La fuga dall’equivoco è nella differenza fra l’essere infinito e l’essere senza fine. Infinito è assenza della percezione spazio-temporale, in ogni punto, un modo di esistere non umano o, secondo le nostre facoltà, un non esistere. Non un insieme infinito di unità ma l’impossibilità di concepire l’elemento discreto poiché questo, ovunque e in ogni momento, si trasforma nell’infinito stesso.
Totalità inafferrabile.
La stessa ricerca di definizioni esaustive naufraga girando a vuoto, e discutere per giorni dell’infinito non basterebbe a descriverlo pienamente: esso è estraneo all’intelletto quanto ai sensi, così da non poter né rappresentarlo, né viverlo.
Non la nostra mortalità è la ragione per cui ci rimane estraneo, bensì il fatto che, se fossimo in grado di percepirlo totalmente, cesseremmo di esistere in quanto uomini.
Forse saremmo semplicemente morti.
Altra cosa è l’essere senza fine, che ci permette di lasciare inalterata la dimensione spaziale dell’esistenza e che, riguardo la percezione del tempo, comporta la successione eterna di attimi infiniti ma non l’infinità dell’attimo.
Non possiamo rappresentarlo in un’espressione finita ma non è detto, almeno su un piano teorico, che non potremmo viverlo, poiché nella presenza del momento esso lascia inalterata la nostra esistenza spazio-temporale, manifestandosi come infinito nella totalità ma non nelle singole parti.
È in questo limite parziale che l’essere umano in quanto tale percepisce l’universo, e che l’universo stesso esiste, a prescindere da una condizione di immortalità. Se si concede al robot una coscienza, presupposto implicito già dalle prime sequenze de L’uomo bicentenario, egli è senza fine ma non infinito, ossia percepisce il mondo allo stesso modo di un essere umano.
L’evoluzione è il suo tratto distintivo dominante (“Le cose cambiano”, ripete) e Andrew, che viva duecento o duemila anni, si definisce nello spazio-tempo, falsificando l’assunto secondo cui non subirebbe gli effetti degli anni che scorrono. Semplicemente, non ne subisce gli effetti negativi.
Non invecchia ma impara, ed ha memoria, come il film rimarca non casualmente nelle scene immediatamente successive alla prima grande ellissi temporale (quindici anni) messa in scena.
I rintocchi assordanti degli orologi inducono gli umani, invecchiati da un fotogramma all’altro, a tapparsi le orecchie e imprecare (“Non li sopporto più, questi maledetti orologi”), salvo rivelare nelle battute seguenti che gli stessi orologi sono opera del robot, frutto del lavoro che Andrew ha imparato a svolgere.
Qui è la chiave. Non solo nel fatto che egli non abbia difficoltà a considerare l’orologio come strumento utile alla vita (dimostrando la propria famigliarità alla percezione del tempo), ma soprattutto nel modo in cui l’effetto dei quindici anni trascorsi viene (metaforicamente) messo in scena per gli uomini e per il robot: rughe per gli uni, conoscenza per l’altro. Ma entrambi hanno sentito allo stesso modo i singoli istanti di vita, e il loro potere modificante.
La scena successiva, puntuale, regala ad Andrew anche il possesso dei ricordi, e con esso l’esistenza di una biografia individuale da aggiungere alla facoltà impersonale di immagazzinare nozioni astratte. Posto davanti a una finestra al trentasettesimo piano di un grattacielo, egli rifiuta di avvicinarsi in quanto memore dell’esperienza vissuta nella prima parte del film, quando la piccola figlia dei Martin lo aveva indotto a gettarsi dalla finestra della sua camera.
Il robot manifesta una percezione del tempo così autentica che in più di un’occasione, addirittura, sembra dimostrare di avere fretta: quando racconta barzellette a raffica senza rispettare le pause della comicità (e viene rimproverato di non possedere “tempismo”), quando rivela che il suo stipendio mensile equivale al ricavo annuale di un grande industriale, quando si affanna nella ricerca dei suoi simili (affrontata percorrendo materialmente e faticosamente lo spazio) dopo aver annunciato quasi con sofferenza che l’impresa gli avrebbe occupato “parecchi anni”.
