La Bambina che amava Tom Gordon

La Bambina che amava Tom Gordon

Nella vasta produzione bibliografica di Stephen King, tra sconvolgimenti che irrompono con violenza nella quotidianità causando mutamenti profondi da una parte, ed esseri soprannaturali o comunque pericolosi e malvagi che minacciano l’incolumità dei protagonisti dall’altra, è possibile individuare una terza via all’interno della quale i protagonisti si trovano a fronteggiare una solitudine quasi insostenibile. È chiaro che non si tratta di una produzione a parte, perché i diversi temi tendono spesso a sconfinare l’uno nell’altro. Piuttosto si potrebbe dire che i suoi romanzi possono essere ricondotti all’uno piuttosto che all’altro tema a seconda di quale aspetto di volta in volta risulta in primo piano.

Il tema dell’isolamento che conduce alla follia è uno degli elementi fondamentali di romanzi quali La Lunga Marcia (in cui il protagonista partecipa ad una gara di resistenza e sopravvivenza; uno dopo l’altro tutti i partecipanti che non riescono a mantenere costantemente una certa velocità minima vengono fucilati dai soldati che li seguono, fino a che non rimane in vita solo il vincitore) o Shining (che vede Jack Torrance perdere progressivamente il lume della ragione tra le mura dell’Overlook Hotel durante il lungo soggiorno invernale assieme alla sua famiglia).

Ma è con Il Gioco Di Gerald che lo scrittore del Maine si addentra più a fondo nel territorio dell’isolamento: una donna di nome Jessie, in seguito a un gioco erotico che si conclude con il decesso del marito, si trova immobilizzata e senza possibilità di chiedere aiuto. Sola e impaurita, ammanettata al letto della sua isolata residenza di villeggiatura nei pressi di un lago, la protagonista non potrà in alcun modo evitare di fronteggiare i fantasmi che affollano la sua mente, i ricordi di un passato doloroso così come le ombre che sommergono la sua stanza avvolgendola al calar del sole. E malgrado tutte le differenze che separano l’adulta Jessie dalla piccola Trisha, è qualcosa di simile a quanto si troverà a fronteggiare quest’ultima ne La Bambina Che Amava Tom Gordon, durante il suo viaggio alla ricerca di una via d’uscita dalla foresta dentro la quale si è persa.

Patricia McFarland “ha nove anni ma è alta per la sua età e sembra più grande”. Durante una gita in montagna assieme alla madre Quilla e al fratello Pete si allontana dal sentiero per un bisogno fisiologico. Una volta espletato, si rende conto di non essere più sicura di ricordarsi come ha fatto ad arrivare nel luogo in cui si trova. E così, seguendo delle voci che le sembra di sentire provenire da dietro un muro di vegetazione, decide di prendere una strada differente, accorgendosi infine di essersi persa, inghiottita da un paesaggio sempre identico in ogni direzione.

Con solo i vestiti che ha indosso (una maglia dei Red Sox ed un berrettino con visiera autografato dal suo idolo, il lanciatore Tom Gordon) e uno zaino sulle spalle contenente le poche provviste che erano state previste per l’escursione, una mantellina per la pioggia, un walkman e poco altro, inizia la sua ricerca di una via d’uscita. Tra attacchi di panico, ondate di pioggia e sciami di moscerini e zanzare, Trisha cerca di comportarsi come secondo lei farebbe un adulto. Capisce subito la necessità di razionare i consumi e di nutrirsi solo con cibi che conosce per evitare intossicazioni e avvelenamenti. Ma per quanto cerchi in ogni modo di gestire la situazione come farebbe una persona più grande, rimane pur sempre una bambina, con tutti i limiti derivanti dall’età e dall’inesperienza.

