Prendere o lasciare: la reazione di chi si accosta per la prima volta a Stephen King generalmente è di rifiuto completo o… fedeltà totale. Un colpo di fulmine che induce poi a comprare immancabilmente tutto quello che porta la firma King: manuali di scrittura, romanzi, raccolte; comprese quelle opere – sempre più frequenti da qualche anno a questa parte – che si “avvertono” meno belle e senza più la grinta della prima produzione.
L’Acchiappasogni rientra quasi certamente in quest’ultima categoria. Scritto dopo il terribile incidente che nel 1999 quasi costò la vita a King, ci mostra un autore in bilico tra lo sforzo di confermarsi “quello di sempre” e l’inizio di una lenta discesa delle sue capacità creative.
Stephen King è tutt’altro che uno scrittore perfetto. I suoi libri alternano punte eccezionali a disastri che fanno cadere le braccia al più affezionato dei lettori. Ma la sua particolare zampata, quella capacità cruda di mettere a nudo i sentimenti più impensabili, una volta assaggiata non si scorda più. Cosa resta di tutto ciò in quest’opera che riprende, dopo una lunga pausa, l’argomento Alieni? Temi ricorrenti di altri romanzi più spettacolari, riferimenti, come sempre, marcatamente autobiografici, e soprattutto lo sforzo di scavare all’interno dell’animo umano, mettendo alla luce la “metà oscura” sepolta in ognuno di noi. Ma l’obiettivo, in Dreamcatcher, è solo sfiorato. Non c’è un motivo identificabile, o un difetto preciso su cui puntare il dito. Semplicemente, si avverte che quel qualcosa di particolare che forava le pagine, qui se n’è andato.
L’acchiappasogni è un amuleto a forma di ragnatela, composto da piume colorate e fili intrecciati. Presso gli Indiani d’America rappresenta un talismano potente, capace di catturare nella sua rete le visioni mostruose che giungono ad insidiarci nel sonno. Il valore simbolico del titolo diventa evidente a mano a mano che si procede nella lettura. La trama del racconto, per chi conosce King, si riassume in poche parole: Derry, la città dai mille angoli oscuri di It e Insomnia, quattro protagonisti legati da qualcosa di magico, e il Nemico, l’alieno di Tommyknockers e di Cell, questa volta visto “molto da vicino”.
Pete, Jonesy, Henry e Beaver sono ragazzini di Derry, stato del Maine, che un giorno si trovano insieme a fare qualcosa che li segnerà per sempre, nel bene e nel male: affrontano un gruppo di teppistelli per salvare il piccolo Duddits, un fragile bambino down che ricambia la loro amicizia condividendo con loro un dono… molto particolare.
Poi i quattro ragazzi diventano uomini, inevitabilmente si allontanano e quasi dimenticano chi e cosa li aveva resi tanto speciali, ma continuano a ritrovarsi ogni inverno per la tradizionale caccia al cervo, nelle foreste del New England. Fino ad un’ultima, fatidica volta, in cui tutto comincia ad andare terribilmente storto, e da cacciatori divengono prede di qualcosa di Estraneo sbarcato sulla Terra.
In piena atmosfera X-Files, la lotta fra terrestri buoni, terrestri cattivi, extraterrestri cattivissimi e anche disgustosi, è senza quartiere. Un’infezione aliena accompagna questi fratellastri di ET, e avanza coprendo uomini, animali e cose con una letale muffa rossa; essa provoca, quando ingerita, il parto contro natura di parassiti enormi e affamati, con dentatura alla Alien e capacità riproduttiva di conigli australiani. Non a caso l’organismo responsabile (un fungo) viene chiamato Ripley, per la gioia di Sigourney Weaver. Ma questa è solo la truppa a piedi. Il corpo scelto, il cervello diabolico, è l’Uomo Grigio, dai grandi occhi neri e spenti, accompagnato dal suo esercito d’invasione che si chiama, oltre che Infezione Mortale e Mostri Carnivori, anche Dominio Telepatico.
Mr Gray, l’unico alieno sopravvissuto al disastroso schianto di un’astronave all’inizio della vicenda, non è però il solo incubo con cui l’umanità deve fare i conti. Infatti, contro la minaccia aliena viene inviato l’esercito degli Stati Uniti, o meglio una sua sezione speciale comandata dal colonnello Kurtz, il cui nome e le cui azioni rievocano sinistramente un altro Kurtz di Hollywoodiana memoria. E le scene di sorvolo del relitto extraterrestre da parte degli elicotteri richiamano in modo inquietante quella certa atmosfera persa nella nebbia di Apocalypse Now. Il grido lamentoso dei superstiti alieni, “Non c’è infezione qui! Il n’ya pas d’infection ici!”, si spegne nel fuoco del napalm. O del fosforo bianco, per essere al passo con i tempi.
