L'Inverno della Paura (A Winter Haunting, di Dan Simmons)

L’Inverno della Paura

Recensione

“Quarantuno anni dopo che ero morto, nel corso di un inverno molto rigido, il mio amico Dale tornò alla fattoria dove ero stato assassinato”.

Comincia così, senza alcun preambolo, L’inverno della paura: una voce narrante che i lettori del precedente L’Estate della Paura non pensavano certo di risentire. La sorte tragica del ragazzino Duane deve aver tuttavia lasciato l’amaro in bocca anche all’autore DAN SIMMONS che, a distanza di dieci anni, ha ripreso in mano il suo personaggio offrendogli una sorta di seconda vita e, in qualche modo, la possibilità di una rivincita.

Dale Stewart, poco più di cinquant’anni, è un uomo finito: niente più lavoro e niente più famiglia, entrambi persi a causa di una relazione extraconiugale miseramente fallita. Con un tentativo di suicidio alle spalle, spinto dal desiderio di fuga dal passato verso un posto dove rimettere insieme la propria vita e soprattutto sé stesso, decide di tornare nei luoghi della sua infanzia, e di affittare proprio la casa di Duane Mc Bride, da tempo abbandonata.

Sebbene Dale abbia dimenticato i tragici avvenimenti di quell’estate del 1960, nella quale lui e i suoi giovanissimi compagni si erano scontrati con un Male antico, i legami con il suo eccezionale amico prematuramente scomparso sono tutt’altro che recisi. Dale è attirato dalla vecchia fattoria in mezzo ai campi, chiamata ironicamente “l’Angolo Allegro”, per motivi che lui stesso non comprende del tutto: desidera realizzare ciò che Duane aveva iniziato, e cioè scrivere un romanzo sulla loro adolescenza.

Ma il passato è tutt’altro che spento. Nella vecchia cittadina di Elm Haven, ormai una sorta di sbiadita ghost town, gli spiriti non riposano in pace e oscure malvagità ristagnano ancora tra le case vuote, le piazze deserte, i campi coperti di neve.

Ciò che Dale cerca nel suo volontario isolamento è solo un po’ di pace, ma egli è tutt’altro che solo. I suoi demoni personali non lo hanno abbandonato, e attorno alla vecchia fattoria dei Mc Bride ruotano molte presenze: alcuni violenti skinhead locali – delle cui angherie diventa subito oggetto; vecchie conoscenze più o meno piacevoli che riaffiorano dal passato; strani cuccioli neri che scompaiono e riappaiono ogni volta più grossi. E, su tutti, la “voce” di Duane che si manifesta non attraverso un tavolino a tre gambe, ma con e-mail scritte su un computer scollegato e musica diffusa da radio senza transistor.

Duane non è un fantasma o un revenant della tradizione horror classica. Si definisce “qualcosa più di un ricordo e meno di una cosa viva”, rimasto nell’animo dell’amico Dale dopo la cauterizzazione di un trauma profondo. Una sorta di spirito protettore risvegliato da ricordi nascosti e incubi ricorrenti, che cerca di comunicare attraverso una strana miscela di idiomi, come se non ricordasse più – nella nuova dimensione in cui si trova – quale sia il linguaggio dei vivi.

In questo contesto, le numerose citazioni colte che Simmons tanto ama, trovano una collocazione funzionale ai fini del pathos narrativo: Shakespeare, Proust, James, Milton, Scott. Ma anche Il Papiro di Ani e il Beowulf, naturalmente, nel cui inglese antico vengono rivelate le chiavi per la salvezza mentale e materiale di Dale.

Cenni dal sapore oscuro ci rivelano ombre di mitologia remota, come già era accaduto nel romanzo precedente.

Osiride è la divinità maligna contro la quale vengono invocati Anubi e i mastini infernali: il Dio e i Guardiani dei Morti, non solo psicopompi, ma entità la cui mansione è riportare indietro quelle anime che attraversano il confine dell’aldilà nel senso sbagliato. Dale e Duane riescono a incontrarsi su quel confine, stabilendo un’alleanza duratura.