Potendo fare affidamento solo sulle poche nozioni che aveva avuto modo di imparare in passato a proposito di orientamento e cibi commestibili, Trisha vaga attraverso la foresta con la sola compagnia di un walkman che le permette di seguire qualche notizia e le partite dei Red Sox, e una vocina dentro di lei che le ricorda in continuazione gli scenari peggiori che si trova a fronteggiare. E a coronamento di tutto, la frequente sensazione di essere osservata e seguita da una creatura misteriosa e terrificante. Su quest’ultimo punto King riesce a mantenere una certa ambiguità di fondo, per quanto il fatto di ambientare la storia nelle stesse zone di Pet Sematary – e non solo – possa far propendere per una reale esistenza di quest’essere mostruoso.

Anziché in capitoli, proprio come una partita di baseball, il libro è diviso in inning. E ognuna delle nove parti che compone la partita rappresenta una sorta di girone dantesco che Trisha dovrà attraversare per uscire dal suo inferno. Con la sola guida di un Tom Gordon immaginario a rivestire i panni del suo personale Virgilio, Trisha cerca di ritrovare quella diritta via che aveva smarrita nel momento in cui si è addentrata nella selva oscura, un modo per uscire a riveder le stelle dopo aver attraversato paludi, corsi d’acqua e fitte vegetazioni. Similmente a quello reale, specializzato in salvataggi, il suo Tom Gordon immaginario le appare e le parla nei momenti in cui, stanca e scoraggiata, sembra essere sul punto di cedere e arrendersi a un destino crudele. Perché come spesso accade nei romanzi di King, un viaggio è un’esperienza psicologica prima ancora che fisica. E indipendentemente dalla reale consistenza della creatura che sembra seguirla, quello che la bambina si trova ad affrontare è un duello con se stessa e la propria esistenza, con la propria voce interiore come con il suo presente e le sue speranze.

Per quanto ci provi, per questioni anagrafiche Trisha non ha modo di raggiungere la profondità di elaborazione di una Jessie ammanettata al letto, ma allo stesso tempo, proprio in virtù del minor numero di ricordi e sovrastrutture mentali in generale, ha modo di entrare in contatto con quel subudibile del quale le aveva parlato il padre. Infatti, uno dei ricordi che riaffiora alla mente della bambina riguarda la volta in cui aveva chiesto al padre spiegazioni su Dio e il genitore le aveva risposto confessando di non credere in un Dio come quello insegnato dalla religione, ma di credere in qualcosa che potrebbe essere definito come “subudibile”, cioè qualcosa che fa costantemente da sfondo alla vita di tutti i giorni ma che le persone non riescono a percepire perché sommerso da una miriade di altri rumori.

La Bambina Che Amava Tom Gordon non è quindi solo l’avventura di una bimba alla ricerca di una via per tornare a casa, ma è anche una cronaca del suo viaggio alla scoperta del subudibile, dell’emergere di una sorta di radura luminosa nella quale il mondo si affaccia esibendo in primo piano tutto quello che normalmente rimane sullo sfondo. Sola e lontana dal divorzio dei genitori, dai problemi del fratello, dalla scuola e dagli insegnanti come dalla sua amica Pepsi Robichaud, con il suo addentrarsi nella foresta e il progressivo allontanamento dalle sicurezze e dalle comodità della vita di tutti i giorni, Trisha ha modo di fare un’esperienza che, indipendentemente dall’esito o dalle conseguenze pratiche, modificherà radicalmente il suo sguardo sul mondo. E non solo in ragione della sofferenza estrema e della pericolosità mortale che la avvolgono in modo sempre più intenso a mano a mano che si addentra nel paesaggio ostile che la circonda, ma anche e soprattutto perché l’esser riuscita a percepire il subudibile è qualcosa che le permetterà di vedere il mondo sotto una nuova veste.

Al di là della fame e della sete, delle ferite e delle contusioni, dei malesseri e delle punture d’insetti, della paura, del panico e della solitudine disperata, è soprattutto la percezione del subudibile a irrompere nel quadro delle sue certezze scardinandole e modificandole intimamente, trasformando prematuramente una semplice scampagnata in montagna come tante altre in un viaggio iniziatico verso l’età adulta.

Su concessione di Colonia Lunare