L'Arcano Incantatore

L’Arcano Incantatore

Il Maligno non si fa servitore, se non per essere Maestro… E che maestro! Capace di spingere il cinema italiano, troppe volte additato di codardia, verso una terra delineata da particolari stilemi, lontana dal vasto pubblico.

Se PUPI AVATI veste i panni del maligno, in senso buono, la campagna italiana (quella umbra in particolare) è il piccolo inferno entro il quale la cinepresa si muove con sapienza. Poiché è proprio la piccola realtà rurale del XVIII secolo il teatro delle oscure vicende narrate in prima persona dal giovane protagonista Giacomo Vigetti (interpretato da STEFANO DIONISI), seminarista nella Bologna dello Stato Pontificio, colpevole di aver fatto abortire una giovane impagliatrice di sedie.

Il suo progressivo allontanamento dalla fede ha inizio con un oscuro patto sigillato col sangue al cospetto di una misteriosa fattucchiera dal volto nascosto. Ella gli promette la salvezza dal tribunale dell’Inquisizione a patto che si rechi presso la dimora di un monsignore spretato, Achille Sanuti (CARLO CECCHI), denominato l’Arcano Incantatore.

L’enigmatico studioso ha trovato rifugio da tempo immemore presso un castello in un bosco dell’Appennino, e per anni è stato assistito nel portare avanti il suo oscuro operato dal fedele scritturale Nerio.

Giunto a destinazione, Giacomo comprende che il suo compito sarà quello di prendere il posto dell’ormai defunto Nerio. Trascorrerà lunga parte del proprio tempo immerso nella penombra dell’immensa biblioteca del monsignore, da questi voluta come “un veliero dal cui albero maestro si dipartono i testi sull’origine della vita, per scendere sempre più verso il buio, verso il territorio seducente della morte”.

Sebbene caratterizzati da due indoli in contrapposizione tra loro, da un lato il monsignore riservato e taciturno e dall’altro Giacomo, curioso ed esuberante, questi paria dello spirito legheranno quasi subito, mossi da un reciproco bisogno, di natura vitale: per il secondo il conforto di un rifugio sicuro, per il primo l’aiuto indispensabile al fine di portare avanti la propria causa, la cui natura rimane oscura.

È proprio il protagonista a soffrire di quest’aura mistica di cui il suo padrone è portatore. Giorno dopo giorno, i quesiti senza risposte aumentano, alimentati dalle voci che girano entro le mura del convento di suore laiche presso cui Giacomo si reca al fine di provvedere alle prime necessità e al pane quotidiano. Questo continuo peregrinare, animato da incontri anomali in una campagna desolata e caratteristica, disegna un quadro sempre più tetro dove il defunto Nerio acquisisce le parvenze del maligno, descritto come uno stregone, abituato ad azioni diaboliche e riti malefici.

Incerto se credere o meno a così tante voci di paese, il giovane scritturale rivolge i propri interrogativi al monsignore. Trapela che il fu compare di Achille era possessore di un tomo malefico, la “Pseudomonarchia dei Demoni”, ed era solito dedicarsi ad incantesimi di evocazione.

Nel contempo, un ulteriore compito viene affidato a Giacomo dal suo signore: una missione la cui segretezza è fondamentale. Si tratta di scrivere e consegnare a una donna della campagna vicina delle missive dettategli da Achille stesso, pagine e pagine di messaggi cifrati, basati su un’opera letteraria che egli custodisce gelosamente. Il vero destinatario delle lettere è ignoto, come del resto è sconosciuto il titolo di quel particolare libro.

L’atmosfera tra le mura della tenuta si colora di tinte ancor più cupe quando la calma notturna viene puntualmente spezzata da accadimenti surreali: voci sinistre, bicchieri che volano in frantumi, pipistrelli e corpi femminili che si materializzano come per magia.

Le pressanti insinuazioni che descrivono Achille come un folle evocatore del Demonio si fanno strada nell’animo tormentato del giovane Vigetti, alle cui tribolazioni si aggiungeranno presto i ricatti del Sant’Uffizio giunto ormai sulle sue tracce. In un’escalation di momenti orrorifici, nel tentativo di far luce sulle vicende che da troppo tempo funestano quei luoghi, Giacomo giungerà ad apprendere un’agghiacciante verità le cui conseguenze non gli lasceranno scampo alcuno.

Neppure lo spettatore trova via di scampo di fronte a un’opera tanto controversa come questa, che affianca scelte inattaccabili a grossolani errori di forma, dettati da una certa superficialità. È proprio il perfetto alternarsi di questi due poli agli antipodi che non ammettono né permettono la resa a uno spettatore confuso e meravigliato ad un tempo.