La superiorità esperienziale di Andrew, piuttosto, risiede nell’evidenza che egli non solo ha consapevolezza del tempo, ma ne ha una coscienza totale e priva di lacune, per quanto mai infinita poiché, a sua volta, l’infinito può (forse) viverlo ma non rappresentarlo (neanche a se stesso) con un atto cognitivo o espressivo circostanziato. Da una parte, il robot si fa custode come nessun altro, attraverso la letteratura, della storia e del sapere umani. Dall’altra la sua biografia individuale può essere conservata nel ricordo senza che gli effetti selettivi della memoria (ancora una volta, un esito “negativo” del tempo trascorso) vi esercitino la loro influenza, o almeno senza che la esercitino a prescindere dalla volontà del soggetto.
E, mentre la propensione del robot alle attività artistiche pare la più facile metafora della vittoria sull’oblio, egli vive il tempo con tale intensità da tradurlo in una memoria totale, per di più destinata a divenire strumento di un processo evolutivo che del tempo lineare e vettoriale rappresenta la migliore manifestazione.
La risultanza è che Andrew dispone di un repertorio di dati riferito a duecento anni di esistenza (cui sommare tutto ciò che impara leggendo) dal quale selezionare i materiali utili alla costruzione di un percorso corrente. Può dominare il tempo conferendo senso a un periodo lunghissimo, possibilità negata alle più ristrette facoltà intellettive umane, e corrispondente, invece, al potere onnisciente del cinema.
Custode di durate diversissime e parimenti racchiuse nello spazio di due ore, il cinema può gestire una biografia bicentenaria trasmettendogli coerenza mediante la messa in scena degli elementi appropriati alla costruzione di un filo logico, subordinati a un tema (in questo caso, l’evoluzione verso un’esistenza umana) che funge da matrice per la traduzione di una cronologia continua, e totalmente posseduta, in un percorso coerente che non dimentica alcun evento essenziale.
Se il cinema non possedesse le stesse facoltà di dominio sul tempo e sulla memoria che sono conferite ad Andrew, la rappresentazione del lungo periodo (dalla vita di un uomo, alla storia di una civiltà, a quella di un pianeta) si tradurrebbe nella disordinata emersione di ricordi concessa dalla memoria umana, negando la possibilità di quella linea evolutiva coerente che, in un gioco di scatole cinesi, rappresenta esattamente il progetto esistenziale del robot.
Possiamo presupporre che lo stesso protagonista abbia vissuto lunghe fasi di vita in cui pensasse semplicemente a lavorare, o a mangiare, o a divertirsi, ma non siamo costretti a ipotizzarle, né la loro assenza dalla rappresentazione ci restituisce una sensazione di vuoto. La costruzione cinematografica le rende superflue rispetto al proprio intento comunicativo, che prima possiede il tempo (conosce perfettamente l’intera successione di eventi che lo compone), poi lo domina, scegliendo al suo interno le unità e i percorsi utili alla rappresentazione essenziale del tema e della sua traduzione narrativa.
Quando Richard chiede ad Andrew di “rivedere” la giornata appena trascorsa, il robot, selezionando all’interno della propria memoria totale, non propone né là totalità degli eventi né un’unità qualunque, bensì quella essenziale (un momento suggestivo del matrimonio di Piccola Miss) per una narrazione adeguata dell’arco temporale in questione, proiettandone l’immagine davanti a sé in una perfetta emulazione del cinematografo.
Ma qualunque film, per quanto ampia possa essere la realtà che racconta, ha i suoi titoli di coda.
In questo senso, che ci rimanda all’impossibilità di rappresentare il senza fine anche ammettendo di poterlo vivere, può leggersi la scelta conclusiva di Andrew, che decide di consegnarsi alla morte. Egli mette fine alla propria vita per dare inizio al film, o magari rinuncia all’esperienza vissuta del senza fine per tentarne una rappresentazione, ma non è detto che la scelta fosse obbligata. Gli sarebbe bastato, forse, completare la sua identificazione nel cinema e frazionare la propria biografia (virtualmente infinita) in racconti diversi, ognuno concluso al suo interno ma realizzabili in un numero (virtualmente) infinito di episodi, o di sequel.
