Non siamo solo carne, secondo Darren Aronofsky: lo spirito di Thomas Creo, protagonista di The Fountain – L’Albero della Vita (2006), sopravvive nei secoli; si reincarna in un conquistador spagnolo, in un medico del terzo millennio, in un astronauta del lontano futuro diretto verso la misteriosa nebulosa di Xibalba.
Thomas Creo in viaggio tra le stelle medita, rivive le sue esistenze passate. Mentre percorre i ricordi, acquisisce maggior consapevolezza di sé, si avvicina alla compiutezza del proprio essere. Da conquistador, lascia la Spagna per il Nuovo Mondo, alla ricerca del biblico Albero della Vita; come medico, cerca una cura per guarire la moglie condannata da un tumore cerebrale. La narrazione dei tentativi e dei fallimenti s’intreccia per poi confluire nella suggestiva conclusione. Il tema dominante è la ricerca dell’immortalità; Creo attraversa i secoli per sfuggire alla morte: quella del suo regno minacciato da un inquisitore, o quella della persona cara. Nel suo cammino riflette e matura, fino ad accettare l’incompiutezza della natura umana, ed è in quel momento che potrà giungere all’illuminazione. Ricorda le esperienze del passato, e finalmente può fondersi con l’Assoluto, simboleggiato dall’Albero.
È difficile proporre al cinema temi filosofici senza a trasporli nel concreto in modo sovente inadeguato, o ricorrere ad allegorie non sempre comprensibili. Aronofsky prova a esprimere il desiderio di eternità attraverso vicende terrene: la missione del conquistador, la disperata storia d’amore tra Creo e Isy, la meditazione dell’astronauta. L’impresa dello Spagnolo ha ben poco di epico, è storicamente errata e manca degli stereotipi classici del genere avventuroso e d’azione; la struggente vicenda contemporanea non ha quasi nulla da spartire con certe pellicole strappacuore; la riflessione dell’astronauta, esemplificata con movimenti di arti marziali e yoga, descrive un viaggio interiore piuttosto che un’esplorazione della realtà esterna. Le tre vicende sono varianti di un’unica storia, che si ripete, un pretesto per meditare sulla natura dell’essere umano, tanto senziente quanto limitato.
L’uomo si protende alla ricerca dell’eternità, ma più nega la morte e più si allontana dalla vita, come dimostra il Creo dottore che si chiude in laboratorio gettandosi a capofitto in esperimenti sulle scimmie, anziché restare accanto alla donna che ama per renderle migliori gli ultimi giorni di vita. Accanirsi contro la finitezza, desiderare l’immortalità diviene una condanna, porta a smarrire il senso stesso della vita, impedisce il godere delle gioie quotidiane.
Il regista non crea un clone di Love Story rivisitato dalla spiritualità New Age, usa semmai stereotipi dei lacrima movie per esemplificare una riflessione filosofica. Per dare forma al dilemma della vita, la cui risposta quella affidata a Isy che si rassegna al proprio destino di creatura, il regista ricorre a simboli e miti tratti da varie culture, mescolandoli. L’Albero della Vita appartiene alla tradizione biblica. Secondo la Genesi 2:9: “Così il Signore Dio fece crescere dal suolo ogni albero desiderabile alla vista e buono come cibo e anche l’albero della vita nel mezzo del giardino e l’albero della conoscenza del bene e del male”. Per esprimere la ciclicità delle vite Aronofsky ricorre poi ai miti dei Maya e alla cultura orientale. I popoli del Centro America credevano che il mondo attraversasse periodi ben scanditi, che si chiudevano con una distruzione a cui seguiva una rinascita. È un concetto presente anche nei testi induisti del quinto secolo avanti Cristo, ed è stato reinterpretato anche nel nostro secolo, da pensatori quali Nietzsche e da scienziati interessati all’espandersi e all’implodere delle galassie. Alcune correnti del buddhismo tibetano prevedono che l’anima torni a vivere in nuovi corpi, nel presente, nel passato, nel futuro e addirittura in altre dimensioni diverse dalla nostra. La reincarnazione è un’idea non estranea neppure a Platone, espressa in modo più esplicito da Plotino, e, tanto per tornare al pensiero occidentale, si ripresenta in Virgilio: Enea scende nell’Ade e trova un gruppo di anime destinata a una nuova vita.
Aronofsky sceglie di unire tradizioni tanto diverse per dare un fondamento universale alla sua riflessione. Qualsiasi siano le radici culturali dello spettatore, o il suo credo, ci sono elementi in cui rispecchiarsi e archetipi da ritrovare. Il sincretismo può tuttavia lasciare perplessi, anche perché è tradotto in immagini di gusto New Age traboccanti effetti speciali. Per quanto gli artifici della grafica digitale siano funzionali alla storia, possono risultare stucchevoli e fini a sé stessi, se visti con occhio distratto e animo poco preparato a dissertazioni filosofiche. A proposito: si citano culti e credi, ma l’amalgama ricorda più la magia che la religione o la filosofia.
È facile allora, per gli spettatori più scettici, farsi vincere dalla noia, sorridere davanti allo schermo. Comprensibili i fischi ricevuti alla Mostra del Cinema di Venezia, o il flop al botteghino. Nonostante le pecche, la pellicola ha però un enorme pregio: richiede riflessione, rifiuta le emozioni a buon mercato, rispecchia la babele di miti e simboli del mondo post moderno.