L’estrema lentezza, scandita da lungaggini quasi insopportabili, trova nell’affascinante intreccio narrativo l’antidoto più efficace. Come anche le straordinarie carrellate che ci immergono nell’oscurità del vecchio rudere, nell’enorme biblioteca in primis, sono la palese dimostrazione che in materia di scenografia e fotografia il cinema nostrano non ha nulla da invidiare a nessuno.

Concetto costantemente ribadito attraverso gli occhi di Giacomo e il suo vagabondare per la campagna romagnola (resa magistralmente dal set umbro), perfettamente ricostruita attraverso usanze, abiti, personalità e soprattutto ritualità. In esse si cela la vera mossa vincente di un horror all’italiana che non si vergogna di definirsi tale.

Avati sa benissimo di non essere in grado di offrire un prodotto di valenza internazionale: al di là di una vera e propria scuola carente a riguardo, sono i budget a legargli le mani. Astutamente scolpisce allora la propria opera guardando oltre un cinema di genere chiuso in sé stesso, lo arricchisce di un ingrediente inusuale: la ruralità, la campagna italiana. Come del resto aveva già fatto due decenni prima con La casa dalle finestre che ridono.

Un elemento talmente nazional popolare, questo cosiddetto provincialismo, così noto al vasto pubblico, veicola la trama ad un livello quasi di credibilità. Ed esso racchiude un complesso di elementi, quali le voci di paese, le credenze e le scaramanzie, che rendono l’opera intelleggibile su molti piani, in modo da non farla scadere nei cliché di quel cinema italiano che spesso tenta maldestramente di ricalcare gli stereotipi d’oltreoceano. Azzardando un po’ si potrebbe perfino designare Avati quale precursore di certe tematiche che da dieci anni a questa parte intasano le sale cinematografiche: la magia, il misticismo e un particolare interesse per l’occulto.

Peccato che le scelte coraggiose di un regista capace di farsi valere su più fronti non siano state ripagate a dovere: la programmazione televisiva non rende merito a questa pellicola da tempi incalcolabili, il mercato home video ne ha fatto perdere completamente le tracce, tanto da farlo diventare un piccolo cimelio da collezione, proprio perché il supporto ottico più all’avanguardia non vuole saperne di riportarlo in auge.

Permane un forte dubbio che solo i profondi conoscitori di certe tematiche possono cogliere: perché mai la scelta di basare i fondamentali della trama sull’opera anti-occultista Pseudomonarchia dei Demoni? Questo scritto, pubblicato in appendice al libro di un medico tedesco del Cinquecento, è solo in apparenza una presa di posizione demoniaca, in realtà l’intento dell’autore fu quello di ironizzare le credenze ecclesiastiche attinenti al maligno. Si tratta di un’analisi accusatoria in piena regola, atta a demolire ogni tesi concernente riti, cabalistica e maligno in genere. Non per niente l’autore, Johann Weyer, rischiò il rogo.

Che si tratti di una cosciente licenza poetica? L’interrogativo rimane, è pur tuttavia fuori discussione la suggestione che suscita anche il solo sentir nominarne il titolo. Se poi a farne menzione è la voce profonda e strisciante di Carlo Cecchi, l’equazione porta ad un risultato inappuntabile.

Nettamente superiore a quella di tutto il resto del cast, la sua performance attoriale rende in pieno le sfaccettature racchiuse nella figura del monsignore: la saggezza mista a delirio di onnipotenza, addirittura l’approdo all’ermafroditismo, fanno da corollario ad una figura che svetta ed eclissa il povero Dionisi, protagonista abbastanza monocorde e tutto sommato per niente toccato da morti che camminano e spiriti infernali.

Unico neo da imputare al più maturo comprimario è l’eccessivo sussurrare che finisce col rendere la recitazione appena un po’ ridondante; capita per di più che parti di dialogo risultino incomprensibili, cosa che non giova affatto ad una sceneggiatura già abbastanza intricata di per sé. La registrazione del suono in presa diretta ovviamente non aggiunge nulla di buono alla situazione. Massimo rispetto per il dogma avatiano che privilegia la naturalezza, benché incurante di un pubblico che in certi momenti si smarrisce suo malgrado.

La colpa è largamente espiata se una volta tanto, evitando qualsiasi metafora narrativa, il demonio si fa uomo, tangibile e terrificante nel suo essere presente nell’ordinarietà della vita quotidiana. Le paure ultraterrene divengono reali quanto l’ambiente stesso che ci fa da sfondo, e la consapevolezza che nessuna porta chiusa o fuga perpetua possa salvarci da questo incubo che non permette tregua, lascia presagire che se nessun luogo sicuro esiste sulla terra, che se il male esiste davvero, l’unica salvezza sia la morte. Lo testimonia Giacomo stesso, che in un finale da considerare sospeso solo in apparenza, resta vittima delle vicende trascorse, ormai segnato nell’intimo e incapace di redimere la propria anima colpevole d’essere scesa a patti col diavolo.