L’ultimo film nella storia dell’umanità, del resto, non è stato ancora girato.
La vera ragione dell’anelito di Andrew ad essere riconosciuto come “uomo” si nasconde allora in un bisogno di omologazione che sa molto di biopolitica, e si fa tramite di un’ideologia discutibile, sfruttata dal regista per il compiacimento dello spettatore più maldestramente romantico. Lo stesso protagonista, con la sua battaglia ostinata in nome di una certificazione (il matrimonio), si fa complice di una morale troppo facile, quasi dimenticando di spostare la questione verso il suo fulcro autentico: non l’essere riconosciuto come umano, ma il vedersi conferiti gli stessi diritti riservati agli uomini, pur in una condizione di diversità naturale.
In fondo, egli non ha ottenuto i presupposti biologici della nostra specie, impossessandosi piuttosto dei tratti intellettivi, emotivi e morali sufficienti a una convivenza in pari stato di dignità.
La stessa condizione della mortalità non conferisce ad Andrew una conformazione umana (i suoi organi, cervello compreso, restano sintetici), limitandosi a trasformarlo da robot imperituro a robot con scadenza, tanto da regalare qualche ragione al Rupert incaricato della trasfusione suicida: “se qualcuno diventa un essere umano, prima o poi fa qualcosa di infinitamente stupido” .
Non si tratta solo di sostanze chimiche differenti, perché anche sul versante delle facoltà mentali il robot si differenza dall’uomo, risultando immensamente più intelligente da un lato e più ingenuo dall’altro.
Due domande, allora. Primo: perché la rinuncia a una vita senza fine è condizione biologica sufficiente e non solo necessaria (visto che fisicamente Andrew non ha nient’altro di umano) ad essere considerato persona come le altre? Secondo: perché il robot accetta un’offerta in fin dei conti clamorosamente sconveniente, dal momento che anche come non-umano egli aveva la possibilità di essere parte della società, lavorare e amare, mentre l’unica possibilità esplicitamente negategli restava quella del matrimonio? In quest’ultimo termine sta la risposta ad entrambi i quesiti.
Matrimonio, ossia un sacramento. Per essere uomo si deve essere mortali, ed essere mortali serve a ricevere i sacramenti.
È inevitabile che il discorso converga verso il tema della religione e delle sue funzioni, conducendoci direttamente all’ultima battuta del film, quel “a fra poco” che l’amata Porzia (appena decretata la propria eutanasia) rivolge a un Andrew deceduto da qualche istante.
Quella possibilità di “vedersi fra poco” rimane l’unica conquista che il robot abbia davvero ottenuto solo dopo che il Gran Consiglio Mondiale ha decretato la sua condizione di uomo. Senza questa concessione, Andrew aveva già conquistato aspetto esteriore e sentimenti umani, la possibilità di lavorare, amare e avere una famiglia, ma non l’accesso all’esistenza post-mortem.
L’uomo che definisce se stesso mediante la propria mortalità diviene così uomo che si arroga sulle altre specie un’unica autentica superiorità, quella spirituale, identificando tragicamente la matrice dell’animo religioso non nell’amore (che anche l’Andrew “senza fine” poteva provare), ma nel premio della resurrezione.
Le motivazioni addotte dal Consiglio per respingere la prima richiesta di Andrew, in una sorta di lapsus freudiano, svelano la menzogna e allungano la solita ombra sulle ragioni profonde della devozione religiosa: l’elevazione del robot a uomo non è ostacolata da qualche assunto secondo cui nella sua condizione egli non potrebbe vivere i principi d’amore dettati da Dio, ma dal pericolo che l’esistenza di un essere umano immortale generi troppa “invidia e rabbia”.
Quel “ci vediamo fra poco” che chiude la pellicola pare sancire allora il compimento di una parabola cristiana, per cui l’Andrew che accetta il sacrificio viene ricompensato con una mortalità preferibile rispetto a quella che avrebbe vissuto sulla Terra (l’infinito anziché il senza fine?), ossia con il viaggio verso il Paradiso (bisognerebbe chiedergli se ci è arrivato).
Ma la sensazione inquietante è che nessun membro della comunità umana, al suo posto, avrebbe accettato lo scambio.