Un combattimento su vari fronti, quindi, in cui le vittime sono numerose: il nemico verrà fermato grazie al legame ESP dei protagonisti, ma il prezzo da pagare sarà molto, molto alto.
Quando la Sci-Fi si mescola all’horror nelle mani di un autore come Stephen King, il risultato è anomalo e caratteristico allo stesso tempo. Quello che ne esce, è un’atmosfera che va al di là del semplice horror, della fantascienza tradizionale, o anche del fantasy classico. Qualunque sia il tema, è particolare il modo che ha l’autore di svelare un universo di paura appena dietro la porta di casa, (Matheson docet), attraverso indizi dapprima inquietanti, poi via via sempre più raccapriccianti, fino allo splatter.
Il linguaggio usato è gergo da strada, quello che si parla tra amici stretti o che si mormora tra i denti, sicuri che non ci senta nessuno. Difficilmente il vocabolario di King riscuoterebbe l’approvazione di Monsignor della Casa. Per dirne una: SMAG è la parola d’ordine tra i quattro, e significa “stessa merda, altro giorno”; ma, nonostante le espressioni molto “folk” e le immagini esplicite – o forse proprio per questo (l’autore stesso commentando il suo romanzo dice “dopo averlo letto, nessuno riuscirà più ad entrare in bagno tranquillo”) –, qui il Chud con il lettore non riesce. La trama è quella che il kinghiano affezionato desidera con trepida aspettativa, ma evidentemente l’esperienza traumatica vissuta dall’autore, che al pari dei suoi amati personaggi può dire di aver visto la morte in faccia, ha lasciato un segno evidente e per nulla mimetizzato: uno dei temi preferiti di King, vale a dire il passaggio difficile dall’adolescenza all’età adulta, viene presentato con una malinconia nuova, quella che nasce quando il passare degli anni trasforma i ricordi in nostalgia. E quando, magari, ci si rende conto che il tempo delle canne e dell’alcool è finito.
I ragazzi di It, nell’Acchiappasogni, diventano “perdenti” veri. Non c’è più quella possibilità di fuga verso un futuro migliore, presente in Stand by me (The Body), né le esperienze vissute servono a quella maturazione che permette di affrontare la vita con l’animo un po’ più temprato, come in Cuori in Atlantide. E le armi della piccola Charlie, l’Incendiaria, sono nelle mani poco raccomandabili dei militari.
I quattro di questo romanzo, comunque, sono ancora quello che King chiama ka-tet: “Uno che viene da molti”, per dirla con le parole di Roland (La Torre Nera). È il gruppo unito dal destino che trae forza da se stesso, come i pezzi di un puzzle capaci di formare insieme un disegno particolare, finalizzato ad uno scopo.
Per i protagonisti di Dreamcatcher, il potere è la capacità di “vedere la linea”: percepire quello che gli altri pensano e sentirsi legati telepaticamente nei momenti difficili, come un acchiappasogni vivente. Il centro del quale, però, è ancora Duddits, imprigionato nella sua eterna infanzia, che si unisce ai vecchi amici nello scontro conclusivo.
Il tema quasi di riscatto, che attribuisce ad un ragazzino menomato fisicamente, psichicamente o relazionalmente dei poteri particolari capaci di compensarne la diversità, risale all’alba della scrittura di King: basta pensare a Unico indizio la luna piena, ormai introvabile, in cui l’eroe protagonista è sulla sedia a rotelle.
Attraverso numerosi flash-back, la trama del racconto s’intreccia su se stessa come le volute dell’amuleto, arrivando convulsamente al finale. I due sopravvissuti del ka-tet originario ritornano ad una vita, se possibile, “normale”, e attraverso loro, nell’ultimo capitolo ci si affanna a spiegare i significati reconditi di ciò che sarebbe già dovuto arrivare al lettore durante le oltre seicento pagine del libro. Un epilogo che forse rivela l’insicurezza circa la trasmissione del messaggio, insicurezza avvertita (e questo è grave) dallo stesso autore.
Tuttavia, alla fine, un interrogativo strisciante resta: quale parte dell’inferno arriva dal cielo, e quale è già qui, sulla terra?