porcellana o ceramica chiamate maneki neko o ‘gatti della fortuna’.