Se L’Estate della Paura è un romanzo corale, giocato sull’azione e svolto seguendo una narrazione lineare in crescendo di suspense, L’Inverno della Paura è un’avventura solitaria, concertata su un singolo profilo psicologico e sul suo specifico horror interiore. In un’atmosfera da Il Sesto Senso, il filo narrativo è spezzato da continui flashback, che rendono quanto mai precario il limite tra reale e irreale, tra presente e passato, tra vita e morte.

In sostanza, Summer e Winter offrono un valido substrato l’uno all’altro, rendendo difficile stabilire quale sia il sequel e quale il prequel: entrambi confluiscono a plasmare un’unica affascinante storia circolare, in cui il passato e il presente sono inesorabilmente collegati.


Anteprima testo

Capitolo 1

Quarantuno anni dopo che ero morto, nel corso di un inverno molto rigido, il mio amico Dale tornò alla fattoria dove ero stato assassinato.

So cosa state pensando. C’è quel vecchio aneddoto giornalistico relativo a quando William Randolph Hearst ebbe bisogno di qualcuno che andasse a fare un servizio sull’inondazione avvenuta a Johnston e mandò un giovane reporter alle prime armi, per il quale quella rappresentava la grande occasione della carriera. Il giorno successivo il novellino telegrafò al giornale di Hearst le seguenti parole: OGGI DIO SEDEVA SU UNA COLLINA SOLITARIA AL DI SOPRA DI JOHNSTON, INTENTO A CONTEMPLARE ADDOLORATO LA VIOLENTA DISTRUZIONE OPERATA DALLA NATURA.

I veterani del giornalismo giurano che Hearst non lasciò passare più di dieci secondi prima di trasmettere la seguente risposta: LASCIA PERDERE L’INONDAZIONE E INTERVISTA DIO.

Vi ho appena detto che sono morto quarantuno anni fa, e la vostra risposta è: Lascia perdere la storia riguardante Dale. A chi importa? Dicci cosa si prova a essere morti… com’è l’aldilà? Come ci si sente a essere un fantasma? C’è un Dio?

Per lo meno queste sarebbero le domande che farei io. Purtroppo non sono uno spettro, e non so niente dell’aldilà. Quando ero vivo, non credevo nei fantasmi, nel paradiso, in Dio o nel fatto che lo spirito possa sopravvivere alla morte per andare incontro alla resurrezione o alla reincarnazione, e continuo tuttora a non crederci. Se dovessi descrivere il mio stato esistenziale attuale, direi che sono una ciste di memoria. La percezione che Dale ha di me è così intensa, così isolata e cauterizzata da un senso di trauma rispetto al resto della sua consapevolezza, che sembro esistere come qualcosa che è più di un ricordo, ma meno di una cosa viva; si potrebbe dire che sono un buco nero di ricordo olistico generato dal collasso gravitazionale del dolore.

So che questa non è una vera spiegazione, ma del resto neppure io capisco bene la mia situazione: so soltanto che sono, e che ce stato un… “risveglio” è forse il termine più indicato… quando Dale decise di tornare qui e di passare l’inverno nella fattoria in cui vivevo un tempo, e dove sono morto.

No, non conservo alcun ricordo della mia morte, non ne so al riguardo più di quanto ne sappia Dale. Evidentemente la morte è come la nascita, un evento così importante da rendere impossibile rammentarlo.

Quando ero vivo ero soltanto un ragazzo, ma ero piuttosto intelligente e assolutamente deciso a diventare un giorno uno scrittore. Ho trascorso anni a prepararmi per questo, a seguire una sorta di apprendistato. Pur sapendo che sarebbero trascorsi molti altri anni prima di riuscire a scrivere un vero racconto, per non parlare di un romanzo, ho continuato a esercitarmi a elaborare paragrafi introduttivi per racconti e romanzi.

Se dovessi prendere a prestito un incipit per questa storia, sceglierei il noioso romanzo Lovel il vedovo, scritto da Thackeray nel 1861:

Chi sarà l’eroe di questa storia? Non io che la sto scrivendo. Io sono soltanto il Coro, faccio commenti sulla condotta dei personaggi, narro il semplice scorrere degli eventi.

Naturalmente, l’”io” onnisciente di Thackeray mentiva, perché qualsiasi Creatore che affermi di essere un semplice Coro e un osservatore passivo delle azioni delle proprie creature è un ipocrita e un bugiardo. Altrettanto naturalmente, era mia opinione che una simile affermazione potesse al limite essere vera per quanto concerne Dio, nelle rare occasioni in cui prendevo in considerazione l’eventualità che potesse davvero esistere. Una volta, nel pollaio, mentre Dale e Mike stavano discutendo a proposito del Padre Eterno, il mio unico contributo alla conversazione fu una citazione parafrasata da Mark Twain:

Quando ci guardiamo intorno e vediamo il dolore e l’ingiustizia che ci sono nel mondo, dobbiamo arrivare per forza all’ineluttabile conclusione che Dio è un poco di buono.

Non sono certo di averci mai creduto davvero, allora o adesso, ma quelle parole sconvolsero Dale e Mike al punto da ridurli al silenzio, soprattutto Mike, che a quell’epoca faceva il chierichetto ed era estremamente devoto.

Però sto divagando, ancora prima di aver cominciato la storia – e pensare che ho sempre odiato gli scrittori che si comportano così – e mi accorgo che ancora non ho trovato una frase di apertura abbastanza efficace. Credo che ricomincerò daccapo.

Quarantuno anni dopo la mia morte, nel corso di un inverno molto rigido, il mio amico Dale tornò alla fattoria dove ero stato assassinato.

Dale Stewart percorse in macchina in meno di 29 ore gli oltre 2700 chilometri che separavano il Montana occidentale dall’Illinois centrale, con le montagne che rimpicciolivano nello specchietto retrovisore fino a scomparire e le interminabili distese di prateria autunnale che si trasformavano in una chiazza indistinta fra il rosso e il marrone. Seguendo la I-90 est fino alla I-29 sudest, per poi passare alla I-80 est e alla I-74 sud prima di riprendere a viaggiare verso est, Dale attraversò ben due fusi orari, tornando alla geometria simile a una scacchiera che caratterizza i campi del Midwest e costringendosi a un’immersione in oltre quarant’anni di ricordi, come un sub che si obbliga a scendere sempre più in profondità, ignorando il dolore e la pressione che la discesa comporta. Durante il viaggio si fermò solo per mangiare, fare rifornimento e concedersi qualche sonnellino nelle aree di parcheggio delle interstatali. Erano mesi che non riusciva a dormire bene, da prima che avesse tentato il suicidio, ma anche se ora si portava sempre appresso dei sonniferi, preferì non fermarsi per farvi ricorso durante quel viaggio, perché voleva arrivare a destinazione il più in fretta possibile. Anche se non aveva ancora ben chiaro il motivo per il quale fosse diretto proprio lì.

Aveva avuto intenzione di arrivare a Elm Haven verso metà mattinata, fare un giro della sua città di un tempo, e poi proseguire fino alla fattoria di Duane mentre il sole era ancora alto; ma quando avvistò sulla I-74 il cartello che segnalava l’uscita di Elm Haven, era ormai prossima la mezzanotte.

Aveva pianificato di insediarsi nella vecchia casa di Duane verso l’inizio o al massimo la metà di settembre, in modo da avere tutto il tempo di godere dei colori e dell’aria fresca ma ancora soleggiata dell’autunno; vi arrivò invece nella notte dell’ultimo giorno di ottobre, al termine del primo Halloween del nuovo secolo, insieme al sopraggiungere dei primi freddi invernali.

Ho sbagliato tutto, pensò, mentre imboccava il cavalcavia sovrastante la I-74 e percorreva i tre chilometri di strada deserta che lo separavano ancora da Elm Haven. Ho di nuovo sbagliato tutto. Ho rovinato tutto quello che non ho perduto, e ciò che ho perso, l’ho perso perché ho rovinato tutto.

Nel formulare quel pensiero scosse il capo con rabbia, irritato dalla propria autocompassione, e premette il pulsante che abbassava il finestrino dal lato del conducente. L’aria era resa fredda dal vento che soffiava teso da nordovest, e la cosa lo aiutò a scuotersi un poco nell’imboccare Hard Road, appena un chilometro e mezzo a sudest di Elm Haven.

Hard Road. Nonostante tutto si ritrovò a sorridere, perché si trattava di un nome a cui non ripensava più da decenni, e che tuttavia gli era affiorato in mente non appena aveva svoltato a nordovest sulla 150-A, entrando a bassa velocità nella cittadina addormentata.

Nell’oltrepassare sulla sinistra una strada asfaltata, si rese conto che la Provinciale 6 fra Jubilee College Road e Hard Road, che all’epoca in cui lui aveva vissuto a Elm Haven era una strada sterrata e fangosa che si dipanava tra due muri di granturco, doveva essere stata asfaltata nell’arco degli ultimi decenni. Se lo avesse voluto, avrebbe potuto proseguire direttamente verso nord fino alla fattoria di Duane, ma la curiosità lo spinse a entrare in Elm Haven.

La sua risultò ben presto una curiosità morbosa, perché nell’oscurità la cittadina appariva triste e rimpicciolita: era come sbagliata, ridotta nelle dimensioni, mesta ed essiccata. Un cadavere.

Nel tratto che correva lungo Hard Road, i due isolati commerciali di Main Street avevano perso parecchi edifici, e questo ebbe l’effetto di disorientarlo quanto avrebbe potuto farlo la mancanza di alcuni denti in un sorriso altrimenti familiare. Ricordava l’alta facciata del magazzino di ferramenta Jensen, al cui posto c’era adesso un appezzamento vuoto; anche l’A&P in cui lavorava la madre di Mike era scomparso. Le vetrine ammiccanti del Parkside Cafè non c’erano più, perché adesso quella era un’abitazione privata, e il Lucky’s Grill, dall’altra parte della strada, pareva essere diventato una sorta di mercatino delle pulci, con una quantità di animali impagliati che dalle vetrine fissavano Hard Road con occhi neri impolverati. Il Corner Pantry Market era sprangato, l’adiacente bottega del barbiere non c’era più, e Bandstand Park era peggio che scomparso, perché adesso il minuscolo spazio che aveva occupato era ingombro di svariate baracche di metallo, il palco per la banda era stato abbattuto e gli alberi sradicati, mentre il monumento ai caduti era ormai nascosto dalle erbacce.

Effettuata una conversione a U, Dale si diresse di nuovo a est, girando a nord su Broad Avenue. Il cielo era coperto da nuvole basse, sospinte da un vento gelido che soffiava le foglie secche attraverso l’ampia strada davanti al suo Toyota Land Cruiser; il suono crepitante che producevano assomigliava a uno scalpiccio di ratti, e per un istante la stanchezza indusse quasi Dale a convincersi che quelli erano davvero ratti, che stavano passando a centinaia davanti ai coni di luce proiettati dai fari.

Non c’era illuminazione stradale lungo Broad Avenue; i grandi olmi che un tempo protendevano i loro rami in ampi archi al di sopra della strada erano da decenni caduti vittime della malattia degli olmi, e gli alberi che erano stati piantati successivamente apparivano più piccoli, stentati, irregolari, quasi ignobili al confronto di quelle piante secolari. Alcune delle…

L'Inverno della Paura - Copertina

Tit. originale: A Winter Haunting

Anno: 2002

Autore: Dan Simmons

Ciclo: Summer of Night #4

Edizione: Gargoyle (anno 2012)

Traduttore: Annarita Guarnieri

Pagine: 361

ISBN: 8889541725

ISBN-13: 9788889541722

Dalla copertina | Sono passati 40 anni, e Dale Stewart fa ritorno a Elm Haven. Già autorevole professore di college e romanziere accreditato, ha messo a repentaglio carriera matrimonio e adesso l’oscurità gli si sta chiudendo intorno. Nelle ultime ore della notte di Halloween, Dale arriva nella morente cittadina dove ha trascorso la sua fanciullezza sperando di trovare nell’isolamento pace e voglia di ricominciare una vita normale. Tuttavia, la scelta di sistemarsi in una fattoria fuori città da tempo abbandonata, un tempo abitazione di un suo strano e geniale amico morto drammaticamente nella terribile estate del 1960, si rivela l’ennesimo di una lunga successione di errori. Laggiù, infatti, Dale non è solo: è stato seguito in quella casa dalle ombre dei suoi demoni personali, che ora distorcono la realtà, facendole assumere nuove, orribili forme. Poi, in anticipo sulla stagione, una fitta coltre di neve scende a rivestire ogni cosa…